Ossessionati dal raggiungere un obiettivo dietro l’altro, ci stiamo ammalando - THE VISION
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Che sia una tendenza sociale, dannosa eppure inarrestabile, quella di affrettarci a raggiungere più traguardi possibile, con una frenesia che ci impedisce di rallentare e capire cosa vogliamo realmente per il nostro presente e futuro, è cosa ormai nota. Che sbirciare sui social, tutti i giorni, i traguardi raggiunti dagli altri acuisca la nostra frenesia e competitività, è altrettanto vero. Sono sempre più numerosi i casi di persone, spesso molto giovani, che sprofondano in condizioni di malessere psichico, ansia e crisi depressive, e tra le varie cause si può sicuramente addurre l’incapacità di sopportare il fallimento. La società propone costantemente modelli di riferimento irrealistici – con standard di vita spesso elevati – e un ideale di successo omologato e dannoso, ma anche il sovraccarico di lavoro cui ci si sottopone, correndo il rischio di burnout, e l’ossessione da performance che pervade ogni angolo della nostra vita – da quello professionale a, talvolta, quello affettivo – riducono all’osso il tempo che dedichiamo al riposo, necessario, e contribuiscono ad acuire il diffuso disagio psicologico. Ci capita sempre più spesso di leggere le storie di giovani che arrivano a suicidarsi proprio perché non accettano l’idea di fallire in nessun campo, che rovinano la propria vita a causa delle pressioni sociali, di quella vacua idea di successo e di ambizioni altrui che si rivelano troppo faticose da gestire. A questo proposito c’è un romanzo, La donna del ritratto di Javier Cercas, pubblicato nel 1997, che svela efficacemente il meccanismo autodistruttivo in cui tutti, prima o dopo, ci troviamo intrappolati, quando ci misuriamo con concetti come “realizzazione personale” o, peggio, “successo”.

Protagonista del romanzo è Tomàs, ricercatore universitario di poco più di trent’anni, giovane eppure già sfibrato da una vita che, almeno in apparenza, sembrerebbe piena e avviata verso una completa realizzazione. Ma quando rincontra casualmente l’oggetto del suo grande amore adolescenziale – un amore che non si era mai concretizzato – la vita di Tomàs, dominata da ansia e continue incertezze, subisce uno scossone che dà inizio a una parabola discendente, ma solo in apparenza. In poco tempo, infatti, Tomàs perderà tutto: la compagna, da cui aspetta un figlio e che abortisce; il suo posto da ricercatore universitario; la possibilità di intraprendere una carriera accademica. Ma, proprio quando tutto va in fumo, con un effetto domino repentino e inarrestabile, Tomàs si accorge che non si sente più in ansia, che le sue angosce sembrano svanite. Proprio quando tutte le sue ambizioni, la sua ossessione per il successo, professionale e privato, svaniscono, sembra estinguersi anche la sua costante paura di sbagliare, di fallire. Nel momento in cui, per circostanze che esulano dalla sua volontà, si arresta la sua corsa verso il “fare”, il centrare a tutti i costi un obiettivo dopo l’altro, Tomàs inizia finalmente a stare meglio. 

Ed è Tomàs stesso a dirlo: smette di essere quello che Walter Benjamin definisce, in un saggio del 1962, “un personaggio di destino” – che, incapace di vivere nel presente, si fa risucchiare da un futuro che appare minaccioso – e diventa “un personaggio di carattere” – che al contrario sa vivere immerso nel presente, lontano dalla pura finalità dell’affermazione di sé nel futuro. “Come forse accade a tutte le persone che vogliono diventare qualcuno,” scrive Tomàs, “avevo vissuto quasi sempre in uno stato di ansia permanente, come se soltanto la tensione e l’angoscia del risultato da conseguire potessero mantenermi vivo”. Ma non appena crolla tutto, e prima di tutto le sue ambizioni, Tomàs inizia a vivere. “Forse perché cominciavo a essere cosciente del fatto che non avevo più niente di importante da perdere e, pertanto, nulla di importante avevo più da temere, cominciai a godere allora di una modesta forma di felicità”.

Nel personaggio di Tomàs, è facile scorgere la gran parte delle persone che, oggi, smarriscono sé stesse e compromettono la propria salute, per non mancare neppure uno degli obiettivi che si sono prefissate. Diciamo spesso che sono le nuove generazioni a patire maggiormente gli effetti delle pressioni sociali, determinate e imposte dalla società della performance. E questo è vero, sono soprattutto i giovani a risentirne; ma è pur vero che, a oggi, l’ansia da prestazione non risparmia quasi nessuno. Né chi giovane lo è per davvero, né quelli che, pur non essendolo anagraficamente, sono costretti a condurre uno stile di vita da “eterni adolescenti”, spesso per ragioni economiche e professionali, talvolta anche esistenziali. Corriamo tutti per raggiungere standard non realistici, in una società che non ci dà le condizioni neppure per costruire una vita minimamente dignitosa; e quando restiamo intrappolati dentro questo loop ci facciamo prosciugare ogni giorno di più da una corsa incessante verso il successo in ogni campo, ma è molto probabile che falliamo e ne usciamo sfibrati e ugualmente insoddisfatti.

Oggi, quasi nessuno è immune dalle dinamiche e dagli effetti della cosiddetta società della performance, che alimentiamo a nostra volta senza accorgercene in molti modi, per esempio elogiando da una parte – e in questo la stampa ha un ruolo enorme – gli enfant prodige come fossero modelli cui ispirarsi e da osannare; e, dall’altro, rammaricandoci – con tono ipocrita e inconsapevole allo stesso tempo – quando leggiamo di uno studente universitario, l’ennesimo, che si suicida perché non tollera di essere rimasto indietro con gli esami. Da un lato abbiamo una ragazza, celebrata dalla stampa come ragazza prodigio perché laureata in Medicina a soli 23 anni e secondo cui “il sonno è tempo perso”; dall’altro uno studente di nemmeno trent’anni che non vuole rivelare ai genitori di aver fallito alcuni esami universitari e allora si suicida. Sbrigarsi, mai fermarsi, mai perdere tempo e non solo nello studio, nel lavoro o nella carriera. Anche le relazioni affettive oggi sono diventate performance, con tappe prestabilite che tolgono spontaneità. Tutti siamo stati, prima o dopo, vittime del fuoco incrociato delle classiche domande: e il fidanzato ce l’hai? Ma allora ti sposi? E un figlio quando? E il secondo? E queste domande sono diventate, spesso, campanelli d’allarme per dirci che eravamo in ritardo sulla tabella di marcia. Ma oggi si sono aggiunti anche i social a contribuire, a proporci i video di proposte di matrimonio o di baby shower – tappa quasi obbligata nella vita di chi aspetta un bambino – e tutto questo impatta nella vita di chi, magari, vorrebbe prendere tempo e, invece, avverte la pressione social e, inevitabilmente, confronta la propria vita con quella degli altri.

Forse è vero che ci devono essere sottratte tutte le possibilità di realizzazione e successo – come accade al personaggio di Cercas – per arrivare a capire che stavamo buttando via il tempo che abbiamo, correndo come criceti su una ruota che spesso porta al malessere psichico, non all’appagamento sociale ed esistenziale. La parabola del protagonista del romanzo La donna del ritratto va letta e riscoperta oggi, perché aiuta a comprendere la grammatica pervasiva del successo, la cui potenza distruttrice è sempre più forte. Tutti, infatti, potremmo riconoscerci nel Tomàs del romanzo, un “personaggio di destino” morbosamente – e, all’inizio, inconsapevolmente – attaccato a ciò che gli causa angoscia e timori, a ciò che gli impedisce di vivere il presente e lo proietta in un futuro che spaventa.

Tomàs è attaccato a ciò che più lo fa soffrire e che, al contempo, lo vuole sempre performante, pronto a scendere a mille compromessi, a rinunciare al riposo e alle pause tra un impegno e l’altro e, soprattutto, che gli genera una compulsiva paura del fallimento. Il personaggio di Cercas somiglia un po’ a tutti noi, schiavi di un meccanismo autodistruttivo che continua a mietere vittime costantemente, ma a cui il più delle volte non riusciamo a sottrarci poiché, diversamente da lui, noi ci sentiamo ancora in corsa verso la tanto agognata “meta”. E allora continuiamo a correre, ad affaticarci, terrorizzati all’idea di perdere proprio ciò che acuisce costantemente il nostro disagio; continuiamo a star male, quando forse dovremmo solo permetterci di dire basta, fermarci e chiederci se valga davvero la pena di procedere con un ritmo così forsennato, in tutti i campi della nostra vita, senza mai rallentare.


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