Ogni anno negli esseri umani vengono rinvenuti, in media, i patogeni di cinque nuove malattie. Qualche volta, queste si diffondono a livello epidemico o addirittura pandemico: l’ultimo caso in ordine cronologico è quello di Covid-19. Questo avviene a causa dell’impatto ambientale delle attività antropiche, come conferma una ricerca del Dipartimento di Zoologia dell’Università di Cambridge pubblicata nel gennaio 2021 sulla rivista scientifica Science of the Total Environment. Il documento avvalora ipotesi già emerse nel corso dell’anno scorso, per le quali all’origine dell’attuale pandemia c’è la crisi climatica. Se non attuiamo un piano globale coerente di difesa ambientale non possiamo quindi illuderci di evitare altre pandemie nel prossimo futuro. Perché il sovrasfruttamento delle risorse naturali, il cambiamento d’uso dei suoli e l’espansione dell’agricoltura sono tra i molti fattori che interrompono le interazioni naturali tra la fauna selvatica e i suoi microbi, aumentando il contatto tra animali selvatici, bestiame e uomo. Per questo non possiamo addossare la responsabilità della pandemia agli animali, pangolini o pipistrelli che siano: se è vero che i principali imputati del salto di specie sono queste specie, la responsabilità è delle attività antropiche che ne danneggiano gli habitat, oltre, naturalmente, del commercio, allevamento e consumo di specie selvatiche, in continuo aumento da 15 anni a questa parte.
Lo studio di Cambridge conferma che il cambiamento climatico ha giocato un ruolo importante nell’insorgenza dell’epidemia da Covid-19 e nella sua diffusione mondiale: l’aumento delle temperature medie, infatti, avrebbe trasformato la provincia meridionale cinese dello Yunnan e le regioni limitrofe di Myanmar e Laos in un habitat ideale per i pipistrelli, permettendo loro di moltiplicarsi, prosperare ed entrare in contatto con l’uomo. Nonostante non ci siano ancora certezze nell’origine del Covid-19, proprio i pipistrelli originari di queste zone sono coinvolti nella trasmissione di diverse varianti di Coronavirus agli esseri umani. Il numero di questi virus presenti in una data area geografica, infatti, è correlato alla popolosità e varietà delle popolazioni locali di pipistrelli, a sua volta influenzata dalle condizioni climatiche.
È quanto è emerso mappando la vegetazione mondiale di un secolo fa – ricostruita tramite le rilevazioni dei dati sulla temperatura e sulle precipitazioni – e incrociando i dati sull’andamento del clima e della copertura vegetale con quelli relativi alle popolazioni di pipistrelli, ricostruendone così la distribuzione nel corso del tempo; in questo modo, confrontandola con quella attuale, si è ricostruita la correlazione. Nei decenni le colonie di chirotteri si sono spostate alla ricerca di habitat meno influenzati dagli sbalzi climatici, diffondendo così i virus di cui sono portatrici; questi spostamenti portano spesso all’avvicinamento con i centri abitati, dove aumentano le occasioni di interazione con l’uomo e dove è più facile che si verifichi il salto di specie. Negli ultimi decenni il salto di specie è stato l’innesco della diffusione di virus come Mers e SARS. Il potenziale esplosivo di questa situazione si comprende bene osservando i dati dell’Ipbes – la piattaforma intergovernativa sulla biodiversità e gli ecosistemi –, che stima come mammiferi e uccelli siano oggi ospiti di circa 1,7 milioni di virus non ancora conosciuti, dei quali una cifra compresa tra circa 600mila e 800mila potrebbe essere in grado di infettare gli esseri umani tramite i maggiori serbatoi di agenti patogeni a potenziale pandemico, ossia – oltre a pipistrelli e roditori – i primati, alcune specie di uccelli e il bestiame da allevamento.
Lo scenario che si delinea è ancora più preoccupante se si osserva la crescita nel numero di specie di pipistrelli nelle regioni dell’Africa centrale e in zone dell’America centrale e meridionale, particolarmente colpite dalla deforestazione e dalle conseguenze della crisi climatica che le foreste contribuiscono a limitare. Il prossimo salto di specie potrebbe avvenire in queste aree geografiche: se oggi tutti gli occhi sono puntati sull’Asia, punto di partenza delle maggiori epidemie degli ultimi decenni, nessun Paese al mondo può davvero abbassare la guardia, perché tutto il Pianeta è coinvolto dalla devastazione ambientale e dal cambiamento climatico e, quindi, a rischio di trasmissione di patologie. Ne è un esempio l’aumento di casi di encefalite da zecche in Scandinavia, la cui correlazione con l’aumento delle temperature medie è nota da tempo.
Tutto questo dovrebbe essere una spinta a portare avanti una politica congiunta di azione in difesa del clima e dell’ambiente, come hanno sottolineato anche due dei ricercatori coinvolti nello studio di Cambridge, il professor Andrea Manica e il professor Camilo Mora, per i quali il fatto che il cambiamento climatico acceleri la trasmissione di patogeni dalla fauna selvatica agli esseri umani deve spingere i governi mondiali verso la riduzione drastica delle emissioni inquinanti e verso coraggiosi piani di riforestazione e difesa ambientale. In attesa di queste misure continuiamo a pagare le conseguenze di decenni di comportamenti distruttivi. Conseguenze enormi in termini di vite umane e di danni economici e sociali, a cui si sommano quelle dirette dovute all’emergenza climatica, come le vittime delle anomale ondate di caldo e delle malattie respiratorie sempre più frequenti, i danni al settore agricolo, le crisi idriche, le migrazioni climatiche. Anche il peso economico di questa situazione è sempre più alto: oltre alle sofferenze, infatti, la pandemia e le zoonosi emergenti causano oltre un trilione di dollari di danni economici all’anno, decisamente più alti dei costi che potrebbero avere i piani di limitazione delle epidemie – a partire dalla riduzione o del divieto del commercio della fauna selvatica –, stimati tra i 22 e i 31 miliardi di dollari. Cifra che scende a 17 miliardi di dollari se si calcolano i benefici della riduzione della deforestazione sul sequestro di carbonio.
Siccome a loro volta gli agenti patogeni portati da fauna selvatica, bestiame e persone minacciano direttamente la biodiversità – la cui devastazione è a sua volta un fattore di rischio per le epidemie – ci troviamo davanti a un circolo vizioso dalle enormi potenzialità distruttive. Per interrompere questo meccanismo bisogna porre dei limiti all’espansione delle aree urbane e agricole, dando invece spazio agli habitat naturali per ridurre il contatto tra umani e animali che veicolano malattie. I ricercatori sono d’accordo nel sottolineare la necessità di limitare l’espansione di aree urbane, terreni agricoli e terreni di caccia negli habitat naturali per ridurre il contatto tra uomo e animali. Secondo l’Ipbes, il rischio pandemico potrebbe essere notevolmente ridotto promuovendo un consumo responsabile, riducendo il sovrasfruttamento di risorse nelle zone colpite da malattie emergenti e riducendo il consumo di carne. Invece, al momento la salute umana non è considerata tra i fattori di cui tenere conto nella pianificazione dell’uso del suolo. Per Ipbes è necessaria un’azione congiunta internazionale non solo nel controllo sul commercio di specie selvatiche e di informazione sui rischi che questa attività comporta, ma anche che incentivi le aziende ad avviare una riconversione sostenibile dei settori produttivi più impattanti.
Non è casuale che le raccomandazioni dell’Ipbes per ridurre la possibilità di altre epidemie siano le stesse per il contrasto della crisi ambientale. Se non verranno attuate immediatamente la pandemia da Covid-19 rischia di diventare il modello di molte crisi del prossimo futuro. Per il momento abbiamo una certezza: quella da Covid-19 non è affatto una pandemia creata in un laboratorio di Wuhan, ma la sua diffusione è comunque una nostra responsabilità. Così come è una nostra responsabilità mettere in campo soluzioni perché tutto questo non accada più.