L’Occidente sta usando i Paesi più poveri come discarica per i propri rifiuti di plastica - THE VISION

Tra il 1990 e il 2017 dagli Stati Uniti e dall’Europa sono partite complessivamente 172 tonnellate di plastica alla volta di 33 Paesi africani; paradossalmente, molti di questi Stati sono stati tra i primi al mondo a introdurre limitazioni e divieti sulla produzione e il commercio di plastica usa e getta. Come sottolinea Greenpeace, l’invio di rifiuti dai Paesi industrializzati è una pratica neocolonialista e le costanti di questo sfruttamento rispetto alle forme del passato sono il perseguimento dei propri interessi e l’assenza di ogni preoccupazione per le conseguenze. Nonostante dal 1960 tutti i membri dell’Onu siano impegnati a metter fine al colonialismo in tutte le sue forme, molti Paesi, che per decenni hanno subito dominazioni coloniali, oggi, per necessità, corruzione o pressione di vario tipo vengono schiacciati sul piano ambientale. 

La Regina Elisabetta in visita a Thika, Kenya 1983

L’Europa nel 2020 ha esportato oltre i confini dell’Unione due terzi dei suoi rifiuti; la normativa in vigore fino a poco fa stabiliva che le mete potessero essere solo Paesi che ne garantissero il trattamento secondo norme equivalenti a quelle europee. Ma siccome non sono mai mancate le certificazioni false, sia sul trattamento dei rifiuti che sui requisiti dei destinatari, è stata emanata una normativa più restrittiva che da gennaio 2021 vieta l’esportazione di rifiuti plastici dall’Unione europea verso Paesi non Ocse. La guardia non è mai abbastanza alta contro gli espedienti, motivo per cui ora vige l’obbligo di notifica delle esportazioni anche verso altri Paesi comunitari – come quelli di più recente ingresso nell’Ue, dove i controlli sono meno stringenti – verso cui l’export è aumentato negli anni. Inoltre, grazie alla Brexit la Gran Bretagna si sottrae alle restrizioni comunitarie, mentre gli Stati Uniti restano in cima alla classifica mondiale degli esportatori, cercando però stratagemmi come la proposta di investimenti nel riciclo in Kenya fatta nel 2020 dall’American Chemistry Council – che ha tra i suoi membri Shell, Exxon, Total e DuPont – pur di continuare a inviare rifiuti, circa 500 milioni di tonnellate di plastica all’anno. 

Peccato che il riciclo non stia neanche lontanamente al passo con la produzione: le stime parlano di appena il 9% della plastica totale, mentre il resto finisce bruciato nel 79% dei casi o abbandonato in discarica. Questo accadeva soprattutto in Cina, che, tra il 1992 e il 2018, da sola ha importato il 45% dei rifiuti globali di plastica, in gran parte contaminato o di scarsa qualità e quindi impossibili da riciclare. Dopo un primo blocco temporaneo nel 2013, il governo cinese ha imposto nel 2018 il divieto di importazione per 24 tipi di rifiuti non industriali, accettando solo quelli adatti a essere riciclati. Da allora ci si è rivolti altrove, soprattutto nel sud-est asiatico e in Africa: nel 2019, per esempio, l’Italia, all’undicesimo posto tra i maggiori esportatori, ha inviato all’estero 197mila tonnellate di rifiuti plastici che, se fino al 2018 erano destinati per il 42% alla Cina – cifra crollata a meno del 3% dopo il blocco – sono poi stati assorbiti da Malesia (+195% in un anno), Thailandia (+770%) e dalla più vicina Turchia (+191%). Ma anche dal Vietnam, che si stima scarichi più di 1,8 milioni di tonnellate di rifiuti in plastica nei suoi mari: il delta del Mekong, una regione che produce circa 25 milioni di tonnellate di riso ogni anno, è affollato di rifiuti di plastica provenienti da bottiglie e contenitori di pesticidi, erbicidi e fertilizzanti che avvelenano le risaie e i corsi d’acqua, rendendo necessario, a sua volta, un netto aumento dell’uso di fertilizzanti e pesticidi per contrastare il calo di produttività legato anche all’inquinamento, in un circolo vizioso che culmina con la combustione in massa, a fine stagione, dei contenitori vuoti, con i loro residui chimici tossici. 

La causa del problema non è però la mancanza di educazione ambientale di Asia e Africa: secondo uno studio del 2018, dal 1988 sono proprio i Paesi ad alto reddito ad aver contribuito, per un giro d’affari di oltre 70 miliardi di dollari, per l’87% alle esportazioni globali di rifiuti di plastica, mentre soprattutto l’Africa si impegna per ridurre l’inquinamento; il Kenya, per esempio, ha limitato i sacchetti di plastica e i prodotti monouso, il Ruanda ha vietato le borse in plastica nel 2008, come fatto dalla Tunisia nel 2017, e simili limitazioni sono state introdotte anche in Botswana, Eritrea, Mauritania, Marocco, Sudafrica e Uganda. Eppure continuano tutti a ricevere tonnellate di rifiuti, spesso non riciclabili, perché da un lato le leggi sono difficili da far rispettare e, dall’altro, le potenze mondiali le aggirano. Tanto che le esportazioni di rifiuti nel continente africano dal 2018 sono quadruplicate in un solo anno: qui l’industria della plastica ha convinto i governi che il traffico di rifiuti crei occupazione; il risultato è che i governi sono disincentivati dal cercare soluzioni più sostenibili e più sicure alla disoccupazione, mentre le conseguenze sulla salute dei loro cittadini sono pesantissime. Non di rado sono i bambini a rovistare tra i rifiuti nelle discariche delle periferie keniote alla ricerca di quelli riutilizzabili o riciclabili per venderli a pochi centesimi. 

La discarica Dandora a Nairobi

Le spedizioni internazionali di rifiuti plastici, però, non sono una normale forma di commercio: dato il valore estremamente basso di quei materiali e gli alti danni che provocano molte aziende sono pagate per riceverne. Proprio questo scarso guadagno – specialmente in relazione ai danni che provoca – rende ancora più difficile fermare il traffico, come nel caso dell’India che, prima di far entrare in vigore il divieto di importazione, l’ha fatto slittare due volte, un lasso di tempo in cui ha importato altri 85 milioni di chili di plastica. Decisioni come quella indiana o cinese, però, sono difficili, come è lungo e complesso il processo di rispedire al mittente i carichi, tanto che questi finiscono spesso in altri Paesi in via di sviluppo. Si tratta di quanto avvenuto nel caso del carico delle circa 8mila tonnellate di rifiuti domestici e ospedalieri – non solo erroneamente etichettati come non pericolosi, ma anche destinati a impianti non attrezzati a trattarli – che l’Italia nel 2018 ha inviato in Tunisia e ha dovette poi riprendersi dopo un tira e molla di due anni

Tra le conseguenze, tra impoverimento e sfruttamento dei Paesi destinatari, c’è il foraggiamento delle industrie estrattive dei combustibili fossili, alle quali il comparto plastico è legato, mentre i maggiori inquinatori mondiali fanno greenwashing. Nel 2019 Chevron Phillips Chemical Company, Dow Chemical, Exxon Mobil e Formosa Plastics provarono a ripulire la loro immagine fondando un’Alleanza per l’eliminazione dei rifiuti plastici; per farlo stanziarono un miliardo e mezzo di dollari, una cifra che rappresenta solo l’1% dell’investimento necessario a ripulire i mari da bottiglie, reti e altri scarti. Intanto ogni anno le stesse multinazionali continuano a produrre 380 milioni di tonnellate di plastica.

Al momento, quindi, non risulta rispettata la Convenzione di Basilea, in vigore dal 1992, che impone agli Stati firmatari di minimizzare la produzione di rifiuti; questa, tramite gli emendamenti entrati in vigore nel 2021, oggi inserisce i rifiuti plastici tra quelli considerati pericolosi o potenzialmente tali, per i quali quindi è fortemente limitata la movimentazione. In questo modo si promuove la trasparenza del commercio globale, anche se non si risolve il problema dello smaltimento, dato che i sistemi di riciclo non riescono a stare dietro alla produzione di rifiuti, tanto che alcune stime sostengono che i mari del Pianeta di qui al 2050 conterranno più spazzatura che pesci. Bisogna inoltre vigilare che le normative siano applicate fino all’ultima virgola: anche dopo gli emendamenti, infatti, i lobbisti hanno tentato di opporsi alle leggi promosse dai Paesi africani per continuare a spedire rifiuti. Ma non solo: a livello globale la produzione e l’uso della plastica continuano a crescere; la pandemia ha offerto un’opportunità ai produttori per presentare le proprie merci come garanzie di sicurezza rispetto a quelle riutilizzabili, arrivando ad accusare le borse di tela di essere veicoli di contagio. La crisi sanitaria ed economica, poi, ha fatto slittare, anche in Italia, il divieto sulla plastica monouso in programma da anni ed entrato finalmente in vigore in Europa il 14 gennaio scorso

Quando parliamo di rifiuti resta però la criticità della disparità tra Paesi ad alto e basso reddito. Quella della plastica, infatti, è una questione non solo ambientale, ma di giustizia sociale e politica, perché, come sottolineato dall’Onu, l’inquinamento ha sempre un impatto sproporzionato sulle comunità e sui Paesi più marginalizzati.

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