Il 1974 per l’Italia è un anno di grandi sommovimenti politici e sociali. Siamo nel bel mezzo degli anni di piombo. La strategia della tensione è alimentata da un clima di estremismo politico che egemonizza il dibattito pubblico e diffonde un clima di terrore. Nelle caserme è attivo uno stato d’allarme in relazione a un potenziale golpe. A marzo ha inizio a Catanzaro il processo per la strage di Piazza Fontana; a maggio l’attentato terroristico di matrice neofascista di piazza della Loggia a Brescia provoca 8 morti e 101 feriti, mentre ad agosto sul treno Italicus una bomba, posizionata da ignoti appartenenti a Ordine Nero, provoca 12 morti e 44 feriti. Nel frattempo, 73mila operai FIAT vengono messi in cassa integrazione, le rivolte nelle carceri vengono sedate a colpi di mitra, il prezzo della benzina è alle stelle e si susseguono tre governi.
Quell’anno, in estate, esce un romanzo. Non un romanzo qualunque, uno piuttosto di quelli di ordine speciale, la cui grandezza è tale da potersi dire eterni prima ancora che il loro destino editoriale ne dia conferma. La Storia, il libro a cui Elsa Morante dedicò gli sforzi di anni, racconta le vicende della vedova Ida Ramundo, maestra elementare, ebrea per parte di madre, che viene violentata all’inizio della seconda guerra mondiale nel suo appartamento di San Lorenzo da un giovane soldato tedesco ubriaco. Da questa violenza nascerà un figlio, Useppe, secondogenito di Ida, che insieme a Nino, il fratello maggiore, accompagneranno il lettore in quell’arco di tempo maledetto e contemporaneamente capace di prodigi, che fu la guerra, la sua fine e la ripresa che ne seguì.
Il romanzo, dato direttamente alle stampe in edizione economica per espressa volontà dell’autrice, è un libro capace di parlare a tutti: ai colti e agli incolti, ai ricchi e ai poveri, ai giovani e ai vecchi, ma soprattutto alla stessa Storia, interrogandola, chiedendole finalmente conto dei grandi mali di un tempo di allora e di oggi. Nel giro di un anno il libro vende 800mila copie, diventando in fretta un caso editoriale con pochi precedenti. Nel 1986 Luigi Comencini ne dirige la trasposizione cinematografica, pensata in tre puntate per la televisione, con Claudia Cardinale nei panni di Ida. Un film commovente e sognante, che tenta di rendere giustizia a un romanzo tanto amato quanto controverso. Se infatti il pubblico lo ama, lo compra, lo presta, ne rimane ammaliato, ne piange, la critica lo distrugge, lo celebra, lo sventra, lo compatisce, lo svilisce, lo tace.
Tra chi lo definirà come un feuilleton irresponsabile, concentrato di sentimentalismo per le masse, patetico e semplice al pari del Libro Cuore, solo pochi, invece, lo elogeranno senza risparmi: come Natalia Ginzburg, che lo definì “il romanzo più bello [del] secolo” o Anna Maria Ortese che dirà: “Quando il libro è finito, resta il senso dell’epoca”.
E il senso di quell’epoca ha un sapore amaro che, nonostante il progresso in cui si è creduto nell’immediato dopoguerra a suon di coca-cola e patti atlantici, fa piangere di pietà. L’epoca di cui resta il senso amaro è quel ventennio di cui nostro malgrado siamo figli e ancora paghiamo il prezzo: non come si pagano i debiti ai creditori, ma piuttosto come si scorgono dopo anni le tracce di un veleno che si pensava ormai dissolto e assorbito dalla terra e che invece ancora è in grado di intossicare la natura sul nascere, alle radici. Lo si può chiamare fascismo, o ancor meglio nazi-fascismo. E lo si può ritrovare nelle bombe del 1974, nei raduni di oggi, nelle mani tese, nella violenza verbale e fisica che ancora minaccia e colpisce. Ma ciò che La Storia ci dice – per mezzo, ad esempio, dei monologhi di Davide Segre, ragazzo anarchico ebreo che nell’opera rappresenta la voce più consapevole, anche se profondamente tormentata – è che il fascismo non è che l’espressione particolare di un male generale ed eterno, incarnato dal potere nella sua forma più distruttiva e lacerante: quella della sopraffazione del debole per la sopravvivenza parassitaria del forte. “Tuta la storia è storia di fascismi, più o meno larvati… nella Grecia di Pericle… e nella Roma dei Cesari e dei Papi… e nella steppa degli Unni… e nell’Impero Azteco… e nell’America dei pionieri… e nell’Italia del Risorgimento… e nella Russia degli Zar e dei Soviet… sèmpar e departùt i liberi e gli schiavi… i ricchi e i poveri… i compratori e i venduti… i superiori e gli inferiori… i capi e i gregari” dice Davide Segre in preda ad uno dei suoi sfoghi.
Il potere a cui abbiamo dato il nome di fascismo è sicuramente il potere di una classe, quella borghese, che ha, più o meno consapevolmente, supportato un regime autoritario e violento fintanto che non ne ha dovuto pagarne il prezzo sulla propria pelle. Ma è anche un potere molto abile nel fingersi accessibile a chiunque abbia la volontà di aderirne, promettendo un’emancipazione dall’insignificanza storica e sociale a cui la povertà condanna i poveri, per godere dello strapotere, fugace e illusorio, che garantisce lo stare dalla parte giusta, quella armata di denaro e manganelli.
C’è un personaggio, nel libro della Morante, che impersona bene la vittima dell’inganno che ancora oggi possiamo riconoscere nei giovani neofascisti che popolano le nostre strade e ogni tanto cantano inni in odor di ventennio ed esprimono un orgoglio squadrista non sempre consapevole, anche se comunque pericoloso. Si tratta di Nino, il primogenito di Ida. Nino è un ragazzo che cresce nelle ristrettezze della guerra e da esse non vede l’ora di emanciparsi, per buttarsi nella vita con tutta l’energia di un giovane quasi adulto. Affamato e senza padre vede nel fascismo, in un primo momento, la sazietà e l’abbraccio fiero di un padre. Aderisce quindi agli ideali del regime in un modo così goffamente spavaldo e ingenuo da fare compassione, più che rabbia. E infatti presto se ne distacca, abbracciando altri ideali e altre lotte, in nome di quella stessa fame di vita, dimostrando quanto gli schieramenti possano essere volatili quando dettati dalla frustrazione e dalla necessità di farsi strada in un mondo avverso già in partenza. Nino è un eroe disgraziato, che proprio nel suo tentativo di vivere eroicamente, emancipandosi dalla propria origine perdente perché proletaria e orfana, morirà da disgraziato, senza aver potuto mai mangiare degnamente.
E nel libro non è la sua morte, o la sua vita, a essere la sola traccia evidente di una sopraffazione. Ogni personaggio rappresenta un modo di stare al mondo nelle sue retrovie, nei suoi vicoli sudici, elemosinando un pasto dignitoso sempre negato. Ci sono soldati che muoiono per una guerra consumata sulla loro giovane carne, nel freddo del fronte, soli come cani. Cani fedeli che muoiono sotto le bombe insieme a chi si vede crollare la calce addosso, con i vasetti di fiori, e qui risuonano le parole di Natalia Ginzburg: “Chi ha visto le case crollare sa troppo chiaramente che labili beni siano i vasetti di fiori, i quadri, le pareti bianche. Sa troppo bene di cosa è fatta una casa. Una casa è fatta di mattoni e di calce, e può crollare”.
Muore anche una donna che si prostituisce, triste e rassegnata, uccisa dal suo aguzzino in una baracca di periferia; muoiono gli ebrei nel treno che li avrebbe in ogni caso portati a morire; sui monti muoiono i partigiani in nome di una libertà con cui si dovrebbe nascere e non morire; e muoiono tutti per mano di quel male generale che nella sua forma particolare chiamiamo fascismo: per le sue manie di grandezza, per l’utilitarismo con cui concepisce la vita umana, per la sua natura servile a un potere ancora più spregiudicato e truce, quello nazista, e infine per la sua terribile necessità di fare dei deboli carne da macello per il solo scopo di continuare a nutrire i forti, che senza quel sacrificio non avrebbero di che cibarsi.
In mezzo a tutta questa morte, o malgrado essa, nasce Useppe, il vero protagonista di questa storia e capro espiatorio della stessa Storia, quella con la S maiuscola, come si preoccupa di sottolineare Morante: “Tutta la Storia e le nazioni della terra s’erano concordate a questo fine: la strage del bambinello Useppe Ramundo”. Quel bambino, generato dalla violenza come da una sorta di peccato originale, è un fiore splendido e puro, capace di crescere fra le crepe dell’asfalto e resistere a ogni sorta di intemperie senza difendersi con alcun tipo di spine. Useppe rappresenta l’amore per la vita e, in definitiva, il solo modo che gli ultimi hanno di difendersi davanti alla prepotenza: chiamarsene fuori. Se infatti le sopraffazioni e i fascismi, ci dice Elsa Morante, si nutrono della violenza che il forte esercita sul debole e il debole sul più debole ancora, l’unico modo per mettere fine a quella catena di dolore e sangue – fatta di grandi guerre, genocidi, stermini, ma anche di piccole violenze quotidiane in apparenza insignificanti – è guardare alla vita con uno sguardo incantato e privo di rancore, come quello che Useppe sa gettare su tutto ciò che lo circonda. “Sei troppo carino per questo mondo”, gli dirà il pessimista e fin troppo consapevole Davide Segre. E infatti, come annota Thoreau ne La disobbedienza civile: “Se una pianta non può vivere secondo la propria natura, muore, e allo stesso modo un uomo”.
Il più grande romanzo di Elsa Morante non lascia molto spazio alla speranza in un futuro luminoso, dove gli ultimi riescono a emanciparsi. E forse fu questa la colpa principale che le imputarono i critici, specie quelli marxisti. Oggi però siamo tenuti a riconoscere un grande pregio a questo libro che restituisce dignità a chi ha pagato il prezzo più caro della Storia. Ci aiuta Italo Calvino, quando scrive che l’arte e la letteratura vivono della minuta verità dei minori e dei minimi. Infatti, nelle vicende tragiche di Ida Ramundo, dei suoi figli e di tutto il mondo martoriato in cui si muovono cercando di sopravvivere, emerge, evidente e solenne, un monito rivolto tanto ai potenti quanto ai privi di potere: il solo modo per emanciparsi dai fascismi sempre nuovi della Storia è riconoscersi tutti fratelli in un destino comune, e in questo orizzonte decidere, ogni giorno, di non rendersi complici della violenza e della sopraffazione. “Di fronte a questa oscenità decisiva della Storia,” scrive Elsa Morante, “ai testimoni si aprivano due scelte: o la malattia definitiva, ossia farsi complici definitivi dello scandalo, oppure la salute definitiva – perché proprio dallo spettacolo dell’estrema oscenità si poteva ancora imparare l’amore puro”. Leggere La Storia oggi equivale allora a esercitarsi a questo amore, contro ogni nuova forma di violenza e totalitarismo.