Personalmente, non avendo mai fumato, mi è facile rallegrarmi alla notizia della promozione ed estensione dei divieti di fumo alle aree all’aperto in vari comuni italiani; ma, essendo ormai accertati anche i danni del fumo passivo, spero non sia un problema per nessuno accettare qualche limitazione in più. Come per esempio quelle che Milano ha applicato nel 2021, con il divieto in presenza di persone a distanza inferiore ai 10 metri presso fermate dei mezzi pubblici, parchi, aree cani, cimiteri, stadi e code per uffici comunali e musei, che dal 2025 varrà per tutti i luoghi all’aperto. L’obiettivo, infatti, è di rendere il capoluogo lombardo la prima grande città “smoking free” in Italia dal 2030 – almeno a voler credere che la norma venga rispettata, cosa che difficilmente tuttora avviene. Più di recente, da metà aprile per la precisione, questo esempio è stato seguito dal Comune di Torino, che ha vietato il fumo all’aperto a meno di 5 metri da altre persone – definiti “distanza di cortesia” – salvo loro esplicito consenso – e in ogni caso in presenza di bambini o di donne incinte. In me, però, oltre alla persona a cui dà fastidio il fumo di sigaretta, c’è anche quella che i divieti li guarda con scetticismo, considerandoli nella maggior parte dei casi poco efficaci, se non controproducenti. E non sono l’unica, se, come per ogni decisione radicale che incide sul comportamento dei cittadini, anche queste iniziative sono accompagnate da polemiche, come hanno dimostrato le iniziative di “città 30”. L’effetto dei divieti, però, potrebbe essere importante, se accompagnato da strategie di più ampio raggio, con ricadute sulla salute delle persone, ma anche dell’ambiente.
Le sopracciglia alzate, in fondo, non mancarono nemmeno quando fu approvata la L.3/2003 – la cosiddetta legge Sirchia, dal nome dell’allora ministro della Salute – che a partire dal 2005 vietò il fumo negli spazi pubblici chiusi, dopo un tentativo andato a vuoto, alcuni anni prima, da parte del suo predecessore, Umberto Veronesi. Ora uscire dall’ufficio o dalla pizzeria prima di accendersi una sigaretta sembra scontato e nessuno ha il coraggio di lamentarsene, per cui possiamo immaginare un mondo in cui, tra qualche anno, sembrerà normale anche dirigersi verso le aree dedicate, lontano da tutti, per poter fumare, come già succede per esempio in Alberta, Canada, dove dal 2008 è vietato anche in tutti gli spazi pubblici a meno di 5 metri da porte e finestre. E forse a qualcuno passerà la voglia di farlo. Anche all’estero, infatti, la direzione sembra questa: è notizia di aprile – per esempio – che sarà discusso e votato prossimamente il disegno di legge britannico, annunciato lo scorso anno dal premier Rishi Sunak, per rendere illegale la vendita di prodotti per fumare ai nati dopo il primo gennaio 2009, innalzando costantemente il limite d’età fino a produrre una generazione senza fumo; si tratterebbe di un passo decisivo se è vero, come riportano i dati del governo britannico, che quattro fumatori su cinque hanno iniziato prima dei 20 anni e rimangono dipendenti per tutta la vita. La Svezia, dove il divieto di fumo anche all’aperto è in vigore dal 2019, punta a diventare interamente “smoking free” entro la fine del prossimo anno, complice anche la tradizione dello snus, una sorta di tabacco in polvere che si tiene tra labbro e gengiva, assorbendone gli effetti anche senza dover fumare.
A dire il vero, l’Unione Europea, con il suo Europe’s Beating Cancer Plan (Piano Europeo per Battere il Cancro), si è posta l’obiettivo di ridurre il numero dei fumatori ad appena il 5% dei cittadini europei entro il 2040, ma le leggi sul tema sono di competenza dei singoli Stati, rispetto a cui, a livello locale, le amministrazioni comunali possono decidere applicazioni più severe. In Italia, mentre già lo scorso anno il ministro della Salute Orazio Schillaci aveva annunciato la bozza di decreto recante nuovi divieti di fumo – validi sia per sigarette tradizionali che elettroniche – presso dehor, fermate di mezzi pubblici e parchi in presenza di bambini e donne incinte, di fronte a queste iniziative a storcere il naso sono gli stessi membri del governo. Ma, come sottolinea l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) – che ritiene il fumo una delle più grandi minacce alla salute pubblica che il mondo abbia mai affrontato – ogni anno oltre 8 milioni di persone muoiono per motivi direttamente legati al tabacco; tra loro, anche 1,2 milioni di persone esposte al fumo passivo, che non le sottrae a patologie che vanno dal tumore ai polmoni alle malattie cardiache, all’ictus. Il motivo per cui medici e oncologi sono favorevoli ai divieti di fumo è che circa il 40% dei casi di cancro potrebbe essere evitato eliminando i fattori di rischio, a partire proprio dal fumo. Una buona fetta, potenzialmente, di quei 44mila casi di tumore al polmone – uno dei più diffusi – diagnosticati in Italia nel 2023.
Oltre alla salute umana, però, a guadagnare da una forte limitazione del fumo sarebbe anche quella ambientale. Potrebbe sembrare quasi ridicolo, di fronte alla emissioni delle grandi industrie, degli allevamenti e dei trasporti, dagli aerei che da soli contribuiscono all’8% circa delle emissioni climalteranti mondiali, alle crociere, che in Europa inquinano 20 volte di più di tutte le auto circolanti. Ma il fumo, nel suo complesso, contribuisce non poco all’inquinamento e alla degradazione ambientale: c’è la combustione delle sigarette, che rilascia nell’aria sostanze inquinanti, tra cui PM10 e PM2,5; una ricerca pubblicata sull’European Respiratory Journal, per esempio, già nel 2016 rilevò che a Milano, tra le 18 e le 24 – orario di aperitivi e vita notturna – i livelli di particolato e nicotina erano maggiori nelle aree pedonali che in quelle percorse da 700-1000 automobili all’ora.
Ma l’inquinamento atmosferico non è il problema maggiore: c’è anche quello, mai risolto, di filtri e mozziconi; gettati troppo spesso a terra (in Italia, circa nel 64% dei casi), quando non nei tombini (da dove finiscono direttamente in fiumi e mari, riuscendo a passare indenni da grate e filtri della rete idrica), sono tra i rifiuti di plastica monouso più diffusi sulle spiagge e rilasciano microplastiche, nicotina, sostanze chimiche e metalli pesanti. Ma i mozziconi sono solo la parte più visibile degli effetti ambientali di un comparto che complessivamente provoca 84 milioni annui di tonnellate di CO2, a partire dalla coltivazione e lavorazione delle piante di tabacco, la cui coltura ruba spazio alle foreste per ricavare il carburante per l’essiccazione delle foglie; tanto che oggi circa 200mila ettari di terre nel mondo sono soggetti a deforestazione e impoverimento del suolo per far spazio alle piantagioni di tabacco, che, inoltre, complessivamente assorbono 22 miliardi di tonnellate d’acqua. Ridurre il fumo, anche all’aperto, aiuterebbe a ridurre questi problemi.
Se non fosse che i divieti assoluti non sono necessariamente efficaci sempre. Anche tra gli entusiasti dei divieti di fumo, infatti, c’è un “ma”: quello che riguarda le sigarette elettroniche, i dispositivi che non funzionano a combustione, possono contenere nicotina, ma non altre sostanze dannose presenti nelle sigarette tradizionali. Il ministro Schillaci, infatti, vorrebbe includere anche loro nella nuova normativa, dopo che il loro uso nel 2013 fu proibito negli spazi pubblici chiusi, con un divieto poi abrogato; al momento, quindi, sui dispositivi a tabacco riscaldato c’è un vuoto normativo, mentre i gestori dei locali sono liberi di proibire l’uso delle cosiddette e-cig nei propri spazi. Le sigarette elettroniche potrebbero essere uno strumento di riduzione del danno, incoraggiando le persone a diminuire la quantità di sigarette tradizionali fumate nel corso della giornata fino, magari, ad abbandonarle del tutto, sostituendole, almeno inizialmente. Le e-cig seppur non completamente innocue, secondo l’agenzia sanitaria nazionale inglese sono del 95% meno dannose del fumo tradizionale. Se oggi, secondo le ricerche, più di nove fumatori su dieci ogni anno rimangono tali – nonostante i tentativi di smettere – forse dobbiamo pensare a una strategia più ampia, che parta proprio dalla riduzione del danno, con politiche, normative e azioni che riducono i rischi per la salute, per esempio favorendo l’accesso a prodotti meno dannosi, proprio come accade con lo snus in Svezia, dove fuma solo il 5% circa degli adulti e dove l’incidenza delle morti correlate al tabacco è del 40% inferiore al resto d’Europa.
Vietare predicando l’astinenza in nome di una logica più moralista che pragmatica, invece, potrebbe non sortire grandi effetti, come dimostra il proibizionismo nell’ambito delle sostanze stupefacenti. Nella lotta al fumo bisogna, quindi, considerare anche i fattori che incidono sull’inizio di questa abitudine, a partire dall’esempio dei genitori e sugli altri fattori che risultano influenzare ancora di più l’atteggiamento degli adolescenti nei confronti del fumo, come la presenza di genitori negligenti, cioè che esercitano livelli bassi sia di controllo che di accettazione. Siccome si tratta di componenti complessi e difficili da regolare, può essere, intanto, utile lavorare su un ampio raggio di aspetti, dalla riduzione del danno a un’educazione basata sull’informazione e non sul terrorismo, ma anche sulle opportunità di socializzazione per gli adolescenti, il cui contesto sociale può indurli a cadere nelle dipendenze, di cui il fumo fa parte. E poi valutare iniziative come quelle previste dalla legislazione neozelandese, che comprendeva – prima che l’attuale governo dichiarasse di volerla archiviare – la limitazione del numero di rivenditori di tabacco e la riduzione del livello di nicotina nelle sigarette.
Il divieto di fumo anche all’aperto, quindi, può essere un’ottima scelta di civiltà, da inserire in una strategia complessiva, all’interno di cui non sia un semplice strumento di proibizione, ma un mezzo per educare al rispetto degli altri – e della loro salute, vista la gravità degli effetti del fumo, anche passivo – fornendo motivazioni e informazioni sanitarie e culturali per la convivenza civile. Così, si può effettivamente evitare che i giovani comincino a fumare, togliendo una fetta di mercato a un’industria miliardaria che distrugge foreste, inquina, fa ammalare e – anche se indirettamente – uccide.