Come molti nati e cresciuti in città, intrappolata in casa tra i vari lockdown, negli ultimi anni ho maturato una crescente attrazione per la montagna, che oggi in Italia è la cosa più simile alla natura incontaminata che abbiamo. Lì vado per allontanarmi dalla cappa di smog della pianura, lì ascolto finalmente il silenzio e fermo, per una volta, la ruota della settimana lavorativa. Sono sensazioni comuni, e così anche io, come tanti, ho sentito una fitta al petto vedendo le seghe elettriche abbattersi sui larici di Cortina d’Ampezzo, la settimana scorsa, per fare spazio alla nuova pista da bob per le Olimpiadi invernali di Milano-Cortina 2026. Se, superata l’emozione suscitata dal rumore della motosega nel silenzio del bosco, ci si pensa razionalmente, ci si accorge che il problema oltre al taglio degli alberi in sé è più vasto, ed è collegato al motivo stesso dell’operazione: la costruzione di una pista che sarà usata per una manciata di gare e poi, presumibilmente, abbandonata per mancanza di neve – dato che già oggi l’indicatore dell’acqua stoccata nell’accumulo di neve in montagna ha raggiunto il -64% rispetto alla media del periodo 2011-2022, situazione che ha già fatto saltare diverse gare, in Italia e non solo –, uno spreco rappresentativo del nostro approccio miope all’ambiente montano.
Nonostante i pareri contrari, la grande macchina dei Giochi – e degli affari – però si è messa in moto con l’accordo per lo sviluppo e la coesione firmato a novembre dalla premier Giorgia Meloni e dal presidente della Regione Veneto Luca Zaia, per un finanziamento da 33,5 milioni di euro per realizzare bacini idrici per l’innevamento e collegare la Ski Area del Civetta e la Ski Area Cinque Torri. Rientra in questo ampio disegno il progetto della Società Infrastrutture Milano Cortina 2026 (SIMICO) per realizzare una pista di bob, skeleton e slittino, siglata ufficialmente a inizio febbraio; così la settimana scorsa è iniziato l’abbattimento di circa 600 larici nei pressi di Cortina, in un contesto, quello delle Dolomiti, che ha già 1.200 km di piste da sci.
A protestare non sono solo gli ambientalisti: sul progetto ha espresso perplessità il Comitato Olimpico Internazionale (CIO), secondo cui la pista non sarà praticabile a lungo dopo i Giochi, mentre gli impianti esistenti sarebbero sufficienti per tutti gli atleti e le gare. Poi è stato il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti a ritenere “quasi impossibile” finire i lavori entro il 15 marzo 2025 per i collaudi e le eventuali correzioni. Motivi validi per rinunciare a ricostruire la pista da bob e slittino intitolata al campione Eugenio Monti realizzata per i Giochi invernali del 1956, chiusa nel 2008 e smantellata nel 2023; si sarebbe potuto tutt’al più riaprire la pista di Cesana, in Piemonte, costata ai tempi 110 milioni, usata per i Giochi di Torino del 2006 e chiusa dal 2011; o, ancora meglio, sfruttare le strutture già operative in Austria e Svizzera, come suggerito dallo stesso CIO. Cosa che bisognerà fare comunque se i lavori non saranno finiti per tempo, con relativi costi aggiuntivi per l’affitto degli impianti. In ogni caso, come andrà a finire può farlo intuire proprio la vicenda del tracciato di Cesana: pochi anni di operatività e una manciata di gare che non hanno certo ripagato, nemmeno simbolicamente, gli enormi costi sostenuti per la realizzazione dell’impianto; quello di Cortina dovrebbe costare 81 milioni, comunque troppo rispetto ai poco più di 30 che avrebbe comportato riavviare un tracciato già esistente, senza contare gli sprechi materiali e i problemi ambientali di cui oggi, rispetto al 2006, dovremmo essere più consapevoli.
Tra le altre cose, infatti, c’è anche il sospetto – espresso dagli abitanti alla consigliera regionale di Europa Verde Cristina Guarda, che ha inoltrato una segnalazione al Nucleo Forestale di Cortina d’Ampezzo – sull’entità degli abbattimenti; secondo un’indagine condotta dalla rivista L’Altra Montagna, infatti, il progetto finale individua come “da tagliare” quasi 2mila larici, contro i 5-600 pubblicizzati. Sono piante con un’età media di circa 150 anni, con un valore ambientale, ma anche culturale e sociale, non solo per i turisti, ma anche per gli abitanti della zona. Come fa notare ancora L’Altra Montagna, poi, a fronte del taglio del lariceto era stato previsto un indennizzo da oltre 23.500 euro: è lecito aspettarsi, quindi, che ora la cifra venga adeguata all’estensione del disboscamento. Soldi che si sommano alle spese per la realizzazione di quell’impianto mostruoso che sono le Olimpiadi e che non tiene conto dei costi indiretti delle conseguenze ambientali, a partire dalla perdita della copertura boschiva e dei suoi effetti: dalla minor capacità di assorbimento di anidride carbonica a un maggior rischio idrogeologico, alle conseguenze dell’affluenza di pubblico e mezzi sull’equilibrio della fauna locale. E tutto questo non si risolve attraverso compensazioni economiche.
Anche perché le infrastrutture in costruzione si sommano alle migliaia di impianti di risalita presenti sulle Alpi – 450 solo nel sistema Dolomiti Superski – per lo più volti a sostenere l’economia dello sci, comparto che ha fagocitato sempre di più le montagne italiane, sovrastando ogni altro settore. Il docente di Economia e Gestione delle imprese all’Università di Trento Umberto Martini, esperto di gestione del turismo in quota, sottolinea come negli anni l’approccio invece di migliorare sia sempre più insostenibile: fino agli anni Ottanta si sciava anche a 800 metri e in primavera la montagna andava “a riposo” turistico per riaprire in estate, stagione adatta all’escursionismo; un andamento che sta cambiando negli ultimi decenni, con la contrazione della stagione sciistica e con estati che, ormai invivibili in città, attirano sempre più persone in quota ed estendono le aperture annuali dei rifugi; aumentano anche i rischi a cui turisti poco esperti si espongono in un ambiente reso più instabile dalla crisi climatica.
Tenere conto di questi cambiamenti, tra l’altro, farebbe bene allo stesso turismo invernale, che in Italia vale circa 10 miliardi di euro annui e che oggi è minacciato dalla crisi climatica. Per questo, per sopravvivere, avrebbe bisogno di un piano di adattamento e di diversificazione. Si tratta, infatti, di un turismo che dipende dalle condizioni meteorologiche e la crisi climatica accorcia la stagione invernale, porta la neve sempre più in alto, verso i 2mila metri, provoca eventi meteorologici imprevisti, accresce il rischio di valanghe e crolli e impone nuovi ritmi all’economia turistica. Se le Olimpiadi invernali continuano a essere viste come una grande occasione di crescita – spesso apparente – e non come l’opportunità per interrogarsi sul futuro degli sport invernali e del loro rapporto con l’ambiente, nemmeno il cambiamento nella fruizione “quotidiana” delle Alpi è andato di pari passo con un cambiamento culturale. Tuttora, molti turisti non sanno adattare i propri comportamenti all’ambiente e si aspettano forme di intrattenimento “cittadine”, dall’aperitivo allo shopping, suggerite dalla stessa narrativa del marketing turistico; così gli operatori si adeguano nel nome del guadagno. Intanto dopo un lungo braccio di ferro non solo tra maggioranza e opposizione, ma interno alla Lega stessa, il Consiglio regionale veneto ha dato il via libera alla costruzione di strutture ricettive di lusso sopra i 1600 metri di quota, stanze panoramiche in vetro e legno “ad alto impatto emozionale” (oltre che ambientale, come pensano molti esperti del settore) – come quelle che già esistono anche sul versante trentino delle Dolomiti – in deroga ai limiti di edificabilità urbanistica.
Intanto, c’è chi difende la costruzione di nuove infrastrutture a Cortina, sostenendo che le funivie incentivino i visitatori a evitare l’automobile, nonostante gli studi sul tema evidenzino che questo succede solo se i progetti sono realizzati secondo un’attenta analisi del contesto e delle abitudini dei visitatori, oltre ad associarsi a strategie di disincentivo dell’uso della macchina. Abbattere boschi, costruire nuove infrastrutture costose e presumibilmente inutili in una località già addomesticata da cemento e piste non sembrerebbe la strategia più efficace per ridurre il traffico automobilistico. Certa, invece, sarebbe l’ulteriore urbanizzazione dell’area, con altre strutture turistiche e punti di ristoro, necessari per permettere al maggior numero di persone possibili l’accesso alle vette, che già oggi è un privilegio, se il principale modo che tanti conoscono per goderne, cioè tramite lo sport invernale, può arrivare a costare anche sugli 80 euro per uno skipass giornaliero, cui si aggiungono il viaggio e l’eventuale noleggio dell’attrezzatura, dato che gli sciatori occasionali di rado investono in attrezzatura tanto costosa per goderne solo pochi giorni.
Dovremmo porci degli interrogativi sulla nostra incapacità di fruire di un luogo se non antropizzandolo e sulla nostra spinta a trasformare l’ambiente incontaminato in un parco giochi come unico modo per apprezzarlo. Anche il Piano nazionale di adattamento al cambiamento climatico (PNACC) dà la priorità alle esigenze turistiche e commerciali, concentrandosi sulle tecniche di snow farming per conservare la poca neve sulle piste, senza preoccuparsi di un vero adattamento climatico, dimenticando la biodiversità, gli habitat e la vita stessa degli abitanti delle Dolomiti, che nel territorio di Cortina d’Ampezzo sono passati da oltre 8mila ad appena 5mila tra il 1971 e il 2021, andamento simile al resto della provincia di Belluno che, nel ricco Veneto, sconta la carenza di servizi come i trasporti pubblici e la sanità.
Mentre ci ricordiamo dell’ambiente solo come risorsa da sfruttare, il turismo di massa e le grandi opere condannate a vita breve non dovrebbero essere la nostra priorità se vogliamo realmente far sopravvivere la montagna. Cortina è, in questo senso, la metafora del nostro problematico rapporto con l’ambiente: lo addomestichiamo a nostra immagine e somiglianza, e vi cerchiamo un tornaconto economico senza preoccuparci delle conseguenze, per poi dimenticarcene quando non ci serve più, come succederà alla pista da bob. Così, però, non stiamo facendo altro che distruggere uno dei pochi luoghi che ancora ci curano dallo stress urbano.