Fa troppo caldo per lavorare - THE VISION

Mentre nel Nord Italia trombe d’aria simil-tropicali sradicano alberi e fanno esondare torrenti, in Sardegna si toccano i 48 gradi di temperatura e in Sicilia il caldo estremo contribuisce alla propagazione di incendi, come nelle zone di Catania e Palermo, con relativi problemi per la salute delle persone e la viabilità. L’Italia sta subendo appieno le conseguenze più evidenti della crisi climatica, e i danni costano, anche tanto: non solo quelli diretti, provocati dagli eventi atmosferici a infrastrutture, edifici e veicoli, ma anche quelli più indiretti: tra questi, quelli legati al malessere fisico e mentale delle persone e di conseguenza la ridotta produttività e la minor efficienza del lavoro, che può arrivare a fermarsi perché alcune attività non sono compatibili con le condizioni climatiche. Le conseguenze di questo, a loro volta, sono economiche – si stima che l’economia globale perda più di 2mila miliardi di dollari ogni anno – ma le prime vittime sono le vite umane.

A volte, infatti, molto semplicemente, il benessere dei lavoratori non può essere garantito. Già oggi in molte parti del mondo le temperature spingono l’organismo ai limiti, che in buona parte del Pianeta potrebbero essere superati entro i prossimi cinquant’anni se non si riuscirà ad agire collettivamente per frenare l’aumento delle temperature medie. Un assaggio di quello che presto riguarderà anche l’Italia lo dà, per esempio, il Qatar, dove le condizioni climatiche, già estreme, cambiano con grande rapidità: il riscaldamento qui avviene a velocità doppia rispetto alla media mondiale; e lo sviluppo economico vissuto paradossalmente dal Paese proprio in questi anni si fonda quasi completamente sul sudore dei lavoratori immigrati che rappresentano il 90% della manodopera provenienti da subcontinente indiano, Africa e Asia sud-orientale, spesso spinti dalla necessità ad accettare condizioni lavorative ai limiti della sopravvivenza. E anche al di sotto: ufficialmente, i decessi sono provocati da cause naturali di insufficienza cardiaca o respiratoria, ma andrebbero considerati a pieno titolo tra le migliaia di morti premature che la crisi climatica provoca ogni anno.

Tord Kjellström direttore della ricerca dell’Health and Environment International Trust di Nelson, in Nuova Zelanda, già docente di Salute Ambientale e Occupazionale, tra i massimi esperti mondiali sul tema dello stress termico ha studiato le numerose morti registrate tra i lavoratori nepalesi proprio in Qatar, di cui migliaia in una manciata di anni legate alla costruzione di stadi e allestimenti per gli ultimi mondiali di calcio. Dal lavoro del team di ricerca è emerso che nei mesi più caldi i decessi legati a cause respiratorie e cardiovascolari sono di quattro o cinque volte più numerose che nei mesi più freddi; negli anni, inoltre, la curva delle morti è stata in linea con l’aumento delle temperature. Ciò è dovuto agli effetti del calore estremo sull’organismo: la perdita di sali minerali dovuta alla sudorazione provoca forti crampi – che possono essere un problema serio per chi lavora in altezza – mentre il cuore batte più veloce per trasferire il calore alla pelle, dove però più l’aria è umida meno riesce a evaporare. Giramenti di testa e spossatezza fino allo svenimento e al colpo di calore colpiscono soprattutto chi lavora all’aperto, ma non solo. L’istinto del corpo sarebbe quello di fermarsi per rallentare il battito, ma spesso le leggi che i lavoratori devono rispettare non coincidono con quelle imposte dall’organismo. Il rischio di incidenti, poi, aumenta anche perché il caldo eccessivo ha effetto non solo sul corpo, ma anche sulla mente, facendo calare l’attenzione, effetto aggravato ulteriormente dalla carenza di sonno, anch’essa legata al troppo caldo.

Già oggi, in realtà, anche l’Europa sta sperimentando condizioni simili: basti pensare che in Italia, ogni anno, più di 4mila incidenti sul lavoro sono attribuiti al caldo estremo. E non mancano i decessi: l’estate scorsa dieci morti sul lavoro sono state provocate da colpi di calore, e anche quest’anno si contano già diverse vittime, tra cui un operaio di 44 anni morto a Lodi in un cantiere di rifacimento della segnaletica stradale e un uomo di 61 anni di Firenze, deceduto mentre puliva un magazzino agricolo. Persino in Germania dove in Baviera di recente sono stati toccati i 38,8 gradi il capo dell’Associazione federale dei dipartimenti di salute pubblica tedeschi, che rappresenta il vertice della sanità pubblica, si è espresso a favore dell’introduzione di una sorta di “siesta” in stile spagnolo per evitare di lavorare nelle ore più calde della giornata. Il ministro tedesco della Salute Karl Lauterbach ha concordato sul fatto che sia una buona idea, pur demandando le negoziazioni sul tema al dialogo tra lavoratori e datori di lavoro.

La siesta è una tradizione soprattutto spagnola, nata per rispondere alla sonnolenza tipica del primo pomeriggio dovuta alle temperature elevate e alla digestione del pranzo, ma era anche un modo per concedere ai lavoratori del tempo a metà giornata da passare insieme alla propria famiglia. Come la nostra “controra”, non è, quindi, né un vezzo né un segno di pigrizia stereotipata: anzi, oggi la comunità scientifica riconosce che un breve riposo nel pomeriggio aiuta a recuperare concentrazione e quindi a essere più produttivi, oltre a compensare l’eventuale mancanza di sonno notturno; ma, per effetto di una standardizzazione degli orari di lavoro, non è poi così diffusa oggi. Già nel 2011, uno studio evidenziò che solo il 10% degli spagnoli riusciva a trovare il tempo per riposarsi durante il giorno.

La siesta è l’esempio perfetto di uno dei cambiamenti concreti che potrebbero rendere la vita lavorativa più compatibile con le condizioni ambientali sempre meno sostenibili. Al momento non esiste una normativa europea unitaria sul tema, ma i singoli Paesi si stanno arrangiando a modo loro; rispetto al Regno Unito – dove le linee guida parlano solo di condizioni “confortevoli” definendo solo i limiti di freddo (16 gradi in ufficio e 13 per i lavori fisicamente attivi), e dove il caldo estremo del 2022, che ha colto tutti impreparati, ha spinto il sindacato dei lavoratori Gmb a chiedere una legge dedicata – in Europa meridionale sembra esserci una maggior capacità di gestione, anche a livello legislativo. In Francia, il Code du Travail richiede ai datori di lavoro di assicurarsi che i dipendenti svolgano le mansioni in sicurezza; nel settore edile, per esempio, devono fornire loro almeno tre litri d’acqua al giorno, mentre è consentito agli operai di fermarsi se temono un pericolo per la loro vita. Queste indicazioni, però, riguardano la mera sopravvivenza e una società evoluta non dovrebbe limitarsi a questo obiettivo: dovrebbe piuttosto puntare al pieno benessere. Inoltre, l’interpretazione di cosa sia un pericolo per la vita del lavoratore è demandato a una certa soggettività, per cui non c’è davvero una garanzia del rispetto delle norme.

In Spagna va un po’ meglio, con l’indicazione per legge di una temperatura tra i 17°C e i 27°C in ufficio e una temperatura tra i 14 e i 25 gradi nel caso di lavori che richiedono un leggero sforzo fisico: un datore di lavoro che non rispetta questi requisiti può essere denunciato all’Inspección de Trabajo y Seguridad Social (“Ispettorato del Lavoro e della Sicurezza sociale”) o a un sindacato. Il diritto del lavoro italiano non definisce una temperatura massima per i luoghi di lavoro, ma l’Inps è stata chiara quando nel 2017 ha stabilito che temperature, anche percepite, superiori a 35°C impediscono lo svolgimento di fasi di lavoro in luoghi non proteggibili dal sole o che comportino l’uso di materiali che non sopportano il forte calore e che in tali situazioni il lavoratore ha il diritto di non svolgere le proprie mansioni e il datore di lavoro può fare ricorso alla cassa integrazione ordinaria. A questo proposito è al momento in via di emanazione un decreto ad hoc. Il 13 luglio scorso l’ispettorato del lavoro ha emanato la Nota 5056 che riepiloga le principali indicazioni per la tutela della salute dei lavoratori: tra queste, l’obbligo per i datori di lavoro di assicurarsi che i dipendenti siano in grado di svolgere le proprie mansioni in sicurezza, mentre i lavoratori hanno il diritto di fermarsi senza perdere lo stipendio né essere licenziati se non hanno garanzia di condizioni sicure o se le temperature sono proibitive. Di recente Stellantis ha incontrato i sindacati per discutere le condizioni climatiche nello stabilimento di Pomigliano d’Arco e la settimana scorsa ha lasciato che gli operati uscissero alle 16:00, dopo che loro stessi il giorno prima avevano incrociato le braccia per il troppo caldo. L’Inail, dal canto suo, invita ad alternare i turni tra i lavoratori in modo da minimizzare l’esposizione individuale al caldo o al sole diretto e a interrompere il lavoro quando il rischio di patologie da calore è molto alto. Spesso, comunque, i confini sono sfumati ed è difficile garantire il rispetto delle indicazioni per la sicurezza dei lavoratori, figuriamoci per il loro benessere.

Di sicuro non siamo pronti per la nuova normalità che stiamo vivendo, come dimostra quello che sta vivendo Catania, dove gli incendi fomentati da caldo e siccità hanno contribuito a black-out, blocco dell’aeroporto e dei pozzi per l’acqua corrente. Ma questa ondata di caldo probabilmente non sarà l’ultima del 2023 e sicuramente non lo sarà dei prossimi anni. L’effetto di queste temperature continuerà a riversare le sue conseguenze su tutti gli aspetti della nostra vita, compreso il lavoro, che non potrà fare a meno di adattarsi, magari distribuendo diversamente gli orari lavorativi nel corso della giornata e dell’anno, aumentando la durata della pausa e riducendo gli orari di lavoro, oltre a pensare a divise e accessori diversi e puntare su impianti di raffreddamento. La crisi climatica è, in ogni caso, uno degli aspetti – non l’unico – che il mondo del lavoro e quindi la politica devono tenere in considerazione, perché sta colpendo la nostra stessa organizzazione sociale, e l’unico modo per cavarsela è agire su più fronti: ripensando il nostro modo di lavorare e, prima di tutto, contrastando davvero l’aumento delle temperature.

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