La “Trilogia della vita” di Pasolini ci mostra a pieno la vera essenza dell’animo umano - THE VISION
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Vivere il proprio orientamento sessuale in libertà, con il dovuto rispetto e le necessarie tutele, è diventato negli ultimi anni un tema sempre più centrale, anche in spazi pubblici di dibattito che prima non lo consideravano. Un’occasione su tutte, è quella del Pride Month, un momento in cui la comunità LGBQT+ mondiale diventa protagonista in diversi ambiti, dalle manifestazioni alla celebrazione culturale, artistica, storica. C’è un aspetto però del Pride Month che ogni anno non mi lascia dubbiosa, specialmente perché sembra ingigantirsi e assumere sembianze sempre più inquietanti: la ormai esplicita e spietata corsa dei brand di tutto il mondo per accaparrarsi un pezzetto di lotta, anche se l’azienda in questione non ha nulla a che vedere né con il Pride né con i diritti civili.

Basta farsi un giro su internet durante il mese di giugno per trovare centinaia di loghi arcobaleno adibiti all’occorrenza per potersi dichiarare parte di un movimento che, a mio avviso, non c’entra nulla con la vendita di bibite gassate o di un portale per trovare lavoro – non mancano infatti i meme a questo proposito sulle aziende che una volta finito il mese delle celebrazioni cancellano qualsiasi traccia del Pride per tornare all’ordinaria amministrazione con tanto di varie ed eventuali discriminazioni. Il marketing contemporaneo e la ormai quasi totale mancanza di distinzione tra una pubblicità che ti esorta a comprare qualcosa e un messaggio di solidarietà – rainbow washing, greenwashing e tutti gli altri washing che definiscono questa strategia volta a farci sentire amici e compagni dei brand, quando non siamo altro che consumatori – non può che farmi pensare a una delle ultime cose che scrisse Pier Paolo Pasolini, un intellettuale che come pochi ha saputo descrivere il dramma della società dei consumi quando era ancora in fase di espansione iniziale, negli anni del boom economico. Mi riferisco all’abiura della Trilogia della vita, una nota pubblicata sul Corriere della Sera qualche giorno dopo la sua morte, nel 1975 e che venne poi pubblicata nella raccolta delle Lettere luterane, uno scritto che per molti aspetti risulta controverso per la sua vena provocatoria e a tratti rinnegatrice di tutta l’arte dello stesso Pasolini, che riflette su un tema vecchio di quarant’anni ma ancora attuale sotto molti punti di vista. 

Il Decameron (1971)

Partendo dunque dall’epilogo della cosiddetta Trilogia della vita – composta da tre film girati tra il 1971 e il 1974, Il Decameron, I racconti di Canterbury e Il fiore delle mille e una notte – e da questo documento di pessimismo e disillusione scritto da Pasolini poco prima di morire, si comprende ancora meglio cosa è stata per lui questa raccolta cinematografica e che valore ha avuto per la nostra eredità culturale del secondo Novecento. Perché se l’abiura nega il senso stesso di ciò che ideologicamente era contenuto in queste tre pellicole, allo stesso tempo la trilogia ci mostra in modo chiaro e cristallino quale fosse l’intento di Pasolini nel suo ruolo di intellettuale: Pasolini aveva come obiettivo quello di mettere uno specchio davanti al mondo che viveva per renderlo consapevole di tutte le sue storture. Il senso della trilogia, infatti, era proprio rappresentare attraverso tre grandi narrazioni della storia umana con radici anche orali ciò che il mondo moderno aveva perduto con la sua crescente e irrefrenabile omologazione. Il consumismo, secondo Pasolini, si era impossessato della spinta vitale espressa nel suo caso attraverso i corpi nudi e l’erotismo – da lui usati non per fini pornografici o osceni ma, al contrario, per rappresentare la parte più pura e arcaica dell’essere umano, quella istintiva, che non si vergogna dei suoi impulsi – trasformando anche questi in un mezzo di ingabbiamento.

I racconti di Canterbury (1972)

Come ha dichiarato Pasolini a Cannes, quando andò per portare Il fiore delle mille e una notte, la sua trilogia era infatti “Una polemica profondamente ideologica contro il mondo moderno così com’è, cioè il mondo del neocapitalismo, della modernità intollerante”. Ciò che lui definiva il nuovo fascismo – ne parla in diversi suoi scritti, in particolare negli Scritti corsari – è infatti il potere omologatorio e fagocitante della società del consumo che si è approfittata della lotta al moralismo borghese per fare suo un messaggio che partiva da tutt’altri presupposti, mercificando la lotta e la rivoluzione e instaurando un potere ancora più subdolo e persuasivo proprio perché all’apparenza amichevole e tollerante. Esattamente come succede con tutte le multinazionali e i brand che per fare promozione ai propri prodotti si appropria di messaggi e battaglie collettive delle persone, e non dei consumatori, lo stesso senso di spaesamento e delusione verso una sconfitta simile l’ha descritta Pasolini nelle sue considerazioni disilluse che hanno seguito un’operazione come quella della trilogia, un insieme di film che invece raccoglievano un l’entusiasmo della magnificenza di opere potenzialmente capaci di squarciare barriere di moralismo e bigottismo borghesi. Per Pasolini, infatti, la fisicità dei suoi personaggi era funzionale non a fare scandalo ma a graffiare tutto ciò che azzera gli impulsi, tutto ciò che cancella la storia e  la cultura dell’uomo in favore di un futuro levigato e falso. 

 

Il fiore delle mille e una notte (1974)

Il nucleo pulsante della Trilogia è la cultura popolare: Pasolini si sposta in tre aree geografiche diverse in cerca di un punto di origine antropologico. Nel Decameron, per esempio, mette in scena alcune delle novelle di Boccaccio a Napoli, una scelta che si intreccia con la rappresentazione linguistica che il regista voleva ottenere, ossia quella di “meridionalizzare” l’opera del Certaldese per ottenere un effetto comunicativo più spontaneo, libero e naturale di quanto potesse essere la lingua italiana. L’italiano, infatti, è una lingua letteraria, al contrario dei dialetti che sono invece lingue legate all’immediatezza genuina del popolo che le parla, più che della scrittura e delle formalità. Al pari del nudo maschile – fino a quel momento grande tabù del cinema – delle scene di sesso e soprattutto della scelta degli attori – immancabili nella trilogia i due feticci di Pasolini, Franco Citti e Ninetto Davoli – anche il linguaggio è un mezzo per esprimere la vita e per celebrarne gli aspetti più disinvolti e non ancora corrotti dalla modernità. 

Franco Citti
Ninetto Davoli

Nei Racconti di Canterbury, film che mette in scena otto racconti tratti dalla raccolta dello scrittore britannico Geoffrey Chaucer, il riferimento alle origini si intravede anche nella scelta di utilizzare la voce di Eduardo De Filippo – grande estimatore di Pasolini – per doppiare un vecchio viandante: così come il regista ha più volte collaborato con Totò, sia per Uccellacci e uccellini che per l’episodio di Capriccio all’italiana “Ma cosa sono le nuvole”. La comicità di De Filippo, popolare e vitale, accompagna il senso di innocenza della finzione. Ne Il fiore delle mille e una notte, scritto con Dacia Maraini, Pasolini ritorna poi all’espediente linguistico del Decameron, ambientando la pellicola in un paese in provincia di Lecce, Calimera, perché le sonorità del dialetto parlato in quella zona della Puglia hanno un familiarità con la lingua araba. Anche in questo film troviamo Ninetto Davoli, nel ruolo di Aziz, un giovane posseduto dall’amore e dal desiderio di libertà dell’esplorazione sensuale – “Come deve fare un ragazzo quando l’amore è il suo padrone?” dice – che continua a essere una rappresentazione pienamente ideologica. La censura e la rimozione delle scene ritenute più ardite e proibite della Trilogia della vita, a questo proposito, non era solo la cancellazione di immagini ma la stigmatizzazione di un contenuto politico, filosofico e intellettuale espresso tramite la gioia e l’abbandono che Pasolini stesso racconta di avere avuto – sempre durante la conferenza stampa a Cannes – nella rilettura del classico delle Mille e una notte

Il fiore delle mille e una notte (1974)

Nella sua abiura alla Trilogia della vita, alla quale seguì la Trilogia della morte, Pasolini dice: “Nella prima fase della crisi culturale e antropologica della fine degli anni Sessanta in cui cominciarono a trionfare l’irrealtà della sottocultura dei mass media e quindi della comunicazione di massa, l’ultimo baluardo della realtà sembravano essere gli innocenti corpi con un’arcaica fosca vitale violenza dei loro organi sessuali”. Ma il potere consumistico si è impossessato anche di questo baluardo, e ciò che segue alla Trilogia della vita non è altro che il senso di sconfitta di uno degli intellettuali più importanti e brillanti del nostro Novecento. Certo, di quel Pasolini pessimista si possono criticare tante cose – Italo Calvino gli rimproverava il senso di nostalgia per la sua “Italietta contadina” – ma è innegabile che con questo insieme di opere, compresa l’abiura, avesse individuato una direzione del mondo occidentale che l’Italia aveva appena imboccato e che oggi è più viva che mai.

Pier Paolo Pasolini sul set di Mille e una notte (1974)
Pier Paolo Pasolini

Non è tutto un prodotto, un branded content, una campagna pubblicitaria, uno spot ammiccante e un’identificazione con qualcosa che dobbiamo comprare; esistono ancora sentimenti e realtà che prescindono dal consumo, sebbene questo sia un elemento centrale e fondamentale della società moderna. Pasolini ci ha lasciato un grande insegnamento, che dovremmo tenerci stretto, ed è la capacità di accorgerci che il consumismo ha fatto a brandelli qualsiasi traccia di spirito critico, che abbiamo tutti a disposizione, basta solo accenderlo.

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