Dopo un 2021 di sostanziale stallo quanto ad avanzamenti sulle energie rinnovabili, l’ormai ex ministro della Transizione Ecologica Roberto Cingolani ha annunciato l’attivazione, nei prossimi mesi, di nuovi impianti per un totale di 9,5 gigawatt di energia pulita. Nonostante questo importante passo avanti, compiuto grazie a una delle sue ultime iniziative da ministro, però, si procede a rilento. Mentre l’Europa discute di price cap, un tetto condiviso a livello comunitario sui prezzi del gas, e le bollette delle famiglie e delle aziende si impennano, il neo-insediato governo Meloni ha nominato il nuovo ministro Gilberto Pichetto Fratin (Forza Italia), il cui incarico prende anche un nuovo nome, programmatico: “ministro dell’Ambiente e della Sicurezza energetica”. Se da un lato ciò induce a pensare che la transizione ecologica non sia tra le priorità del governo (d’altronde i programmi elettorali parlavano chiaro, non lasciando molto spazio alle illusioni), dall’altro l’energia e il suo approvvigionamento saranno indubbiamente tra le priorità del nuovo esecutivo. Tutto, però, dipende da quale tipo di energia. E se è vero che abbiamo persino un nuovo ministro che si occuperà di Politiche del Mare, purtroppo sarà difficile che proprio il mare cominci a figurare in modo serio nel mix energetico, nel quale infatti fino a oggi è già stato gravemente sottorappresentato. Per ora, nonostante l’Italia sia tra i Paesi membri dell’Unione Europea ad aver adottato politiche per lo sfruttamento di questa preziosa risorsa, persino il Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR), con i suoi 700 milioni di euro per la transizione digitale ed ecologica per piccole e medie imprese, la menziona a malapena.
Si parla, invece, di nuovo, soprattutto di nucleare: una fonte energetica potenzialmente pulita e a basso costo, se si eccettua il problema non indifferente delle scorie, risolvibile con la tecnologia della più innovativa fusione nucleare, una soluzione però non realizzabile realisticamente nei tempi – brevissimi – che abbiamo a disposizione per scongiurare gli scenari peggiori della crisi climatica. Si rischia, in questo modo, di perdere di vista proprio il mare, un’altra fonte che potrebbe contribuire in modo determinante al pacchetto energetico italiano ed europeo, ma che, a oggi, resta largamente trascurato, nonostante copra circa il 70% della superficie del Pianeta e, con un impatto ambientale quasi nullo, potrebbe essere sfruttato in diversi modi, contribuendo a una vera transizione.
Quella proveniente dal mare è stata a lungo considerata un’energia costosa, con impianti pericolosi per gli habitat marini, oltre che delicati perché esposti all’azione corrosiva dell’acqua salata; un punto in effetti ostico è quello della manutenzione delle turbine, che può essere complessa perché subacquea, ma non abbastanza da rendere svantaggiosa questa fonte energetica, che, di contro, grazie alla densità dell’acqua rispetto all’aria, si caratterizza per un efficiente tasso di conversione energetica. Ancora oggi, però, è difficile superare questa idea di risorsa difficile, caratterizzata da un rapporto costi-benefici sfavorevole, ma la realtà è molto diversa: il mare sta diventando una soluzione sempre più conveniente, grazie alle innovazioni tecnologiche di questi anni, di cui è un esempio PeWec 2.0 (che sta per Pendulum Wave Energy Converter), un dispositivo offshore basato sull’oscillazione di un pendolo che, come dice il nome, converte in energia il moto delle onde, realizzato da Wave For Energy, spin-off del Politecnico di Torino, assieme all’Agenzia Nazionale per le Nuove Tecnologie, l’Energia e lo Sviluppo Economico Sostenibile (ENEA) e che ha avviato una nuova fase promettente di test a inizio anno.
Le modalità per ricavare energia elettrica dal mare, in realtà, sono molteplici: attraverso turbine sottomarine ad asse orizzontale, simili a quelle impiegate nell’eolico, per esempio, si possono sfruttare le correnti d’acqua orizzontali, che pure in Italia non sono particolarmente intense e diffuse, a eccezione di quelle nello Stretto di Messina. Più valido e sicuro è invece lo sfruttamento del moto ondoso, su cui puntano alcuni progetti pilota particolarmente interessanti – a Reggio Calabria, in particolare, e poi a Civitavecchia e a Salerno – ma anche in questo caso si potrebbe e si dovrebbe fare di più. Le tecnologie che si basano sulla rilevazione dei gradienti salini (si parla quindi di energia osmotica), cioè le differenze di salinità, poi, sono oggetto di studio fin dagli anni Novanta e sono particolarmente efficaci dove acque con gradi di salinità molto diversi si incontrano, come succede in particolare alle foci dei fiumi, dove i corsi d’acqua si immettono nel mare. Ma le sperimentazioni in materia non si fermano mai, nemmeno sulle tecnologie già note, come quelle che sfruttano i gradienti termici, cioè le variazioni di temperatura tra le correnti di superficie, più calde, e quelle profonde, più fredde; questo è un metodo particolarmente efficiente dove le acque superficiali sono molto più calde, cioè attorno ai Tropici e all’Equatore: potrebbe essere una soluzione rivoluzionaria e sostenibile per isole come le Hawaii, le Filippine e la Papua Nuova Guinea, ambienti delicati che soffrono particolarmente l’impatto delle energie fossili.
Le possibilità, quindi, sono molte, eppure secondo l’International Renewable Energy Agency (IRENA), nel 2021 l’energia marina contava una capacità installata di 524 megawatt a livello mondiale, cifra che è sostanzialmente ferma da un decennio a questa parte; di questa, poco più della metà è installata in Europa, ma l’Italia – pur circondata com’è su tre lati dal mare, con i suoi 8mila km di coste – continua ad avere un ruolo marginale. Mentre nell’ultimo decennio le altre fonti di energia rinnovabile per capacità installata sono (fortunatamente) triplicate, la produzione di elettricità a partire dal mare è stabile quasi ovunque nel mondo, senza avanzamenti significativi, nonostante alcuni Paesi ci stiano puntando. Secondo un report di Ocean Energy Europe – organizzazione che definisce gli oceani la più grande fonte di energia rinnovabile non sfruttata al mondo – infatti, le installazioni che catturano la potenza delle onde in Scozia, Spagna, Portogallo e Paesi Bassi sono triplicate tra il 2020 e il 2021 e in particolare le infrastrutture che sfruttano le correnti sarebbero addirittura decuplicate – anche se, a ben guardare, la potenza installata è di appena 2,2 megawatt. La Finlandia, invece, sta lavorando a un sistema per trasformare le fredde acque delle profondità del Baltico in riscaldamento per le abitazioni di Helsinki nei rigidi inverni del nord. Grazie a un sistema di pompe di calore sotterranee che dovrebbero permettere di coprire fino al 40% delle necessità della capitale, si potrà ridurre la percentuale di carbone e gas – ancora molto usati anche nella verde Finlandia (circa il 75% per il teleriscaldamento nel 2021) – e aggiungere un tassello importante in direzione dell’obiettivo della neutralità carbonica, fissato per il 2030.
Se ben progettate e costruite, poi, le installazioni marine e oceaniche hanno molte meno probabilità di altre infrastrutture di impattare negativamente sulla biodiversità e al tempo stesso evitano del tutto di gravare sui suoli, già sottoposti a erosione e danneggiati da tanti impianti e dalla cementificazione. Inoltre, quella proveniente dal mare è una fonte energetica molto più affidabile per esempio dell’eolico, dato che le maree e le correnti oceaniche sono prevedibili e garantiscono energia costante e continua, disponibile 24 ore su 24, a differenza anche del sole. Bisognerebbe quindi iniziare seriamente a puntare su queste possibilità, dal momento che la questione energetica è più che mai urgente, e non solo perché il gas ha ormai prezzi proibitivi, ma anche perché la produzione di energia continua a essere in cima alla lista dei responsabili della crisi climatica, e tutto ciò che può contribuire al superamento del fossile in modo efficace ed economicamente valido andrebbe incentivato con decisione a livello istituzionale.
Un discorso analogo a quello del mare vale, infatti, anche per la terra. Il sistema che sfrutta il calore presente negli strati profondi della crosta terrestre, la geotermia, è al centro delle ultime iniziative di Cingolani, con la firma di un decreto che mira a snellire alcune procedure burocratiche per le installazioni di sonde geotermiche e uniforma la regolamentazione nazionale in materia, specialmente per quanto riguarda i piccoli impianti, compresi quelli impiegati per il riscaldamento domestico, alla cui installazione è possibile applicare il bonus 110%. L’adozione massiccia della geotermia, infatti, combinata con le pompe di calore più avanzate, permetterebbe di ridurre i consumi di gas risparmiando emissioni di anidride carbonica equivalenti in atmosfera per circa 13 milioni di tonnellate all’anno e un risparmio economico per le famiglie italiane di circa 7-8 miliardi di euro all’anno, calcolando gli attuali prezzi del gas.
Tornando al settore dell’energia marina, invece, potrebbe arrivare a valere fino a 53 miliardi di euro entro il 2050, traducendosi potenzialmente in 400mila posti di lavoro in tutta Europa. L’assurdo disinteresse per il mare dell’UE, e ancor più dell’Italia (che lo manifesta su diversi piani, compreso quello geopolitico), è ancora più problematico quando si parla di produzione di energia, un settore quanto mai cruciale oggi che siamo alle prese con una crisi climatica grave, a cui si aggiunge la preoccupazione per l’approvvigionamento energetico e i suoi costi. È chiaro che il mare può essere un alleato importante nel processo di decarbonizzazione, con il potenziale di coprire il 10% del fabbisogno energetico europeo nei prossimi trent’anni, di cui beneficerebbero innanzitutto (ma non solo) le comunità costiere, che rappresentano fino al 45% della popolazione europea. È giunta l’ora di rendercene conto.