In una soleggiata mattina del tre agosto del 2019, un ragazzo di 21 anni si fa strada nel parcheggio di un centro commerciale Walmart come altre migliaia in tutti gli Stati Uniti. Siamo nella città texana di El Paso, sul confine meridionale con il Messico – una città dove ben oltre tre quarti della popolazione è di origini ispaniche. Il ragazzo imbraccia un fucile d’assalto semiautomatico Wasr-10, una variante fabbricata in Romania del ben più famoso Ak-47. Ancora prima di varcare la soglia dell’edificio, comincia a sparare. La sparatoria di massa si conclude con un bilancio di 22 morti e 24 feriti e sarà ricordata come l’attacco più letale contro i latinos della storia contemporanea statunitense.
Patrick Wood Crusius, l’attentatore, poche ore prima aveva pubblicato su 8chan il suo manifesto intitolato The inconvenient truth, nome che ricalca sinistramente un documentario del 2007 dell’ex vice presidente degli Stati Uniti Al Gore sul cambiamento climatico. “L’ambiente peggiora di anno in anno,” scriveva il terrorista, “ma la maggior parte di voi è troppo testarda per cambiare il proprio stile di vita. Quindi il prossimo passo logico è diminuire il numero di persone che sprecano risorse in America. Se possiamo sbarazzarci di abbastanza persone, il nostro stile di vita diventerà più sostenibile”.
L’ideologia che ritiene sia necessario trovare una soluzione violenta, xenofoba e etnonazionalista – per esempio quella dell’attentatore di El Paso e prima di lui quello di Christchurch, in Nuova Zelanda – a una preoccupazione legittima come il deterioramento climatico e ambientale risponde al nome di “ecofascismo”. Queste idee hanno radici lontane: dalle teorie dell’economista inglese Thomas Malthus, che attribuiva alla crescita della popolazione la diffusione della povertà e della fame nel mondo, alla retorica nazista del Blut und Boden (Sangue e terra) e del Lebensraum (lo spazio vitale), concetto mutuato dal darwinismo sociale che giustificava l’espansione territoriale di uno Stato a discapito di altre popolazioni.
A sottoscrivere una ricetta simile – l’“etica della scialuppa di salvataggio” del neoconservatore ecologista Garrett Hardin, secondo il quale è necessario limitare l’immigrazione e gli aiuti economici ai Paesi in via di sviluppo per non disperdere le scarse risorse nazionali – era anche Theodore Kaczynski, il celebre Unabomber che tra il 1978 e il 1995 inviava pacchi bomba a informatici, scienziati e professori universitari. Oggi sono idee condivise da diversi partiti dell’estrema destra occidentale che cercano di avvicinarsi al tema ambientalista da una prospettiva nazionalista. Come l’Alternative für Deutschland tedesca, i cui membri propongono una politica del figlio unico nei Paesi in via di sviluppo per “contrastare il più grande dei problemi climatici, la sovrappopolazione”.
Le “soluzioni” indicate dall’ecofascismo si ritrovano in alcuni dei discorsi riguardanti le conseguenze ecologiche della quarantena di massa imposta dai governi di mezzo mondo per rallentare i contagi del nuovo coronavirus. Tra tènere (sebbene, in gran parte dei casi, false) fotografie di animali che camminano indisturbati per le strade delle città abbandonate da un giorno all’altro dagli esseri umani e video di delfini che guizzano felici dove prima navigavano le barche si annida un sottobosco di discorsi come “l’uomo è il cancro della Terra” e “l’essere umano è il virus, il coronavirus è la cura”. Affermazioni nella maggioranza dei casi naif – e in nessun modo riconducibili alla volontà di agire per eliminare parte della popolazione globale – ma non per questo del tutto innocue.
È vero che la popolazione è uno dei fattori di ogni formula che calcola l’impatto umano sull’ambiente, a partire da quella più semplice e diffusa: impatto = popolazione x ricchezza x tecnologia. È vero che l’attuale popolazione mondiale ha superato i sette miliardi e mezzo e che, secondo le stime delle Nazioni Unite, nel 2050 saremo quasi dieci miliardi. Ma c’è una ragione dietro al fatto che gli addetti ai lavori (scienziati, accademici, giornalisti, attivisti ambientalisti) si concentrano molto di più su altre questioni, mettendo da parte il discorso sulla popolazione.
La spiega il reporter David Roberts, che da anni si occupa di questioni ambientali per i media statunitensi, in un articolo intitolato Sono un giornalista che si occupa di ambiente, ma non scrivo mai di sovrappopolazione. Vi dico perché, dato che me lo chiedete costantemente: “Quando i movimenti politici o i leader mettono il controllo della popolazione al centro delle proprie preoccupazioni… diciamo solo che non finisce mai bene. In pratica, quando trovi qualcuno preoccupato della sovrappopolazione, molto spesso trovi razzismo, xenofobia o eugenetica in agguato dietro le quinte. Sono quasi sempre popolazioni particolari che devono essere ridotte”.
Il professore della Columbia University Matthew J. Connelly riassume la preoccupazione legata alla sovrappopolazione in modo più animato di Roberts. “Quando le persone mi domandano se il mondo è sovrappopolato,” scrive Connelly, “voglio sempre domandare loro: chi hai in mente? C’è qualcuno in particolare che non credi sarebbe dovuto nascere? Magari qualche grande gruppo di persone, magari milioni di persone, che non credi dovrebbero essere qui? […] Se vuoi essere specifico rispetto a questioni che preoccupano le persone – ci sarà abbastanza cibo? Ci sono troppe emissioni di CO2? – allora devi iniziare a parlare di chi esattamente sta consumando questo cibo. E lo stiamo davvero esaurendo? Se ti preoccupa il riscaldamento globale, da dove viene quel riscaldamento?”.
Questo non significa che non ci sia alcun modo di limitare l’aumento della popolazione in modo organico senza sfociare nell’ecofascismo. Significa soltanto che, come succede sempre, la situazione è molto più complessa e le ricette per diminuire la pressione umana sull’ambiente lo sono altrettanto.
Nonostante si preveda una veloce crescita demografica globale, più della metà dei neonati dei prossimi anni saranno concentrati in appena nove Paesi: India, Nigeria, Repubblica democratica del Congo, Pakistan, Etiopia, Tanzania, Stati Uniti, Uganda e Indonesia. A eccezione degli Stati Uniti, sono tutti Paesi che hanno (e continueranno ad avere ancora a lungo, salvo stravolgimenti ora non prevedibili) dei consumi di risorse pro capite piuttosto bassi, anche se ciò non significa che miliardi di nuove persone non richiederanno lo sfruttamento di un numero ancora più alto di risorse. Si apre così la strada a due soluzioni parallele: l’empowerment femminile da una parte e la riduzione dei consumi degli Stati più ricchi dall’altra.
Costrette dai mariti, prive di accesso ad anticoncezionali o bisognose di aiuto per il lavoro manuale, sono milioni le donne nel mondo che hanno più figli di quanti ne desiderino e che beneficerebbero di una maggiore autonomia sui propri diritti riproduttivi. I dati confermano che l’aumento dei livelli di istruzione e impieghi lavorativi per le ragazze e le giovani donne è legato a una maggiore richiesta di accesso all’assistenza sanitaria riproduttiva e si accompagna a una diminuzione dei tassi di fertilità.
Non si tratta però di chiedere ai governi di spingere artificialmente i tassi di natalità verso l’alto o il basso con politiche terribili quali la sterilizzazione forzata o l’istituzione di un limite sul numero dei figli. Sono esperimenti politici che si sono già dimostrati fallimentari dove sono stati collaudati, ma che alcuni governi (anche europei, in senso natalista) vorrebbero far tornare in auge. Né serve che i Paesi più ricchi, responsabili di gran parte del totale delle emissioni degli ultimi 60 anni, dicano a quelli più poveri di smettere di avere figli, scaricando loro addosso le proprie responsabilità. Si tratta invece di concentrarsi sul soddisfacimento dei bisogni volontariamente espressi dalle donne quando sono messe in condizione di scegliere delle proprie vite. I primi risultati sono l’emancipazione, una maggiore uguaglianza di genere, il miglioramento delle condizioni economiche e sanitarie. I benefici per il Pianeta sono collaterali, ma tangibili.
Queste politiche non possono prescindere da quello che gli americani chiamerebbero “l’elefante nella stanza”: la necessità, per limitare l’impatto umano sull’ambiente, di ridurre drasticamente i consumi, a partire dal 10% più ricco della popolazione globale. La questione è complessa: il cambiamento climatico non è il risultato di singoli fattori che basta eliminare senza che ci sia bisogno di fare altro per risolvere il problema. È legato a un sistema interconnesso all’interno del quale le scelte green individuali hanno un impatto molto ridotto. Salvo stravolgimenti tecnologici che permettano una maggiore sostenibilità, al momento le emissioni e lo sfruttamento delle risorse energetiche è concentrato nelle fasce più abbienti della popolazione mondiale – soprattutto per via di uno stile di vita che implica maggiori spostamenti aerei e su strada, più vacanze e più elettrodomestici posseduti pro capite.
“La responsabilità dovrebbe essere concentrata dove sono concentrate le emissioni: tra i più ricchi. L’unico modo di intaccare le scelte di consumo dei ricchi in modo sostanziale è attraverso politiche diverse”, scrive sempre Roberts. “Quindi se sei ricco, piantala di volare così tanto. Ma se non lo sei, la cosa più utile che puoi fare per ridurre individualmente le emissioni è partecipare più attivamente alla politica”.
Per tornare ai commenti virali di questi giorni, chiedere che un fenomeno fuori dal nostro controllo come il coronavirus faccia “il lavoro sporco” per noi riducendo momentaneamente le emissioni o lasciando liberi gli animali di riappropriarsi degli spazi è nel migliore dei casi un modo per rimandare un processo di ripensamento del nostro stile di vita che richiede un’immensa volontà politica per arginare l’emergenza climatica. Nel peggiore dei casi, è un pensiero estremamente cinico e miope che vuole vedere l’umanità nel suo insieme come irrecuperabile; l’estinzione di massa come una prospettiva non poi così pessima; la morte di decine di migliaia di persone come qualcosa che, dopotutto, ha anche i suoi vantaggi.