Qualche mese fa l’Onu ha definito Taranto una zona di sacrificio, classificandola come una delle aree più inquinate del mondo. La responsabile è l’ex Ilva, l’impianto siderurgico che secondo le Nazioni Unite ha violato i diritti umani alla salute in uno dei casi più gravi ed eclatanti di contaminazione e ingiustizia ambientale. Purtroppo, però, in Italia non è l’unico: sono diverse le città industriali sul territorio nazionale che durante il boom economico hanno contribuito a trainare l’economia italiana facendo crescere il PIL di quasi il 6% annuo in media, secondo un modello di sviluppo che sta mostrando tutti i suoi difetti, a partire dall’impatto sulla salute dei cittadini che ancora oggi sono vittime di ingiustizia ambientale.
Dal sequestro di dieci anni fa degli impianti dell’Ilva per gravi reati ambientali, si sono susseguiti diversi decreti per tamponare la situazione, fino alla vendita, nel 2017, a Mittal, passando per un commissariamento. Da oltre un anno sull’ex Ilva pendeva anche la class action che chiedeva la cessazione delle attività dell’area a caldo fino ad agosto 2023 e la realizzazione di un piano industriale che includesse l’abbattimento delle emissioni di gas serra di almeno il 50%. Ora, il Tribunale di Milano ha rimesso la questione alla Corte di Giustizia Europea, mentre – nonostante gli investimenti dichiarati negli ultimi tre anni, tra cui 700 milioni di euro per interventi ambientali – i cittadini continuano ad ammalarsi e a morire prematuramente, anche se i numeri dei decessi rilevati dall’Organizzazione Mondiale della Sanità sono sottostimati, dato che considerano solo gli adulti sopra i trent’anni e non includono gli effetti di modalità di esposizione diverse dall’inalazione, come la contaminazione di suolo, cibo e acque, né l’impatto dei rifiuti urbani o speciali.
Una sorte analoga spetta ai cittadini di tante altre aree industriali – a partire da coloro che nelle industrie hanno lavorato, a diretto contatto con le sostanze pericolose – orgoglio dei governi passati e fulcro di una ricchezza pagata troppo spesso a prezzo di devastanti conseguenze ambientali e sanitarie. La storia stessa dell’industrializzazione va a braccetto con la devastazione ambientale, a cui di fatto proprio la rivoluzione industriale ha dato la spinta decisiva, con grandi stabilimenti produttivi e interessi economici che hanno troppo spesso scavalcato le necessarie cautele, compromettendo la salute di tutti. In Italia, decisivo fu il boom economico del periodo 1950-1970, la terza fase del processo di industrializzazione. Un momento cruciale fu quello attorno al 1970, quando da un lato si posero finalmente le questioni ambientali, mentre dall’altro emersero sullo scenario economico nuove aree industriali, come quella di Mestre-Marghera in Veneto e di Gela in Sicilia. Il boom dell’estrazione di materiali da costruzione, la cementificazione e l’industrializzazione dell’agricoltura segnarono profondamente la salute dei suoli; a peggiorare il quadro ambientale, nel frattempo, ci furono l’aumento vertiginoso delle auto in circolazione – da 340mila nel 1950 a oltre 10 milioni vent’anni dopo – e lo scarico, spesso senza previa depurazione, delle acque reflue industriali nell’ambiente, che cominciò così a subire l’urto di nuove sostanze da poco diffuse nell’industria chimica e metallurgica, senza che fossero stabiliti standard di gestione e smaltimento. La ciliegina sulla torta fu il contemporaneo aumento della produzione di plastica, spinto dalle esigenze produttive.
Nessuno viene risparmiato da questi fenomeni – e lo dimostra la qualità dell’aria, buona solo in 11 città in tutta Europa, appena il 3% di quelle monitorate –, ma sono in particolare le aree più industrializzate ad aver subito gli effetti ambientali più forti di una crescita sproporzionata, che ancora oggi si fanno sentire. E se è vero che a fare della Pianura Padana un ricettacolo di malattie respiratorie e tumori ci si mette anche la conformazione geografica che non favorisce il ricambio d’aria, i principali imputati sono l’alta concentrazione in quest’area di allevamenti intensivi e di città altamente industrializzate. E, ancor di più, la cattiva gestione aziendale e delle risorse: sono diversi i casi di contaminazione ambientale da sostanze la cui pericolosità è stata sottovalutata o taciuta, o di cui le bonifiche vanno a rilento. È il caso dell’amianto, la cui produzione, lavorazione e vendita sono fuorilegge dal 1992 in Italia; nonostante i trent’anni di distanza, però, i suoi effetti sulla salute continuano a farsi sentire ancora oggi, tanto più che le bonifiche procedono a rilento, con un numero di addetti largamente insufficiente e la mappatura dei siti a rischio ancora incompleta. Casale Monferrato è solo la più nota delle cittadine colpite da patologie gravi e morti premature legate direttamente all’amianto, ma non certo l’unica.
Un caso diverso, ma non meno grave, tra le città che nel Novecento hanno trainato l’economia nazionale e dato lavoro a migliaia di cittadini – e che oggi pagano lo scotto di gravi danni ambientali – è quello di Brescia. Qui, lo stabilimento chimico Caffaro, situato in periferia – ma ad appena un km circa in linea d’aria dal centro città – dal 2003 figura tra i Siti di Interesse Nazionale e l’area è oggetto di ordinanze comunali che stabiliscono norme di comportamento come il divieto di uso del terreno e di attività ricreative a contatto con la terra nei parchi pubblici della zona. È il frutto di 80 anni di attività – dal 1906, quando aprì lo stabilimento Caffaro – che dagli anni Trenta in poi ha prodotto in particolare policlorobifenili, noti come PCB, sostanze brevettate dalla Monsanto, la cui tossicità era già nota; quando queste sostanze furono vietate negli anni Ottanta e la Caffaro fermò gradualmente la produzione di PCB, per poi cessare le attività, le quantità di sostanze tossiche sversate nel reticolo di rogge usate per le irrigazioni delle campagne circostanti erano già tali da rendere il caso di Brescia uno dei più gravi esempi al mondo di contaminazione da PCB nelle acque e nel suolo, sia per quantità di sostanze che per numero di persone coinvolte, come sottolinea un recente testo che si occupa della vicenda, La fabbrica e il quartiere. Dopo decenni, la zona urbana e l’area agricola circostante erano ormai gravemente segnate e l’incidenza di tumori cresceva, passando quasi sotto silenzio fino a quando la vicenda tornò nelle cronache nazionali nel 2001, quando Repubblica denunciò lo stato di grave inquinamento ambientale sulla base delle ricerche dello storico Marino Ruzzenenti e citò come paragone il caso della diossina di Seveso, in Brianza.
Il disastro avvenne nel 1976, quando a causa di un incidente a un reattore della fabbrica di cosmetici Icmesa, che produceva triclorofenolo, si sprigionò una nube di diossina; l’evento fece scalpore a livello mondiale e gran parte degli abitanti della zona più colpita dovettero lasciare le loro case per mettersi al sicuro, mentre gli edifici furono smantellati e gli animali abbattuti; per decenni nell’area si segnalò un picco dell’incidenza di molte patologie: gli studi che hanno seguito 280mila persone per 25 anni hanno rilevato in particolare un netto incremento nelle zone più inquinate di tumori linfatici e del sangue e, specialmente nei primi anni dopo l’incidente, malattie circolatorie, patologie croniche ostruttive dei polmoni e diabete mellito.
A Brescia – dove non c’era stato un incidente, ma anni di sversamenti e attività altamente inquinanti – le rilevazioni ambientali segnalano livelli preoccupanti di PCB e diossine, mercurio, arsenico nel suolo e nelle acque, che sono all’origine di malattie cardiocircolatorie, demenza e tumori endocrini. A causa dell’esistenza, dietro la facciata della Caffaro, di intrecci tra politica e finanza – ingrediente immancabile nei disastri ambientali e sanitari –, il Comune si è mosso tardi nell’avvio di un’azione civile di risarcimento danni. Alla fine, un anno fa la multinazionale Livanova – erede delle società industriali del Gruppo SNIA a cui Caffaro apparteneva – è stata condannata dalla Corte d’Appello di Milano a rimborsare allo Stato oltre 453 milioni di euro per il danno ambientale causato in tre siti di interesse nazionale della Caffaro: oltre a quello di Brescia, anche Torviscosa, in Friuli, e Colleferro, in Lazio, altri siti problematici. Il denaro dovrebbe essere usato per un piano di bonifica, anche se i cittadini ne lamentano i limiti, specialmente per quanto riguarda i terreni e i giardini privati. Le prime vittime continuano a essere loro.
Oggi, a Brescia, il quartiere dell’ex Caffaro è oggetto di progetti di rigenerazione urbana che, in assenza di protezioni sociali adeguate, rischiano di tradursi in semplice gentrificazione e che purtroppo raramente risolvono davvero una condizione radicata e che dopo decenni continua a far danni. Si tratta infatti di contaminazioni di lungo periodo che hanno prodotto e continuano a produrre gravi ingiustizie ambientali, in un contesto globale problematico, dato che tutti i Paesi europei (con le sole eccezioni di Belgio ed Estonia) devono ridurre le emissioni di almeno una sostanza inquinante per riuscire a rispettare gli impegni fissati per il 2030, obiettivo che, se raggiunto, ridurrebbe di ben il 55% le morti premature causate dall’inquinamento atmosferico e del 25% i danni agli ecosistemi europei, la cui biodiversità è oggi gravemente minacciata. Ma non basta, perché fuori dall’Europa le emissioni aumentano sulla scia dell’industrializzazione di quei Paesi che stanno vivendo oggi il loro grande sviluppo economico e che, da un lato, non sono intenzionati a frenare (non a caso India e Cina sono tra le maggiori responsabili di emissioni a livello mondiale) e, dall’altro, chiedono giustizia per i danni ambientali subiti fino ad ora, in buona parte a causa dei Paesi ad alto reddito. Il nodo, quindi, è complesso: oltre a preoccuparci dei casi di ingiustizia ambientale di casa nostra, che necessitano di un’urgente soluzione, dovremmo anche promuovere il dialogo e la collaborazione internazionali per uno sviluppo che sia davvero sostenibile, non solo per le economie statali, ma anche per tutti i cittadini del mondo.