Il 2022 è iniziato con la più grande protesta in Kazakistan dal crollo dell’Unione sovietica. Anche se le manifestazioni, presto diventate rivolte con scontri che hanno causato più di duecento morti, hanno radici nell’insofferenza diffusa verso il governo autoritario del Paese, la causa scatenante è stato il prezzo del Gpl, quasi raddoppiato da un giorno all’altro per la decisione (poi ritirata) delle autorità di liberalizzare il mercato nazionale dei combustibili.
Il taglio ai sussidi fatto da molti governi abolisce la calmierazione dei prezzi danneggiando le fasce più deboli della società, mentre i magnati e oligarchi che controllano il mercato accrescono i loro patrimoni personali; una situazione che non promette niente di buono, soprattutto in un Paese, come il Kazakistan, ricco di petrolio, gas naturale e metalli preziosi, la cui ricchezza alimenta un sistema basato sulla corruzione e il clientelismo.
Le criticità di un contesto già così problematico sono aggravate dall’aumento della domanda energetica, legato non solo al fatto che, dopo il crollo delle fasi più acute della pandemia, molti Paesi hanno puntato con ancora più decisione su carbone, petrolio e gas per alimentare la ripresa, ma anche al boom delle criptovalute, che richiedono quantitativi enormi di energia per essere “estratte”, a flusso continuo e a buon mercato. Ecco perché le criptovalute sono un grave problema ambientale: secondo uno studio pubblicato su Nature, potrebbero contribuire in maniera significativa all’aumento delle temperature medie oltre la fatidica soglia di 1,5 gradi, portandoci oltre i due gradi entro i prossimi 30 anni.
Per criptovaluta si intende un mezzo di scambio interamente virtuale che funziona tramite un sistema decentralizzato – quindi non regolamentato da una banca centrale – in cui chiunque, senza costi di commissione e rimanendo anonimo, può fare facilmente delle transazioni, tracciate e registrate in blockchain, cioè in un database condiviso sulla rete. I Bitcoin, nati nel 2008, sono a oggi la criptovaluta più nota, e il procedimento per “emetterne” di nuovi è chiamato mining: letteralmente “estrazione”. Si tratta di un processo di convalida e registrazione di nuove transazioni, identificate da complesse stringhe numeriche utilizzabili una sola volta; mentre inizialmente tutto questo, con il suo sistema di contabilità digitale crittografata, era operato da singoli individui con normali computer, gli attuali ritmi e moli di dati necessarie hanno richiesto una struttura più solida, che oggi impiega potenti processori connessi tra loro. Di fatto, oggi i miner sono in competizione per convalidare quante più transazioni possibile, in cambio delle quali ricevono a propria volta Bitcoin come pagamento.
Sarebbe un grosso errore pensare che ciò che è virtuale non inquina: il mining è un processo altamente dispendioso in termini di energia, tanto che si ipotizza che i Bitcoin consumino 707 kilowattora per transazione, corrispondenti a quantità di emissioni carboniche quasi un milione di volte superiori a quelle di una transazione sul circuito Visa; complessivamente, la stima è di 22 milioni di tonnellate di emissioni di CO2 ogni anno. Se si pensa che ogni attività al computer o con altri device ha un impatto ambientale – sia in termini di materie prime necessarie a produrli, sia di energia elettrica necessaria a farli funzionare, sia, non ultimo, di conservazione dei dati – diventa più chiara la dimensione del problema che abbiamo oggi con le criptovalute. Le criptovalute, infatti, hanno vissuto un vero boom negli ultimi anni, che per gli investitori ha significato un andamento sul mercato segnato da forti oscillazioni: per esempio, ad aprile 2011 il prezzo di un Bitcoin era di solo un dollaro, cifra che è poi cresciuta vertiginosamente fino al massimo storico di 65mila dollari toccati esattamente dieci anni dopo, per poi crollare di recente per effetto dei disordini in Kazakistan e della chiusura di internet attuata dal governo.
Per questo la situazione sta peggiorando: il boom di interesse verso questa criptovaluta, con un aumento della domanda, ha portato il consumo di energia da parte dei Bitcoin ad aumentare di quasi 62 volte tra il 2015 e il 2021. Questo perché più miner sono presenti sulla rete maggiore è la potenza dei computer necessaria a estrarre nuovi Bitcoin; inoltre, i miner hanno bisogno di processori sempre più potenti, più veloci e più efficienti – che impieghino, quindi, quantità inferiori di elettricità – per poter elaborare le transazioni più in fretta. Questo implica un velocissimo turnover di tecnologia, cioè quantità di rifiuti elettronici che si accumulano, andando a contribuire a una situazione già critica. Nel 2021, infatti, sono stati calcolati oltre 57 milioni di tonnellate di rifiuti elettronici, impossibili da smaltire e contenenti sostanze potenzialmente molto inquinanti, mentre si continuano a estrarre materie prime per produrre nuovi dispositivi, con ulteriori danni ambientali.
Un’altra strada per continuare a ricavare profitto dal processo di estrazione è quella di ottenere energia a buon mercato, una ricerca che conduce nei Paesi la cui produzione è fondata sui combustibili fossili, come, appunto, il Kazakistan. Ne serve in quantità enormi, perché enormi sono le moli di dati gestite e processate: se calcolare l’effettivo consumo energetico delle criptovalute non è facile (proprio perché, trattandosi di un sistema decentralizzato, i computer usati sono diversi tra loro per potenza, efficienza energetica e sistemi di raffreddamento), la stima più attendibile, quella dell’Università di Cambridge, parla di un consumo annuo di circa 80 terawattora (cioè 80 miliardi di kilowattora) di elettricità, pari alla produzione annua di 23 centrali a carbone.
Il rischio, poi, è che, per far fronte alla domanda di criptovalute si tengano in funzione centrali che altrimenti sarebbero già state chiuse, rallentando, così la transizione ecologica. Ne è un esempio il caso della centrale Greenidge Generation, una vecchia centrale a carbone nello stato di New York, negli Stati Uniti, che, chiusa nel 2011, è rimasta inattiva fino a quando non è stata acquistata da una società che l’ha ristrutturata per produrre energia elettrica grazie al gas naturale, facendo quasi decuplicare le sue emissioni inquinanti tra il 2019 e il 2020. Il gas, infatti, non è un combustibile ecologico: l’Unione europea l’ha ammesso come “sostenibile” solo come modalità transitoria per sostenere l’economia fino al completamento della transizione energetica verde. E poi sono centrali a carbone almeno il 38% delle fonti energetiche usate per il mining su scala mondiale. Per questo la Cina era tra le mete preferite dei miner, coprendo circa il 70% del mining di Bitcoin prima della stretta governativa sulle criptovalute degli ultimi mesi. Proprio in seguito alla scelta di Beijing, parte del mining si è trasferito in Kazakistan, Paese che infatti ha visto una crescita di dieci punti percentuali in pochi mesi, arrivando ad agosto scorso al 18% della potenza di calcolo globale dell’intero sistema di mining; accanto a questi Paesi, poi, ci sono la Russia – dove il clima invernale è utile a evitare il surriscaldamento degli impianti – e gli Stati Uniti.
Anche per preoccupazioni ambientali, ma soprattutto sociali – legate appunto al fabbisogno energetico, e quindi ai prezzi e alle conseguenti proteste – il governo kazako ha affermato di aver pianificato un’azione di repressione dei miner non registrati, che si stima siano responsabili complessivamente del doppio del consumo energetico rispetto a quelli regolari. Un passo che inserisce il Paese asiatico nella lista di quelli che di recente hanno scelto di imporre forti limitazioni al mining, se non di vietarlo, come già fatto dalla Cina lo scorso novembre.
È evidente che la moneta virtuale rappresenta un problema ambientale grave, che si intreccia e aggrava quello socio-economico legato al comparto energetico. Il fabbisogno globale in crescita, l’urgenza della transizione ecologica e l’andamento dei prezzi delle materie prime sono solo alcuni dei fattori in gioco, che ci dicono chiaramente che non possiamo permetterci di prosciugare le nostre risorse per produrre criptovalute. Non a caso le criticità del settore energetico negli ultimi anni hanno scatenato proteste in tutto il mondo, dalla Francia all’Ecuador, dall’Iran al Libano. Per i bilanci statali, i sussidi impiegati per tamponare l’aumento dei prezzi dell’energia per aziende e cittadini sono un problema e contribuiscono a mantenere la dipendenza mondiale dai combustibili fossili, ostacolando la competitività delle fonti rinnovabili.
A pagare il prezzo degli aumenti del carburante non possono essere però le popolazioni di Paesi i cui governi non si impegnano per una transizione ecologica equa. Bisognerebbe quantomeno convertire l’intero sistema delle criptovalute alle energie rinnovabili, come si propongono di fare iniziative come Crypto Climate Accord, che vuole portare il sistema delle monete virtuali alle zero emissioni nette entro il 2040. Questo scenario è però critico da raggiungere, dato che già di per sé la capacità energetica delle rinnovabili dovrebbe almeno raddoppiare per permetterci di rispettare gli obiettivi climatici, senza contare che gli investitori hanno speso milioni in infrastrutture per la rete Bitcoin che sarebbero riluttanti a riconvertire. L’assenza di un organismo decisionale centralizzato che possa dare un indirizzo unitario al sistema completa un quadro che non lascia immaginare la svolta radicale necessaria per ridurre l’impatto globale del mining. Per questo la comunità internazionale deve iniziare a rapportarsi con la questione del mining non più solo come un problema finanziario, ma anche ambientale e sociale.