Non è solo un’impressione: le farfalle sono sempre più rare. In tutta Europa, ma anche in altre regioni temperate del mondo in pochi decenni è stato registrato un calo del loro numero tra il 30 e il 50%, mentre in Germania in meno di trent’anni si segnala addirittura una riduzione del 76% della biomassa degli insetti volanti. A rilanciare l’allarme è un nuovo studio del Center for Biodiversity & Environment Research dell’University College London (UCL), pubblicato di recente su Nature, risultato della più grande valutazione mai compiuta sul declino globale delle popolazioni di insetti. Il quadro che ne risulta è preoccupante perché evidenzia l’esistenza di una minaccia grave anche nei confronti degli insetti impollinatori, che non sono solo animaletti il cui ronzio fa primavera, ma ricoprono un ruolo basilare per la vita e l’ambiente – che tendiamo ancora a considerare come qualcosa di separato ed estraneo da noi – e di conseguenza anche anche per il nostro sistema alimentare ed economico. Per questo i ricercatori sottolineano l’urgenza di correre ai ripari, evidenziando ancora una volta la responsabilità dell’attività umana in questa moria.
Per avere un’idea dell’importanza degli insetti per il funzionamento del nostro sistema alimentare basti pensare che, secondo il Dipartimento dell’Agricoltura degli Stati Uniti, sono coinvolti nell’impollinazione del 75% delle piante da fiore e del 35% delle colture alimentari globali. Circa un terzo del cibo che mangiamo proviene da specie impollinate da animali e in particolare 87 dei principali raccolti al mondo dipendono in tutto o in parte da loro, tanto che nel 2019 le api sono state dichiarate la specie più importante del mondo. In realtà, quello entomologico è un mondo ancora largamente sconosciuto e questo si traduce in una drammatica minimizzazione dei pericoli che corre, specialmente nelle regioni tropicali che sono le più ricche di biodiversità, con la maggior parte dei 5,5 milioni di specie di insetti esistenti al mondo. Cifre di quest’ordine di grandezza rendono impossibile monitorarne seriamente gli andamenti, ma si calcola che fino all’80% degli insetti non sia stato ancora scoperto.
Quel che si sa, però, è che oggi due specie di impollinatori invertebrati su cinque sono in pericolo, come dimostra l’esperienza diretta di chi è nel settore: tra ottobre 2018 e aprile 2019 gli apicoltori statunitensi hanno perso quasi il 40% delle loro colonie di api. Uno studio pubblicato su Nature nel 2020 ha poi rilevato che tra le 20mila specie animali minacciate dall’aumento delle temperature, in particolare negli ambienti tropicali e mediterranei – i più ricchi di biodiversità, certo, ma anche quelli più colpiti dalla crisi climatica – un posto di primo piano è occupato proprio dagli insetti. I principali colpevoli di questa crisi sono l’uso massiccio di pesticidi e la perdita di habitat legata all’agricoltura intensiva e aggravata ulteriormente dalla crisi climatica, fattori che combinati tra loro hanno un impatto negativo peggiore che presi singolarmente; in ogni caso, il ruolo dell’attività umana è decisivo e il suo impatto impressionante. Come rilevato dagli scienziati, la popolazione di insetti nelle aree in cui il riscaldamento climatico è più netto e dove l’agricoltura intensiva è la destinazione prevalente d’uso del suolo il numero di specie di insetti presenti è di quasi il 30% inferiore che nel resto dei territori e la consistenza delle loro popolazioni è quasi la metà. Anche la differenza dell’andamento è notevole: le regioni costituite per almeno il 75% da habitat naturali hanno visto un calo nel numero di insetti di solo il 7% nel periodo considerato, a fronte di un crollo del 63% nelle aree coperte solo per il 25% dall’habitat.
Il problema riguarda tutte le specie animali, diminuite complessivamente di oltre due terzi dal 1970 – un problema tanto drammatico che circa un milione di specie sono a rischio di estinzione – ma se monitorare il numero di tigri siberiane, orsi polari ed elefanti è più facile e la loro scomparsa di sicuro impatto, la graduale estinzione degli insetti rischia di passare in sordina, ma i suoi effetti sono comunque devastanti, innanzitutto sulla sicurezza alimentare, sia in termini di produzione che di costi. Alcuni Paesi hanno già dovuto correre ai ripari per evitare il crollo dei raccolti, primo tra tutti il maggiore produttore mondiale di pere e mele, la Cina, che nei frutteti del Sichuan è stata costretta dalla carenza di impollinatori ad assumere persone che facciano a mano quello che i bombi e altri insetti fanno spontaneamente, rapidamente e soprattutto gratis. Impollinare a mano dove non sono presenti strumenti tecnologici appositi significa passare di fiore in fiore con piccoli pennelli intrisi di polline, con cui toccare lo stigma del fiore. Non si tratta, ovviamente, di un sistema efficiente – l’operatore deve infatti ripetere il processo fino a cinque volte – ma per ora è l’unica alternativa possibile a cui molti produttori sono costretti, in alcune regioni fin dalla metà degli anni Ottanta, quando il calo della produzione era già stato rilevato, ma era meno diffusa la consapevolezza sui danni dell’abuso di sostanze chimiche su campi e frutteti. Da allora, però, in Cina il costo del lavoro è aumentato costantemente, rendendo il processo di impollinazione manuale non solo faticoso, ma anche proibitivo, provocando inevitabilmente un aumento dei prezzi della frutta e degli ortaggi coinvolti.
Non è un caso che la Cina sia il maggiore consumatore di pesticidi al mondo, con un milione e 763mila tonnellate all’anno, con il risultato che molti frutteti non ricevono sufficiente impollinazione naturale. E non è un caso nemmeno che gli altri Paesi in cui l’impollinazione manuale è impiegata, come Ghana e Indonesia, siano quelli in cui si coltivano specie estremamente richieste sul mercato internazionale, come il cacao; si tratta dei Paesi, in cui i suoli sono più stressati, le sostanze chimiche usate generosamente per garantire la produttività anche su terreni ormai impoveriti e dove l’aumento delle temperature medie per ragioni anche geografiche è più forte. E dove da poche coltivazioni – già vittime di eventi meteorologici estremi, legati almeno in parte alla crisi climatica – dipende la stabilità economica di migliaia di persone.
Il problema è che le aziende agricole, paradossalmente, oggi sono ambienti ostili per gli insetti, che – come molti altri animali – hanno bisogno di ampi spazi naturali dove riprodursi e procacciarsi il nutrimento nei periodi in cui gli alberi da frutto non sono in fiore. Le api, in particolare, fanno affidamento sui prati per rifornirsi durante i loro voli, che diventano sempre più lunghi man mano che i campi coltivati si espandono e scompaiono i prati e le foreste. Ed è proprio l’espansione agricola – soprattutto quella destinata al sostegno degli allevamenti animali – a contribuire in modo massiccio alla deforestazione, con tutte le sue drammatiche conseguenze, in particolare nelle regioni particolarmente vulnerabili in Africa orientale, Amazzonia brasiliana e Indonesia, dove i principali imputati sono caffè, olio di palma, cacao e soia coltivati per l’esportazione, contribuendo al crollo di circa il 50% della popolazione di api delle orchidee, la cui vita è in relazione simbiotica con le foreste. Non distinguendo tra specie dannose per la pianta e specie utili (anzi: indispensabili), i pesticidi danno poi il colpo finale: un frutteto di pere in Sichuan, ad esempio, può essere irrorato di sostanze fino a 12 volte prima che le pere vengano raccolte, e questi pesticidi peraltro non fanno tanto bene nemmeno agli esseri umani che li respirano o che li ingeriscono insieme al frutto. L’attenzione all’abuso dei pesticidi sta crescendo, ma richiede una soluzione estremamente urgente.
I problemi connessi ai sistemi agricoli, oggi sono una sfida basilare, dato che il nostro sistema alimentare resta molto fragile, con circa il 90% dell’approvvigionamento mondiale di cibo dipendente da appena un centinaio di colture, tra cui sono una manciata a farla da padrone: riso, mais, soia e poche altre; queste sono la base dell’alimentazione, sia direttamente – nel caso dei cereali e degli ortaggi che mangiamo – sia indirettamente, in quanto impiegate per nutrire il bestiame, come la stessa soia e l’erba medica, motivo per cui anche l’industria della carne e dei latticini dovrebbe preoccuparsi della sorte degli insetti. Il loro calo è solo un ulteriore motivo per rivedere il sistema agricolo attuale, ma è di estrema importanza che le iniziative messe in campo per affrontarlo siano istituzionali, radicali e di ampia scala, con l’obiettivo di usare meno sostanze chimiche, ridurre l’estensione delle coltivazioni, privilegiare la diversità delle colture e introdurre strisce di terreno incolto e prati tra un campo e l’altro; solo così potremo mitigare gli effetti negativi della perdita di habitat e del cambiamento climatico sugli insetti. Eppure siamo in ritardo di decenni su queste azioni.
Le tecniche di impollinazione artificiale possono aiutare a mantenere o aumentare la resa agricola in situazioni contingenti, ma hanno un costo di manodopera troppo elevato e un’efficacia troppo bassa per poter essere considerati una soluzione valida sul lungo periodo, e soprattutto risolvono solo uno dei tanti problemi causati dalla scomparsa degli insetti, quello produttivo. Pensare, ancora una volta, di poter risolvere il tutto con stratagemmi tecnologici per un’impollinazione ad alta precisione è solo un altro modo per illuderci dell’effetto salvifico del progresso, mentre la scomparsa degli insetti deriva proprio da quello e continua a riversare i suoi effetti a cascata sugli ecosistemi globali. Se non verranno prese decisioni rapide tra poco le mele costeranno come l’oro.