In questi giorni si è sentito parlare ovunque di “de-consumismo”, un termine apparso nel Rapporto Coop 2024 sulle abitudini e lo stile di vita degli italiani nel corso dell’ultimo anno. Nel report, viene utilizzato per indicare quel nuovo atteggiamento – più lucido e razionale – nei confronti dei consumi, che la maggior parte delle persone ha iniziato ad adottare sia in risposta all’impennata dell’inflazione e alla conseguente riduzione del potere d’acquisto che di recente hanno pesato sulla situazione finanziaria di molti, sia per assecondare un cambiamento di percezione, soprattutto nel nostro modo di guardare al superfluo. Gran parte dei consumatori, come riscontro in prima persona anche tra le persone a me più vicine, sembra infatti aver scoperto una nuova forma di benessere legata a un minimalismo inedito, limitando gli sprechi e acquisendo una maggior coscienza ambientale attraverso abitudini eco-sostenibili che li fanno sentire bene, perché ne intuiscono l’enorme utilità collettiva.
Dai dati, infatti, emerge l’instaurarsi di una correlazione sempre più stretta tra uno stile di vita attento all’ambiente e l’aumento della percezione del benessere, a livello sia individuale che sociale. Non a caso, dal report Coop emerge che le spese a cui gli italiani non vorrebbero rinunciare sono proprio quelle legate a doppio filo con la ricerca di questo tipo di appagamento: cresce così la scelta dell’usato o del ricondizionato (con 7 italiani su 10 che hanno dichiarato di preferire tecnologie rigenerate come prima opzione d’acquisto), l’interesse verso un’alimentazione sana, oltre che per una dieta sempre più vegana o vegetariana (tanto che il 39% degli italiani è disposto a ridurre il consumo di carne per limitare l’impatto della filiera), e la volontà di ridurre le emissioni legate alla mobilità (per cui il 70% dei consumatori si dice intenzionato a comprare veicoli elettrici in futuro, mentre i mercati di car e bike sharing continuano a espandersi).
Oltre alle abitudini di consumo, a modellare il nostro stile di vita su questo modo alternativo di intendere il risparmio – che non vediamo più soltanto come una rinuncia, bensì come una presa di consapevolezza e responsabilità necessaria – ci sono anche le nuove modalità di lavoro che abbiamo integrato tramite la digitalizzazione, una su tutte lo smart working. È ormai risaputo che i vantaggi del lavoro da casa sono innumerevoli, sia per i bilanci interni delle aziende, sia per il benessere dei dipendenti, sia per il pianeta. Se da un lato, infatti, oltre il 60% dei lavoratori si dice disposto a cambiare lavoro pur di non rinunciare allo smart working, che considera la migliore soluzione per trovare il proprio equilibrio tra vita privata e professionale, per quanto riguarda l’ambiente si stima che due giorni a settimana di lavoro da remoto possano evitare l’emissione di circa 480 kg di CO2 all’anno a persona, grazie alla diminuzione degli spostamenti e al minor uso degli uffici – con una enorme riduzione di costi anche per le aziende, che spenderebbero potenzialmente circa il 65% in meno.
Nonostante la possibilità concreta di tenere insieme benessere individuale e riduzione dei consumi, però, lo scorso anno solo il 4,4% dei lavoratori italiani ha svolto, per almeno la metà del monte ore settimanale, la propria attività in smart working. Lo dicono i dati più aggiornati di Eurostat, che ci collocano agli ultimi posti nella classifica europea, tra Cipro e la Slovacchia. L’occasione che ci ha dato la pandemia per ripensare alla nostra vita lavorativa e metterla in relazione con il nostro benessere personale e quello del pianeta, di questo passo, rischia dunque di andare sprecata. In un momento in cui la coscienza collettiva sembra essere più sensibile a questi temi, serve dunque che anche dall’alto si guardi allo smart working come una questione stringente, la cui regolamentazione e implementazione potrebbe contribuire a plasmare alcuni dei compartimenti fondamentali delle attività umane, come il lavoro e la mobilità, rendendoli compatibili con la maggiore urgenza del nostro presente: la salvaguardia del pianeta.
L’arretratezza che permane nel nostro Paese sul lavoro da remoto può essere imputata a due principali cause. Da una parte persiste la miopia della classe dirigente, incapace di vedere nell’innovazione la risorsa competitiva che essa potrebbe effettivamente rappresentare a più livelli, come ha dimostrato la scelta di mettere fine allo smart working “agevolato” lo scorso aprile. Dall’altra, invece, ci sono le storiche ragioni di discontinuità territoriale che caratterizzano l’Italia, dove realtà più competitive, dinamiche e strutturate – concentrate prevalentemente nel Nord del Paese – convivono con altre più piccole e tradizionali. In queste ultime, infatti, in seguito all’emergenza pandemica si è registrato un ritorno in presenza decisamente più massiccio, sia per la minore dotazione tecnologica di cui dispongono, sia per la diffidenza che ancora molti datori di lavoro nutrono nei confronti del lavoro agile, temendo una perdita di controllo sui dipendenti e un calo della loro produttività – anche se le evidenze, a oltre tre anni dalla pandemia, accertano il contrario.
La combinazione di politiche poco lungimiranti e della visione superata del lavoro in cui il dibattito sullo smart working viene ancora inquadrato ha dunque determinato una generale sottovalutazione dei suoi vantaggi e benefici (nonostante ormai possediamo molti studi che li attestano), così come dell’impatto positivo che un inserimento esteso e stabile di questa pratica potrebbe avere sulle nostre vite. L’introduzione del lavoro da remoto, infatti, oltre agli effetti favorevoli sul piano individuale inerenti al work-life balance, potrebbe apportare dei vantaggi sistemici, convertendo alcuni dei settori in cui operiamo quotidianamente a una maggiore sostenibilità. L’idea stessa di optare per una modalità lavorativa che riduce, fino quasi ad azzerarle, le emissioni e i costi legati alle normali attività che qualsiasi dipendente svolge durante una giornata di ufficio – nel momento in cui esce, raggiunge il luogo di lavoro, usufruisce di impianti di riscaldamento e illuminazione che vengono accesi per lui, e ripete il tragitto per tornare a casa –, eleva la tutela ambientale a punto cardine del discorso sul lavoro, rendendola una delle tematiche imprescindibili da cui partire quando si riflette su di esso.
Questo diventa particolarmente evidente se si pensa ai vari consumi connessi con le attività lavorative, non solo come spesa che grava sulle situazioni economiche dei singoli, ma anche in termini di costi per la salute ambientale. L’esempio più eclatante in questo senso è senz’altro quello legato alla mobilità e ai trasporti, che oltre a costare fino a 3.000 euro l’anno per le persone che decidono di spostarsi con un mezzo privato, producono da soli oltre il 70% delle emissioni di CO2 europee secondo una delle ultime valutazioni dell’Agenzia Europea dell’Ambiente. Muoversi di meno, potendo ricorrere di più a mezzi pubblici, in sharing o poco impattanti, come bici e monopattini, per le commissioni da svolgere nel quartiere tra una call e l’altra, e soprattutto muoversi di meno in macchina, diventa quindi una possibilità offerta dal lavoro agile, che agisce come motore di un’evoluzione interna al mondo del lavoro, andando a beneficio sia dei lavoratori che dell’ambiente. Non si tratta, dunque, di un ragionamento sulla mobilità che coinvolge un mero cambiamento del luogo fisico di lavoro, limitandosi a evitare ai dipendenti il tragitto casa-ufficio o a fornire un buon espediente per far fronte a situazioni emergenziali. Lo smart working, tanto nei trasporti quanto in altri settori, può essere il punto d’avvio di cambiamenti strutturali tangibili a livello sociale – con dati sulla produttività che fanno intuire possibili effetti positivi sui salari, oppure un probabile aumento delle conoscenze informatiche medie della popolazione dovute alla necessità di utilizzare supporti tecnologici per lavorare – nel momento in cui fosse adottato in modo omogeneo, e senza preconcetti, dalle aziende pubbliche e private del nostro Paese.
La pandemia ci ha messo davanti a quello che rappresenta a tutti gli effetti un ripensamento globale delle modalità lavorative, tanto sul fronte organizzativo quanto su quello valutativo e di spesa, che può dare avvio a una trasformazione altrettanto profonda del nostro modo di abitare il pianeta, perché mette al primo posto la sua tutela anche nello svolgimento di attività umane ad alto impatto ambientale – più o meno direttamente connesse con il lavoro, dai consumi energetici degli uffici a quelli per la mobilità –, rendendole il più possibile sostenibili. Senza contare che l’introduzione omogenea dello smart working, attenuando anche le spese che gravano sul dipendente singolo, contribuirebbe a mitigare tutta una serie di differenze – economiche, territoriali, tecnologiche – che precludono a una parte della popolazione di accedere a vantaggi che sono in primis individuali, legati alle singole situazioni lavorative, ma che, se estesi e garantiti a tutti, determinerebbero un miglioramento generale dello stile di vita medio.
Se il risparmio, oggi, viene quindi inteso sempre più come un valore positivo, in quanto argine principale della tendenza consumistica che sta bruciando il nostro pianeta, possiamo trovare nello smart working una risorsa preziosa, che ci consentirebbe di risparmiare su più fronti: tagliando le spese dei singoli dipendenti, i costi delle aziende, riducendo la quantità di emissioni e, di conseguenza, anche i danni ambientali. Rivedere il nostro stile di vita in un’ottica realmente de-consumistica, modellando le attività che svolgiamo sulla salvaguardia del pianeta, è infatti l’unico modo che abbiamo per garantirci un posto nel futuro. Per questo, occorre andare oltre a politiche cieche che non ci consentano di proiettarci in un tempo a venire, e abbracciare invece quelle che ci permettono di immaginarlo come migliore del presente.
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