Il regista Giuliano Montaldo sta parlando con l’amico Ennio Morricone della colonna sonora del suo film ispirato alla storia di Sacco e Vanzetti quando si accorge che manca qualcosa: una canzone che funga da tema riconoscibile. Morricone è d’accordo: è il 1971 e anche lui sa che è il tempo delle ballate ma non sanno a chi farla cantare. Buttano lì il nome di Joan Baez ma sembra una boutade: “l’usignolo di Woodstock” è negli Stati Uniti e non hanno nessuno che possa fungere da tramite per riuscire a contattarla. Qualche mese dopo, Montaldo parte alla volta degli States per recuperare dei filmati di repertorio da inserire nel film. Prima di andare a prenderli a Philadelphia, deve però fare una tappa intermedia a New York e, nel suo albergo nella Grande Mela, incrocia il giornalista Furio Colombo: chiacchierando, il regista scopre che quella sera a casa di Colombo sarà ospite per cena proprio la sua amica Joan Baez. Montaldo prende quindi al volo un copione del film e incarica Colombo di farlo leggere alla cantante e di convincerla a collaborare. Il giorno dopo, Montaldo riceverà la chiamata di Baez, pronta a partecipare alla colonna sonora della sua pellicola.
La ballata perfetta che Morricone e Montaldo cercavano si materializzò poco dopo, diventando la celebre Here’s to you. In un’intervista di qualche tempo fa, la cantante ha raccontato: “Tutto quello che ho fatto in Italia, quando ero giovane, è arrivato grazie a Furio Colombo” e, probabilmente, senza il lavoro di mediazione di Colombo forse non avremmo avuto neanche un inno di quella stagione. Il rapporto tra la cantautrice e il giornalista era d’altronde molto stretto. Fu lui a ricevere le lettere dal carcere di Baez, arrestata dopo una manifestazione contro la guerra in Vietnam e proprio attraverso questa corrispondenza molti in Italia si resero conto della situazione esplosiva che si stava creando negli Stati Uniti.
In generale, gli artisti creavano spesso un forte legame con Colombo perché percepivano che il suo interesse per quello che creavano era genuino, più profondo, e anche per questo il giornalista è riuscito a garantirsi in molti casi testimonianze inedite, basti pensare al suo docufilm sui Beatles, nato anch’esso in maniera quasi casuale. Qualche anno prima di incrociare Montaldo in un luogo simile, era stato infatti lui quello costretto all’attesa nella hall di un albergo, stavolta a Nuova Delhi. Aspettava un informatore che doveva aiutarlo nel suo nuovo progetto: indagare sugli ultimi discepoli ancora viventi di Gandhi. Al posto del suo uomo si vide però comparire nell’atrio dell’hotel i Beatles, accompagnati da un paio di colleghi musicisti e da Mia Farrow. Grazie all’attrice, conosciuta a New York, Colombo capì perché i ragazzi di Liverpool si trovavano lì e chiese a John Lennon di poterli accompagnare sull’Himalaya, dove i Fab Four si sarebbero raccolti sotto la guida del guru della meditazione trascendentale Maharishi Mahesh Yogi. Ne nacque un viaggio avventuroso, fatto in parte anche in autostop, che diventerà un documento prezioso per capire il gruppo e una parte importante del loro percorso umano e artistico insieme.
La carriera di Furio Colombo è piena di incontri del genere, situazioni che, in mano ad altri colleghi, spesso rischierebbero di scadere nella mera dimensione aneddotica. Ma Colombo ha sempre avuto il vantaggio di possedere uno sguardo più ampio rispetto a quella di gran parte del giornalismo italiano. Se riuscì a catturare così bene l’essenza di Paul, John, George e Ringo nel documentario Meditazione con i Beatles in un periodo non solo per loro molto turbolento come il Sessantotto , molto del merito va al fatto che, mentre molti cronisti nel nostro Paese si limitarono a vedere la band solo come un fenomeno mediatico, lui la prese molto più seriamente, cercando di capire cosa volesse comunicare con la propria musica.
Fu anche questa maniera di approcciarsi a fargli guadagnare l’amicizia di grandi nomi come la già citata Joan Baez, che non è comunque l’unica grande donna conosciuta da Furio Colombo. Basti pensare che il giornalista ha iniziato la sua lunga galleria di ritratti americani proprio con un’intervista a Eleanor Roosevelt, la quale già all’inizio degli anni Sessanta metteva in guardia sui pericoli del conformismo, ricordando come esso “funziona più delle leggi e dei controlli, produce la più rischiosa delle censure quando la gente arriva al punto di sentire il silenzio giusto e necessario”. Più o meno negli stessi anni, Colombo ha avuto modo di confrontarsi anche con personalità come Susan Sontag. Alla scomparsa della scrittrice statunitense, sarà lui a ricordare quanto il suo lavoro sia stato in grado di fotografare i molti contrasti del proprio Paese: “Susan Sontag mancherà all’America, che è stata onorata e resa più grande non solo dal suo lavoro, ma anche dal suo dissenso. Mancherà agli europei che si erano abituati a vedere in lei, nella sua energia agile e prensile, la persona che – mentre crea – lega due mondi”.
In generale, in tutti i suoi incontri, il giornalista è stato in grado di usare lo strumento dell’intervista per raccontare al meglio il contesto sociale. Nel suo periodo newyorchese, partecipò agli incontri organizzati nella grande abitazione che il musicista Leonard Bernstein aveva a Park Avenue, in cui erano invitati a volte sia i leader di movimenti come le Black Panthers che le spaventate vicine di casa della signora Bernstein. Grazie ai suoi rapporti con i gruppi che negli anni Sessanta in America si impegnavano per i diritti civili e in particolare grazie all’amicizia con l’attivista pacifista Andrew Young (che sarà dal 1977 al 1979 il primo ambasciatore nero statunitense alle Nazioni Unite durante l’amministrazione Carter), Colombo riuscì a parlare per esempio anche con Muhammad Ali, comprendendo subito quanto dietro le scelte personali del grande pugile, dall’opposizione al Vietnam fino alla conversione all’Islam, si nascondessero le conseguenze dei traumi e delle incongruenze che denunciava anche Sontag. Durante un’intervista, Furio Colombo dirà che: “Quella di Ali è la storia di una persona che si vuole affrancare da una società che lo mantiene in minoranza umana, morale, psicologica e culturale.”
Dal 1961, anno in cui comincia a scrivere come corrispondente da New York per Mondo, Colombo è stato tramite tra il “pianeta USA” e l’Italia, raccontando a noi la realtà degli Stati Uniti e provando a spiegare agli americani il nostro Paese, scrivendo sul New York Times o durante le sue lezioni di giornalismo in diverse università statunitensi. Furio Colombo ha pubblicato il suo primo libro intitolato L’America di Kennedy nel 1964 ed è arrivato nel 2017 a riflettere sull’ultimo presidente in Trump Power, denunciando come l’elezione del miliardario sia stata “una vampata di incoraggiamento al razzismo antinero e anti-ispanico, proiettando questo atteggiamento razzista anche oltre i confini americani”. Nessuno forse ha il polso della situazione statunitense meglio di lui che, in America e libertà, scriveva: “Esiste un filone dell’arte americana che si esprime proiettando parole luminose, parole chiave. Vorrei proiettare la parola ‘eccezionalismo’. È una parola chiave. Qui eccezionale non significa straordinario. Significa descrizione di un destino”.
Lo stesso libro si apriva con la domanda se esistesse davvero “un’America che ci siamo inventati, per poter scaricare su di essa passioni, speranze, odi, attese” o se il Paese fosse semplicemente un luogo in cui accadeva prima e in scala maggiore quello cui avremmo in seguito assistito alle nostre latitudini. Nel suo Manuale di giornalismo internazionale del 1995, Colombo già scrive per esempio che negli Stati Uniti “la grande libertà di informazione ha permesso la nascita di masse sempre più attive e presenti negli eventi quotidiani. Ma queste masse, proprio perché formate dalla grande circolazione di notizie e liberate dal vocalismo, hanno dato vita a forti gruppi di opinione, ciascuno con un proprio ordine di valori, che tengono testa al prodotto-notizia come qualunque altro gruppo di consumatori fronteggia il proprio fornitore in ogni campo. Ma qui la richiesta, il più delle volte, non è di ‘meglio’ ma di ‘diverso’”.
Colombo non si è concentrato solo sulle vicende d’Oltreoceano ma ha usato il suo stile, fatto di interviste sempre calate nel contesto sociale e di riflessioni che spesso sconfinavano nello spunto per importanti saggi, anche per fotografare quanto accadeva in Italia. Sarà Furio Colombo a fare l’ultima malinconica intervista a Pier Paolo Pasolini, poche ore prima che venga ucciso il 2 novembre 1975. Quella testimonianza, che Pasolini stesso consiglierà di pubblicare col titolo Siamo tutti in pericolo, non ha solo un grande valore storico ma contiene stralci ancora attuali. Imbeccato da Colombo, l’intellettuale racconta la tragedia di un mondo in cui agli uomini si sono sostituite “strane macchine che sbattono l’una contro l’altra” e in cui si decide di cedere al complottismo perché esso “ci libera da tutto il peso di confrontarci da soli con la verità.”
Quello che vale la pena evidenziare è il fatto che Colombo non si limita a porre domande ma costruisce con l’interlocutore un dialogo in cui le sue osservazioni, nate da quello che gli dice Pasolini, fungono da spunti per ulteriori ragionamenti. Quando Pasolini propone una visione abolizionista, scagliandosi anche contro la scuola dell’obbligo, è per esempio Colombo a ribattere: “Se non vogliamo usare frasi fatte, una indicazione ci deve pur essere. Per esempio, nella fantascienza, come nel nazismo, si bruciano sempre i libri come gesto iniziale di sterminio. Chiuse le scuole, chiusa la televisione, come animi il tuo presepio?”. Colombo poteva pungolare Pasolini con certe obiezioni perché ne aveva uno sconfinato rispetto e sapeva come far emergere il suo stratificato pensiero. Dell’amico, Colombo scrive oggi quest’anno, in appendice a un breve libro che contiene l’intervista originale e alcune sue riflessioni postume: “Pasolini era un protagonista allora ed è un protagonista adesso. La sua presenza letteraria resta grande, ma la sua testimonianza politica, resa allora, si sente risuonare adesso come una cronaca di questi giorni e mentre le peggiori voci della storia italiana vorrebbero avere la meglio, hanno ancora un nemico difficile di cui liberarsi”.
Il giornalista ha saputo stimolare le grandi menti perché ci si confrontava già da ragazzo: frequentò l’università con Umberto Eco nella prima metà degli anni Cinquanta e con quest’ultimo condivise anche l’avventura del Gruppo 63, proponendo un diverso approccio alla letteratura, oltre alla fondazione del DAMS. Dai ricordi di Colombo emerge tutta la voglia di Eco di trasmettere cultura ai giovani: dall’impegno insieme per preparare un programma scolastico online di educazione alla pace per le scuole elementari fino all’aneddoto di un Eco impegnato a insegnare canti alpini ai bambini cinesi su un treno per Pechino.
Anche grazie ai suoi viaggi in Asia, Colombo fu tra i primi a intuire l’influenza che avrebbe avuto la Cina oggi. All’inizio degli anni Novanta, scrisse Confucio nel computer, libro del 1995 in cui rifletteva sulle conseguenze sociali dell’informatizzazione partendo dal presupposto che il pc, come il confucianesimo, ci avrebbe spronato a cercare un modo di comportarci “buono in quanto comune a tutti”. In La paga, un’opera che l’autore definiva “un appello angosciato sul tema ‘dove va il lavoro’” si fa notare come non sia la Cina “capitalista, industriale e autoritaria” ad avvicinarsi all’Occidente ma piuttosto il contrario: “Sono le democrazie industriali occidentali a farsi più autoritarie attraverso lo screditamento, l’umiliazione, l’emarginazione del lavoro.” In questo saggio, pubblicato nel 2009, l’autore ricorda anche un passaggio del romanzo 1984 in cui George Orwell scrive: “Più i tempi si fanno difficili, più il linguaggio diventa ipocrita”. Questo si nota in particolare nel lessico del mondo lavorativo odierno, dove ad esempio la parola outsourcing finisce per identificare tre concetti non edificanti se resi nella nostra lingua: eliminazione di un intero reparto, abolizione della qualità professionale e crumiraggio.
La ricerca esasperata di un linguaggio semplice porta a vivere la cultura come un pericolo, perché quest’ultima interferisce con il desiderio di un modo di esprimersi più elementare, ammonisce Furio Colombo. Spesso il nobile proposito di farsi capire da tutti viene utilizzato come pretesto per decontestualizzare dei concetti e delle espressioni: nel suo saggio Clandestino del 2018, Colombo crea un glossario di termini volutamente travisati oggi e si va da “politicamente corretto” usato come equivalente di ipocrita a radical chic. Quest’ultimo termine era nato nella New York del 1969 raccontata da Colombo per opera del padre del New Journalism Tom Wolfe, che lo aveva coniato “per descrivere con ironia gli ansiosi abitanti dei quartieri buoni di Manhattan, preoccupati di una invasione nera”, ma oggi è diventato nel nostro linguaggio comune quasi sempre un’arma per ridicolizzare chi chiede che si agisca con buon senso, evitando posizioni estremiste.
È quest’ultima fascia di popolazione che oggi, nel 2020, si rivede nel linguaggio e nelle posizioni espresse da Furio Colombo. Un cronista che, raccontando il mondo e anche i personaggi apparentemente più inavvicinabili dal secondo Novecento, ha restituito un ritratto dei tempi che viviamo e ci ha chiarito quali sono le questioni globali sul quale vale la pena interrogarsi.