È il 1971. L’Italia veniva dalle proteste dei giovani nei confronti della scuola e dalle lotte operaie, che avevano contribuito a formare un Paese più laico e a riconoscere nuovi e fondamentali diritti ai lavoratori, e si affacciava su quello che sarebbe stato un decennio nero, dove l’imperativo dello spendere del boom economico si spegneva in una situazione più complicata e il terrorismo politico segnava alcuni degli eventi più importanti della storia italiana. Le classifiche musicali erano dominate da Lucio Battisti, con il 45 giri Pensieri e Parole/Insieme a te sto bene, mentre alla radio Mina cantava Amor mio, scritta dallo stesso cantautore laziale insieme a Mogol nel tempo più intenso della loro collaborazione. Al cinema uscivano Il Decameron di Pier Paolo Pasolini e Morte a Venezia di Luchino Visconti. Ma il 1971 è anche il tempo della legge sul divorzio, dell’inizio dell’emancipazione femminile, della regolamentazione dell’aborto e della chiusura dei manicomi con la legge Basaglia. Il 15 aprile di quello stesso anno, sulle pagine de La Stampa, il primario neurologo dell’ospedale mauriziano di Torino Andrea Romano firmava un articolo intitolato Un problema di scottante attualità. L’infelice che ama la propria immagine, in cui recensiva il saggio Diario di un omosessuale di Giacomo Dacquino, pubblicato da Feltrinelli. Psicoterapeuta e sessuologo cattolico, Dacquino aveva registrato senza consenso le sedute di psicoterapia con un ragazzo gay, le aveva trascritte e mistificate, inventandosi un finale in cui, grazie al suo percorso, il giovane era “guarito” diventando eterosessuale.
Anche se oggi le terapie di conversione sono state condannate dalle principali associazioni internazionali di salute mentale e l’Onu le consideri “immorali, non scientifiche, inefficaci e, in alcuni casi, equivalenti a tortura”, all’epoca in molti vi davano credito. Da un sondaggio del 1977 emerge che il 73% degli italiani riteneva l’omosessualità una malattia e il 19% un vizio. A contestare quanto riportato nell’articolo fu un gruppo di ragazzi omosessuali di Torino, chiamati da Angelo Pezzana, libraio molto conosciuto in città, a far sentire la propria voce. La Stampa si rifiutò di pubblicare la lettera con cui Pezzana criticava l’elegia del saggio di Dacquino: “Di questo argomento si parla fin troppo”, scrisse la redazione in risposta. “Fino agli inizi degli anni Settanta la parola ‘omosessualità’ non veniva pronunciata né scritta pubblicamente. Si diceva ‘il terzo sesso’, ‘quelli lì’, ‘quelli così’, ‘quell’ambiente’. La parola ‘omosessuale’ non aveva dignità di pagina nemmeno sui giornali. E gli omosessuali erano la conseguenza di questa negazione di identità”, racconta Pezzana nel primo episodio de Le radici dell’orgoglio, il podcast sulla storia della comunità LGBTQ+ italiana. Fu quel rifiuto al dialogo a dare vita al Fuori!, la prima associazione del movimento di liberazione omosessuale italiano. Il nome è un riferimento alla rivista americana Come out, “vieni fuori”, ma anche al FHAR – Front homosexuel d’action révolutionnaire francese fondato nel marzo 1971. “Io pensai che Fuori! potesse essere un’ottima idea per dare il senso della propria differenza, della propria estraneità a un sistema patriarcale, cioè fuori da un canone. E a pensarci dopo, quell’acronimo poteva prestarsi bene per ‘Fronte unitario omosessuale rivoluzionario italiano’”, aggiunge il poeta e saggista Luigi Cannillo ne Le radici dell’orgoglio.
Come spiega a The Vision Enzo Cucco, che militò nel Fuori! dal 1976 fino al suo scioglimento, la storia del movimento può essere divisa in tre fasi principali: dal 1971 al 1974, i primi anni di vita; dal 1974 al 1978, quando l’associazione si federa al Partito radicale di Marco Pannella; dal 1978 al 1982, periodo dedicato ai diritti civili e allo sviluppo di rapporti diretti con i Comuni. Fu proprio nella prima fase che il Fuori! decise di pubblicare una rivista omonima su cui scrissero, tra gli altri, anche Pezzana, Enzo Francone, Marco Silombria, Mario Mieli, Alfredo Cohen e Mariasilvia Spolato. “All’immagine tradizionale dell’omosessuale che aspira ad inserirsi senza troppo rumore in questa società nevrotizzante, opponiamo l’immagine dell’omosessuale rivoluzionario che vuole ESSERE”, oppure “Usciamo fuori dalla clandestinità, dalla paura, dal mi-faccio-i-fatti-miei. Se saremo uniti, trasformeremo la nostra vita. Rivoluzione è GIOIA”, si legge sul numero zero uscito nel dicembre 1971, stampato in mille copie e spedito agli amici in tutta Italia. “La richiesta era semplice”, spiega Pezzana nel saggio del giornalista Simone Alliva Fuori i nomi! Intervista con la storia italiana LGBT. “La sera quando vai a battere – e per battere noi intendevamo incontrare altri omosessuali nei luoghi che a noi erano concessi: bagni, cinema, parchi – dicevamo: portati dietro dieci copie, chiedi se vogliono prendere questo giornale perché stiamo cercando amici che lavorino con noi nel Movimento”. Inizialmente mensile, la rivista divenne poi quadrimestrale prima di cessare la pubblicazione nel 1982, per motivi finanziari. Nell’estate del 1974 nacque invece il Fuori! Donna, coordinato da Stefania Sala e con l’introduzione di Fernanda Pivano, che vedeva la partecipazione di molti collettivi femministi, mentre ben presto, alla rivista principale – più pesante, costosa e sempre incentrata sulla riflessione – si affiancò LAMBDA, un bollettino di poche pagine contenente le azioni di tutti gli altri gruppi italiani, che prima fu l’organo ufficiale dei collettivi legati al Partito Radicale e poi iniziò a rivolgersi all’area del movimento più vicina alla sinistra extraparlamentare.
Il primo vero numero del FUORI! uscì nel giugno 1972, pochi mesi dopo quella che è da molti considerata la Stonewall italiana. Il 5 aprile del 1972, infatti, circa quaranta persone si riunirono davanti al Casinò di Sanremo per protestare contro il Congresso internazionale di sessuologia, focalizzato sul trattamento medico dell’omosessualità. Se alcuni partecipanti tennero discorsi ambigui, altri furono perentori: “Bisogna dire chiaramente che gli omosessuali non sono dei nevrotici, ma degli piscotici, e che proseguendo di questo passo si potrà dire che è normale andare a dormire con una gallina, che gli omosessuali potranno corrompere molti svegliando la loro omosessualità latente. E così addio prosecuzione della specie”. Il Fuori!, insieme ad altri attivisti francesi, inglesi, belgi, olandesi e norvegesi, manifestò apertamente con cartelli, slogan e volantini in cui erano scritte frasi come “Primo e ultimo congresso di sessuofobia”, “Psichiatri siamo venuti a curarvi”, “Gli omosessuali escono fuori e con orgoglio”. Alcuni si infiltrarono all’interno, fingendosi psichiatri e, saliti sul palco, si impossessarono del microfono. La polizia arrivò quasi immediatamente, ma il successivo processo si chiuse con l’archiviazione delle accuse.
Così Alfred Cohen, uno dei membri del movimento, scriveva sulle pagine della rivista: “Per noi eravamo a Sanremo, non certo per gli psichiatri attardatisi in un convegno morto prima di essere nato. Era per noi stessi che cantavamo è gridavamo a Sanremo, e ci aspettavamo i giornali e il clamore attorno alla manifestazione. Era per noi e i compagni sconosciuti che volevamo essere fotografati, intervistati e ci abbracciavamo davanti agli altri”.
Tra i manifestanti era presente anche Mario Mieli – in quel momento nel suo periodo londinese e inviato come delegato del Gay Liberation Front –, intellettuale e teorico, autore del saggio Elementi di critica omosessuale, che pochi anni dopo, a 31 anni, avrebbe infilato la testa nel forno per suicidarsi. La sua “è un’utopia da vivere, partendo dal presupposto che la liberazione dell’eros nelle sue forme neglette e represse è il solo serio antidoto al predominio mortifero della norma e del capitalismo”, spesso oggi superata o criticabile, ma che evidenziava la differenza tra chi cercava l’accettazione e chi, come Mieli, marcava una distanza tra sé e il mondo che, se mai andava colmata, andava colmata portando il mondo verso di lui e non viceversa. Nel suo saggio, inoltre, si evidenziava come l’integrazione delle istanze omosessuali nell’agenda della sinistra fosse ancora lontana dall’essere raggiunta. Fu attorno a Mieli che si creò l’esperienza del Fuori! milanese, mentre nelle altre città prendevano forma nuovi collettivi.
Ben presto il movimento si federò con il Partito Radicale, adottandone l’approccio riformistico e abbandonando quello rivoluzionario, portando di conseguenza ad alcune scissioni interne, e iniziò a perseguire un progetto politico all’interno delle istituzioni. Nel 1976, in vista delle elezioni, Marco Pannella decise di intraprendere due importanti riforme all’interno del partito: candidare persone omosessuali e prevedere solo capoliste donne. Fu così che, tra le persone che ci misero la faccia, con nome e cognome, Angelo Pezzana fu il primo dei non eletti e divenne parlamentare solo per pochi giorni. Nel frattempo, mentre in Italia iniziavano a nascere i primi locali ed erano sempre più le canzoni di Sanremo che parlavano apertamente di sessualità, il Fuori! assunse una dimensione internazionale: nel 1978 fondò Iga, poi diventata Ilga, una delle più importanti organizzazioni mondiali per la tutela dei diritti LGBTQ+; l’anno precedente Pezzana si fece arrestare per le strade di Mosca, avvolto in un asciugamano con la scritta “Libertà per gli omosessuali in Urss” mentre manifestava contro il regime di Leonid Brezhnev per l’ingiusta incarcerazione dello scrittore Paradjanov; due anni dopo Enzo Francone protestava a 2947 chilometri di distanza nelle strade di Teheran contro l’avvento di Khomeini al potere, sfidando in piazza il regime per protestare contro le discriminazioni.
L’anno della fine fu il 1982. A gennaio, durante il Congresso del Fuori! tenutosi in Campania, si decise che si sarebbe continuato solo una volta raggiunti i mille iscritti. A Luglio, sette mesi dopo, inviati in America per Iga, i militanti del movimento si resero conto della vera portata dell’Aids, su cui si sviluppavano scontri fra negazionisti e non. “In Italia la notizia era uscita, ma nessuno se ne era accorto”, ci racconta Cucco. “Fino ad allora era stato descritto solo come ‘cancro dei gay’, ma l’orientamento sessuale non c’entrava nulla. Ricordo che sul treno per New York ci guardammo esterrefatti, così raccogliemmo tutta la documentazione possibile e tornati a Roma iniziammo a parlare”. Dal 1982 al 1987, l’arrivo dell’Aids segnò così il movimento LGBTQ+ di tutto il mondo: ogni forza veniva spesa nell’affrontare la lotta alla malattia, nell’aiutare chi aveva bisogno. L’impegno nazionale del Fuori! è rimasto ancora vivo per vari gruppi, ma parte delle attività sono passate in mano alla Fondazione Sandro Penna. Gli anni Ottanta saranno poi anche quelli del fermento culturale, della nascita di Arcigay nazionale, dell’approvazione della legge 164/82 che riconosceva finalmente anche le identità trans.
Recuperare la storia del primo movimento di liberazione omosessuale italiano è un’impresa parziale fatta di scelte e scarti, perché il suo sviluppo è inestricabilmente legato alla storia sociale e politica del Paese – per quanto si faccia finta che non sia così. “Tornato da un viaggio in America, dove gli studi iniziavano a proliferare, mi accorsi di come in Italia mancasse invece una vera memoria della comunità”, ci spiega Giorgio Bozzo, ideatore di Le radici dell’orgoglio, attualmente in lavorazione per una seconda stagione grazie al riscontro per il crowdfunding lanciato. “Iniziai così a cercare i protagonisti del movimento e a raccoglierne le testimonianze. Parlare di orgoglio con la consapevolezza della storia del movimento italiano, dà forza alla nostra memoria. Capire quanto questa lotta sia stata difficile dimostra quanto tutto deve ancora oggi essere considerato precario. Recuperarne il senso ci aiuta a capire che le nostre istanze non sono state realizzate”.
In un momento in cui dall’Est Europa torna prepotente la cancellazione delle identità LGBTQ+ con le politiche conservatrici di Polonia e Ungheria, e nel nostro Paese il Governo Meloni ripropone le stesse idee, riscoprire il lascito del FUORI!, oltre a essere un atto politico, significa trovare il coraggio di tornare a imporsi sullo spazio pubblico e a pretendere che da oggi, delle nostre vite, saremo di nuovo noi a parlarne in prima persona.
Foto courtesy Fondazione FUORI!