In una piccola sala cinematografica, durante una proiezione a porte chiuse, Don Anselmo indignato suona una campanella a ogni scena scabrosa proiettata sullo schermo. Siamo nel secondo dopoguerra, in un piccolo paese della Sicilia, e il film in questione è Nuovo Cinema Paradiso di Giuseppe Tornatore. Con questa scena il regista premio Oscar ha raccontato la pratica della censura cinematografica, che in Italia ha avuto inizio il 25 giugno del 1913, con una legge che autorizzava il governo del Re a intervenire e vigilare sulla produzione delle opere.
Pochi giorni fa il ministro della Cultura Dario Franceschini ha infatti firmato il decreto che abolisce la censura cinematografica, dichiarando “definitivamente superato quel sistema di controlli e interventi che consentiva ancora allo Stato di intervenire sulla libertà degli artisti”. Con questo intervento, ai sensi della Legge Cinema, non sarà più previsto in Italia il divieto di uscita di un’opera cinematografica in sala, né sarà più possibile sottoporre un film a tagli o modifiche di alcun tipo. Il decreto istituisce la Commissione per la classificazione delle opere cinematografiche presso la Direzione Generale Cinema del ministero della Cultura, presieduta dal presidente emerito del Consiglio di Stato Alessandro Pajno e composta da quarantanove componenti di comprovata competenza nel settore cinematografico e pedagogico-sociale. Il decreto prevede che i film vengano divisi in quattro categorie: quelli adatti a tutte le fasce d’età e quelli vietati ai minori di 6, 14 e 18 anni. I produttori decideranno in quale categoria inserire le opere e Commissione avrà poi il compito di confermare la decisione o di proporre una categoria alternativa.
Come abbiamo detto, la storia della censura in Italia inizia più di un secolo fa: dopo la legge del 1913, un Regio Decreto del 1920 stabiliva che tutte le sceneggiature prima e le opere realizzate poi dovessero passare al vaglio di una commissione per ottenere il nulla osta sia alla realizzazione del film che alla sua proiezione. Durante il fascismo il vaglio delle pellicole fu affidato al ministero della Cultura Popolare, e la censura divenne ancor più severa, dato che il regime aveva individuato nel cinema un importante strumento di propaganda politica. Il culmine della pratica censoria applicata al cinema non si ebbe però solo durante gli anni del fascismo come si potrebbe pensare, ma anche durante il secondo dopoguerra. Nonostante l’articolo 21 della Costituzione consentisse la libertà di stampa e delle altre forme di espressione, su pressione del mondo cattolico fu infatti aggiunto un comma che vietava spettacoli e manifestazioni contrari al buon costume. Fu così che pellicole come Ultimo tango a Parigi di Bernardo Bertolucci o Totò e Carolina di Mario Monicelli furono sottoposti a modifiche perché considerati offensivi per la morale dell’epoca. Il regista che in Italia divenne il bersaglio prediletto della pratica censoria però fu Pier Paolo Pasolini.
Quando iniziò a frequentare l’ambiente cinematografico romano, Pasolini viveva già nella capitale da circa un decennio. Fuggito dal Friuli – reduce dall’espulsione dal PCI per indegnità morale e politica, in seguito al processo per atti osceni in luogo pubblico e corruzione di minorenne, fu licenziato dalla scuola media in cui insegnava – si era rifugiato a Roma, dove aveva proseguito con la carriera di insegnante e scrittore. Ma i contenuti scabrosi delle sue opere gli valsero presto l’accusa di oscenità. Com’è noto, per le proprie opere sceglieva temi arditi, che veicolava attraverso un linguaggio spudorato e licenzioso.
Il primo film diretto da Pier Paolo Pasolini è Accattone. Uscito nel 1961, racconta la storia di un sottoproletario della periferia romana che, costretto a vivere di espedienti, si fa mantenere da una prostituta. Con Accattone, Pasolini portava sul grande schermo la realtà di una classe sociale dimenticata e senza possibilità di riscatto, destinata a un futuro amaro. Pur non avendo ottenuto il visto della censura, Accattone fu presentato alla Mostra del Cinema di Venezia e, già in quell’occasione, fu duramente contestato. Durante la prima al cinema Barberini di Roma, poi, alcuni gruppi di neofascisti tentarono di impedire la proiezione lanciando bottiglie d’inchiostro contro lo schermo, finocchi e bombette di carta tra il pubblico. Le colluttazioni durarono a lungo e la proiezione del film fu ritardata di oltre un’ora. In seguito a questi fatti, la pellicola fu censurata dal sottosegretario al ministero del Turismo e Spettacolo Renzo Helfer e ritirata da tutte le sale italiane. Ma i problemi per Pasolini non erano ancora finiti: l’avvocato e politico democristiano Salvatore Pagliuca gli fece infatti causa perché nel film un criminale portava il suo stesso nome. Pagliuca chiese il risarcimento dei danni morali e l’eliminazione del nome dalla pellicola, ottenendo però il solo risarcimento dei danni. Molto apprezzato in Francia e premiato al Festival Internazionale del cinema di Karlovy Vary, Accattone fu il primo film italiano vietato ai minori di 18 anni. La brutale fotografia dello squallore e della povertà delle periferie romane toccò una ferita aperta nella coscienza borghese dell’epoca.
Anche Mamma Roma, secondo lungometraggio diretto da Pasolini, subì una sorte affine ad Accattone. Proiettato nel 1962 alla Mostra del Cinema di Venezia, fu vietato ai minori di 14 anni e i dialoghi subirono alcune cancellature. La storia ruotava intorno a una prostituta, interpretata da Anna Magnani, che per amore del figlio decideva di cambiare vita. Il film fu segnalato dal colonnello Giulio Fabi alla Procura della Repubblica di Venezia per il suo contenuto offensivo. Nel 1963 fu poi la volta de La ricotta, inserito all’interno del film in quattro episodi Ro.Go.Pa.G. – sigla derivata dai nomi dei registi Rossellini, Godard, Pasolini e Gregoretti. Ambientato su un set cinematografico nel quale si sta girando la Passione di Cristo, La ricotta ricevette una tiepida accoglienza e venne sequestrato il giorno della sua uscita. Pasolini fu accusato di vilipendio alla religione di Stato e per questo condannato a quattro mesi di reclusione. Successivamente il film tornò sugli schermi con tagli e modifiche del sonoro, oltre all’eliminazione della didascalia iniziale e della battuta finale di Orson Welles. Furono eliminate frasi come “Via i crocifissi!” ed espressioni come “Cornuti!” e cancellate alcune scene ritenute lesive della moralità, tra cui quella dell’orgasmo del protagonista e quella dello spogliarello dell’attrice che interpreta la Maddalena. In una recensione uscita su L’Espresso lo stesso anno Moravia osannò il film di Pasolini, sostenendo che avesse “la complessità, nervosità, ricchezza di toni e varietà di livelli delle sue poesie; si potrebbe anzi definire un piccolo poema di immagini cinematografiche. Da notarsi l’uso nuovo ed attraente del colore e del bianco nero”.
Nel 1968 uscì poi Teorema, che dopo aver ricevuto il nulla osta fu criticato e ritenuto scandaloso dalla Chiesa cattolica. La pellicola racconta di una famiglia nucleare dell’alta borghesia la cui routine è sconvolta dall’arrivo di un giovane, che in breve tempo seduce madre, padre, figlio e figlia. La Procura della Repubblica di Roma sequestrò il film per le numerose oscenità, gli amplessi rappresentati in maniera esplicita e per la lascivia della scena del rapporto omosessuale tra il giovane ospite e un membro della famiglia; fu contestata inoltre la scelta di utilizzare brani di Mozart in alcune scene di rapporti sessuali. Teorema fu sequestrato anche dalla Procura della Repubblica di Genova e sia Pasolini che il produttore Donato Leoni subirono un processo. Il Pm chiese sei mesi di reclusione per entrambi e la distruzione integrale dell’opera ma il giudice decise per l’assoluzione perché il fatto non costituiva reato. Dopo il processo Pasolini dichiarò: “La parte vecchia della nostra società è ipocrita e repressiva e quindi ignora l’eros. La parte tollerante e permissiva dà all’eros delle qualità che non mi piacciono. È una falsa tolleranza, una forma di alienazione anche quella”. Anche Teorema fu vietato ai minori di 14 anni.
Nel 1971 fu la volta di Decameron. Il primo episodio della Trilogia della vita costò a Pasolini un altro processo da cui verrà assolto. Attraverso un adattamento delle novelle di Boccaccio – realizzato con un linguaggio audace e disturbante – Pasolini mette in piedi la rappresentazione iperbolica delle brutture di una classe borghese ormai in decomposizione, un ritratto dissacrante della società che è anche un inno al sesso e alla corporeità dell’esistenza. Il Decameron fu giudicato quattro volte e per quattro volte prosciolto dall’accusa di oscenità; venne epurato delle parti più erotiche e il linguaggio fu passato al solito setaccio della censura.
Anche gli altri due film della Trilogia subirono più o meno la stessa sorte. Ma è con Salò o le 120 giornate di Sodoma che, nel 1975, Pasolini portò in scena la brutalità degli impulsi umani portati al parossismo. Ispirato al libro del marchese de Sade, Le 120 giornate di Sodoma avrebbe dovuto far parte di una “Trilogia della morte” mai portata a termine. Il film uscì al Festival del Cinema di Parigi tre settimane dopo l’omicidio di Pasolini e costò un processo al suo produttore, Alberto Grimaldi, che scontò due mesi di reclusione per poi venire assolto. Il film fu sequestrato con questa motivazione: “immagini così aberranti e ripugnanti di perversione sessuale […] offendono sicuramente il buon costume e come tali sopraffanno la tematica ispiratrice del film sull’anarchia di ogni potere”.
Nel 1961, nel corso di un dibattito a proposito della scelta di censurare Rocco e i suoi fratelli di Luchino Visconti, Pasolini si era scagliato duramente contro la pratica censoria come strumento di influenza ideologica. Secondo Pasolini, proprio in quegli anni la classe dirigente stava prendendo coscienza dello straordinario potere comunicativo del cinema: “L’unica arma che non è ancora nelle mani della classe dirigente è il cinematografo […], perché il cinematografo lo fanno delle persone che non sono dalla parte della classe dominante di questi anni”. Pasolini, a questo proposito, aveva individuato tre finalità della censura: intimorire i produttori, focalizzare l’attenzione del pubblico sui meri aspetti scabrosi della pellicola distogliendo l’attenzione dalla totalità dell’opera e, infine, creare discredito attorno al nome del regista. “L’influenza ideologica possiede varie armi”, disse,“Fino a un secolo fa possedeva le prediche del parroco, dopo è seguita la stampa, la radio e la televisione”.
Nel novembre del 1975, Pasolini avrebbe dovuto tenere un Congresso del Partito radicale. Il suo discorso, però, poté soltanto essere letto davanti a una platea sconvolta, che due giorni prima aveva appreso la notizia del suo omicidio. Ai Radicali, Pasolini dedicò le sue ultime parole, in linea con un’esistenza controversa ma coerente nel percorrere una strada ostinatamente contraria: “Voi non dovete far altro (io credo) che continuare semplicemente a essere voi stessi: il che significa essere continuamente irriconoscibili. Dimenticare subito i grandi successi: e continuare imperterriti, ostinati, eternamente contrari, a pretendere, a volere, a identificarvi col diverso; a scandalizzare; a bestemmiare”. Per più di un secolo il controllo e la normalizzazione coatta delle pellicole hanno avuto ripercussioni negative, oltre che sulla libera espressione degli artisti, sulla ricezione delle opere da parte del pubblico; l’alterazione di un’opera d’arte da parte di terzi costituisce infatti la violazione di un tacito accordo tra artista e spettatore. Come diceva Federico Fellini: “Censurare è distruggere, o almeno opporsi al processo del reale”.