Oggi si sente spesso parlare di male gaze, ovvero del modo in cui la rappresentazione della donna, non solo negli ambiti più disimpegnati ma anche in quelli centrali come la politica, sia ancora troppo spesso delegata allo sguardo maschile, un filtro che la plasma e la regola a suo piacimento. Negli anni stiamo modellando in modo sempre più decisivo questa differenza di visione, affinché la disparità che ne deriva rimanga solo un ricordo, ma in passato ci sono state delle eccezioni notevoli, in tempi e in ambienti fuori contesto: nel cinema italiano degli anni Sessanta, per esempio. Tutti sappiamo che il decennio del boom è stato anche il decennio dei grandi mattatori, dei registi straordinari, delle commedie di Dino Risi, Mario Monicelli, Pietro Germi, dei grandi sceneggiatori come Age e Scarpelli, ma c’è un regista di cui purtroppo, per una serie di ragioni, si parla molto meno quando si allude a quel decennio dorato: Antonio Pietrangeli, un grande intellettuale, colto, che conosceva il cinema alla perfezione, aveva lavorato con grandi maestri del neorealismo e scriveva di critica cinematografica per la rivista del Centro sperimentale di Roma, Cinema. La carriera di Pietrangeli non è mai stata animata da picchi esplosivi di successo, né esiste una vera e propria eredità del suo cinema, tranne forse nell’opera di Ettore Scola, con cui scriveva spesso i suoi film. Il suo cinema non era considerato abbastanza intellettuale per essere cinema d’autore al pari di Antonioni o Fellini e, al tempo stesso, non era abbastanza comico e leggero per essere una commedia all’italiana, perché Pietrangeli aveva provato a creare quel compromesso unico e democratico del nazionalpopolare, dove la cultura e la bellezza raffinata scendevano al servizio di storie autentiche e comprensibili a tutti.
Pietrangeli non era un femminista, ma cionondimeno è stato spesso definito “il regista delle donne”, perché in anticipo rispetto allo spirito del tempo in cui viveva – un periodo in cui le lotte per l’emancipazione femminile dai ruoli sociali in cui la donna veniva emarginata cominciavano lentamente a fiorire – aveva la capacità di rappresentare le protagoniste femminili come nessun altro in quel momento. Le sue donne, libere ma anche prigioniere, spensierate e profonde allo stesso tempo, sono protagoniste che disegnano un ritratto onesto e al contempo poetico della donna degli anni Sessanta in Italia. Tutti i suoi finali, poi, sono dei non-finali; non c’è soluzione, così come non c’è emancipazione, le donne di questo regista vivono la lacerazione umana e politica di un tempo che si appresta a concedere loro il ruolo di vere protagoniste. Per questo nelle vite delle donne che raffigura Pietrangeli non c’è traccia né di paternalismo né di moralismo, ma solo una limpida necessità di racconto che non si avvale di mezzi retorici accomodanti e neppure crea una patina maschile attraverso cui godere della rappresentazione femminile.
Quattro donne sono le protagoniste di Adua e le compagne, del 1960, un film che per certi aspetti, sembra un ultimo colpo di coda del tardo-neorealismo italiano. Il tema, infatti, è quello molto dibattuto e centrale per gli anni successivi della Legge Merlin: abolite le case chiuse, tante donne si ritrovano senza un lavoro, a dover battere per strada e a dover sottostare alla “tutela” di un uomo che in realtà le sfrutta. Le quattro protagoniste decidono di rimboccarsi le maniche e mettere i loro risparmi insieme per comprare un casolare sull’Appia Antica, trasformarlo in un ristorante e, non appena la clientela si sarà affezionata, usare il piano superiore per continuare a prostituirsi. Le cose vanno meglio di quanto tutte sperassero e nessuna di loro ha più voglia di tornare a quella vita, ma il patto stretto con uno strozzino che ha concesso loro la licenza per poter aprire il ristorante – le ex prostitute erano schedate ed emarginate per il loro lavoro – obbliga queste donne a dover rinunciare al loro sogno. Niente più matrimonio, né trattoria, né custodia dei propri bambini: il film si conclude con un’altra amara verità, non c’è redenzione per chi dal mondo viene bollato come criminale, specialmente se si tratta di donne. Anche in Adua e le compagne si percepisce il tocco raffinato, cinico e intelligente di Pietrangeli, che non lascia trasparire nessun intento favolesco a una storia che invece trasuda ingiustizia e rabbia. In questo film compare una giovane ed emergente Sandra Milo, che sarà protagonista anche di La visita, del 1963, dove recita la parte di una donna di trentasei anni, matura e indipendente, che cerca marito.
L’ambientazione di La visita, così come quella di Il magnifico cornuto, del 1964, e di La parmigiana, interpretata da Catherine Spaak nel 1963, è la provincia italiana del Nord: Brescia, Parma, le sponde del Po. Pietrangeli si sposta dal caos romano di quegli anni in cui la capitale era protagonista del cinema mondiale e lascia che sia l’atmosfera più rarefatta e delicata della pianura Padana a fare da sfondo ai suoi racconti, con tutto l’assetto sociale che la compone. Come avviene, per esempio, in La visita, dove il protagonista maschile, un mascalzone romano che raggiunge Pina (Sandra Milo), dopo aver letto un suo annuncio matrimoniale sul giornale, si scontra con la comunità compatta del Po: tutti si accorgono della sua sostanziale differenza caratteriale con Pina, ma il desiderio di avere qualcuno al suo fianco, per la donna, la porta ad accettare l’uomo così com’è, in un moto di passiva rassegnazione. Sia Pina che Dora, protagonista di La parmigiana, hanno rapporti sessuali extramatrimoniali, vivono il rapporto con l’altro sesso in modo libero e spregiudicato, ma sanno entrambe che questa ambiguità morale, per quanto esercitabile nella propria realtà soggettiva, porta delle conseguenze a livello sociale e, difatti, sia Pina che Dora subiscono il destino del marchio Pietrangeli, anche loro con finali aperti, indefiniti, misteriosi sul futuro che si affaccia di un’Italia che purtroppo neanche lui riuscirà a vedere, né a raccontare.
Il film più bello, nonché il più famoso, che abbia mai diretto Antonio Pietrangeli, però, è Io la conoscevo bene, uscito nel 1965. Tecnicamente, il lungometraggio richiama alcuni elementi formali della Nouvelle Vague francese, sia per quanto riguarda l’uso dei flashback che per i lunghi piani sequenza; il bianco e nero, in combinazione con la grande interpretazione di Stefania Sandrelli – attrice che a quel tempo era appena maggiorenne – ha contribuito a creare l’identità forte e inconfondibile di questa pellicola, non a caso inserita nella lista dei cento film italiani da salvare. Anche la colonna sonora è particolarmente iconica, non solo quella originale composta dal maestro Piero Piccioni, con cui Pietrangeli ha spesso collaborato, ma anche per via delle canzoni pop che il regista ha inserito, da Mina a Sergio Endrigo. Si tratta di un film a tappe, lunghi blocchi di tempo entro i quali la vita della protagonista, una ragazza di umili origini che viene dalla provincia pistoiese, si articola alla ricerca di un posto nel mondo dello spettacolo. Adriana, questo il nome della protagonista, è in bilico tra ciò che potremmo definire un coraggio ostinato e spensierato e una totale e illogica ingenuità: qualsiasi cosa le capiti, qualsiasi porta in faccia, momento di vergogna, compromesso che si trova ad affrontare, è come se le scivolasse addosso senza recarle nessun danno. Si muove sinuosamente tra le vie notturne e scintillanti della Roma felliniana anni Sessanta, frequenta le feste e i luoghi dove lo spettacolo diventava realtà, vive come una banderuola in questa danza che lei stessa balla con la precarietà spietata della vita di una giovane e bellissima donna senza mezzi se non quello del suo corpo. Tutto passa indisturbato sotto ai suoi occhi, finché non è lei stessa a mettere inaspettatamente fine a questo flusso, togliendosi la vita. Manifesto del cinema di Pietrangeli, l’epilogo di Io la conoscevo bene è la conclusione perfetta del suo modo di rappresentare al contempo l’impulso vitalista e liberatorio della donna italiana di quel tempo, ma anche la sua fondamentale, acerba e frustrante inconcludenza.
Pietrangeli, purtroppo, è morto prima di poter vedere cosa sia stata l’Italia del post-boom economico, non solo da un punto di vista cinematografico ma anche sociale e culturale. Mentre nell’estate del 1968 a Gaeta svolgeva un sopralluogo in mare per il suo film Come, quando, perché, uscito postumo nel 1969, ha infatti sbattuto la testa su uno scoglio ed è annegato. È una coincidenza bizzarra, ma forse anche ironicamente in linea con la sua poetica e il suo stile, quello di un cinema che non dà mai spazio a un classico lieto fine ma ci lascia l’amaro in bocca, ogni volta in modo diverso. È vero che tuttora esiste un problema di rappresentazione femminile, sottostima delle capacità, anni di esclusione ed emarginazione, ma esistono anche uomini come Antonio Pietrangeli che, ben prima di qualsiasi tendenza di costume, hanno reso possibile con la loro arte un luogo di racconto e di condivisione per le donne, intese non come personaggi subalterni né come co-protagoniste. Motivo per cui, ad oggi, il nome di Antonio Pietrangeli dovrebbe venirci in mente subito quando pensiamo ai grandi del cinema italiano, anche per consentirgli quel lieto fine che ai suoi film lui non ha mai dato e che la sua storia personale non gli ha concesso.