Le classi dominanti dividono i poveri per sfuggire alle loro responsabilità, scrisse Orwell

Nonostante sia il più conosciuto, il miglior romanzo di George Orwell non è 1984. Anche se ogni volta che si cita lo scrittore è inevitabile pensare al Grande Fratello e alle disavventure di Winston Smith, nel corpus letterario dell’autore scozzese va ricordata un’altra opera quasi sconosciuta, che lui stesso detestava al punto da provarne vergogna, come confessò in una lettera del 1946. Fiorirà l’Aspidistra è invece un romanzo attuale in modo quasi inquietante grazie al suo taglio, utile per ricostruire l’origine del termine radical chic, uno dei più abusati degli ultimi anni in qualunque confronto pubblico. 

Scritto a Londra fra il 1934 e il 1935, Fiorirà l’aspidistra contiene una delle più aspre critiche al capitalismo della letteratura novecentesca. Il disgusto per la società dell’arrivismo, per il “Dio Denaro” e per gli uomini schiavi che vi si sottomettono – rappresentato proprio dall’aspidistra, la pianta ornamentale tipica della casa borghese – è trattato con fine sottigliezza psicologica, e descritto con nitidezza attraverso il profilo intellettuale ed emotivo dei suoi personaggi. Non è un caso che la generazione degli anni Trenta avesse molti punti in comune con quella dei moderni millennial: sconvolta a una crisi economica senza precedenti, tirava a campare tra lavori precari, salari sotto il minimo sindacale e una incertezza esistenziale di fondo che ha portato i figli degli anni Ottanta e Novanta a cedere alla “mentalità da Grande Depressione”, descritta dall’Economist. Il timore per un futuro incerto, la necessità di accettare impieghi sottopagati e saltuari e il welfare state continuamente indebolito dai tagli favoriscono una mentalità refrattaria al rischio e incapace di fare piani sul lungo periodo. Come i loro coetanei degli anni Trenta, sconvolti dal “Big Crash” che il 29 ottobre 1929 affondò Wall Street e l’economia mondiale, anche i millennial sono spesso vittime della sindrome depressiva innescata dalla crisi dei subprime nel 2008.

George Orwell

Il protagonista del libro Gordon Comstock, una delle figure autobiografiche meglio riuscite di Orwell, è un aspirante scrittore che vive in modo tormentato il suo rapporto con il denaro e con l’etica del profitto. La sua figura – tratteggiata per mettere in primo piano  i risvolti emotivi, psicologici, e persino fisici che la degenerazione del capitalismo causa nelle sue vittime – è quella del piccolo borghese che precipita nella condizione di sottoproletario. A fargli da contraltare si trova Philip Ravelston, che incarna l’archetipo del radical chic. Ravelston è il classico intellettuale marxista, luminare del progressismo, che solidarizza con la causa dei ceti più umili pur tenendosi sempre a debita distanza. Una generosa rendita gli consente di vivere nell’agio e di aiutare, quando possibile, l’amico Gordon, che invece vive con frustrazione la sua condizione di subalternità. Per Gordon, la differenza di ceto sociale rende impossibile per principio una reale amicizia tra i due, ma è consapevole di non poterne fare a meno: Philip è l’unico a trattarlo con premura e con dignità anche quando non lo meriterebbe.

Fin dall’incipit viene messo in chiaro il ruolo centrale del denaro nella visione orwelliana: l’autore adatta la prima lettera di San Paolo ai Corinzi sostituendo la parola “carità” con “denaro”: “Il denaro è magnanimo, benevolo è il denaro; non è invidioso, non si vanta, non si gonfia d’orgoglio, non manca di rispetto, non cerca il proprio interesse […]. Ora dunque rimangono queste tre cose: la fede, la speranza e il denaro. Ma la più grande di tutte è il denaro!” È evidente il rovesciamento della narrazione paolina, che della carità faceva la virtù teologale più importante; per Gordon Comstock – e per Orwell – la carità ha invece il potere di minare i rapporti umani, perché dimostra una differenza e un divario che da economico si estende anche alla dimensione morale. È il fallimento dell’egualitarismo e della meritocrazia, con il povero costretto a vivere la sua condizione come una sorta di peccato originale che non prevede perdono ed è condannato a un’esistenza ai margini della società. Per quanto delicatamente sia mascherata, la carità è sempre orribile; c’è un disagio, quasi un odio segreto, tra colui che dà e colui che riceve, scrive Orwell nel nono capitolo del libro, suggerendo il tema di fondo che caratterizza l’intero rapporto tra Gordon e Philip.

Dal film “Keep the Aspidistra Flying”, (1997)

Il primo si ostina a rifiutare di omologarsi fino a perdere il lavoro e a ridursi a vivere in una casa fatiscente infestata dagli insetti, auto infliggendosi una povertà che assomiglia a una punizione catartica per distinguersi dalla massa. Il secondo, invece, da rispettabile radical chic, nutre una sincera preoccupazione e volontà di aiutare l’amico, ma è incapace di comprendere le ragioni profonde del suo tormento. È la condizione di chi della povertà ha solo letto nei libri o sui giornali e non ha mai conosciuto le difficoltà di guadagnarsi da vivere, mosso dalla convinzione di poter risolvere ogni problema con il denaro. L’atteggiamento di Philip non è dettato dall’ostentazione del proprio status o dall’arroganza, ma dalla candida ignoranza di chi non ha mai sperimentato una realtà diversa da quella in cui è nato.

Philip Ravelston è l’archetipo del radical chic da ben prima che il termine venisse inventato nel 1970, per poi essere importato in Italia da Indro Montanelli nella sua Lettera a Camilla. A renderlo attuale non è solo la caratterizzazione del personaggio, ma il modo in cui Orwell inserisce la figura nelle dinamiche del conflitto di classe. Il radical chic è colpevole di vivere la sua condizione di agiatezza con l’ipocrisia di provare interesse per i deboli e gli emarginati senza essere disposto a rinunciare ai suoi privilegi per risolvere alla base le cause della loro condizione. Da parte sua, il povero rivolge tutto il suo odio su di lui per sfogare il suo rancore: gli “altri”, alto-borghesi e aristocratici, non provano alcun riguardo nei suoi confronti e non lo degnano della minima attenzione, sottraendosi alla portata della sua rabbia.

È dall’evoluzione di questo conflitto che sono nate alcune delle contrapposizioni più efficaci della propaganda degli attuali partiti populisti. Oggi a essere etichettati come radical chic non sono più i vari Fazio, Saviano e Gruber, personaggi in vista, dalle opinioni scomode perché non allineate alla narrazione dominante e dai cospicui stipendi, ma chiunque esprima posizioni progressiste pur non godendo di alcun privilegio o ricchezza. Carola Rackete è solo l’esempio più recente di questa degenerazione pur avendo messo a repentaglio la propria libertà personale e incolumità fisica per salvare delle vite umane, la sua origine benestante le ha automaticamente procurato l’etichetta di radical chic, oltre a vari epiteti offensivi.

Carola Rackete

L’aspidistra di Orwell, mostrando le nevrosi della società capitalistica e massificata, è stato il punto di partenza per sviluppare il tema dell’odio universale poi sviluppato in 1984. Alimentando la “guerra tra i poveri”, il capitalismo spinge verso il basso il conflitto di classe, mantenendo al sicuro lo status quo che conserva il potere al vertice della società. La retorica sempre più violenta sui migranti ne è una dimostrazione lampante: basta mostrare un minimo di umanità e compassione per venire bollati come radical chic, sui quali riversare la frustrazione popolare sotto forma di insulti e minacce. Negli ultimi mesi la colpa non è più essere ricchi, ma essere umani. È la concretizzazione del tormento di Gordon Comstock, con il divario economico che si tramuta in divario morale, aprendo una frattura così profonda da non poter essere sanata neanche con il denaro. Orwell lo aveva intuito: per questo il suo Fiorirà l’aspidistra è a tutti gli effetti un manifesto anti capitalista che avrebbe meritato ben altra sorte del disprezzo del suo stesso autore.

La resa finale del protagonista, che si rassegna ad accettare un lavoro ben retribuito nel settore pubblicitario, anticipa la sconfitta di Winston Smith in 1984. La sottomissione non è solo il trionfo del sistema sull’individuo, ma è anche l’assimilazione, l’annichilamento del pensiero controcorrente che uccide sul nascere ogni cambiamento e tentativo di ribellione. I protagonisti di Orwell sono guidati da una coscienza di classe ingenua, al punto di non essere in grado di riconoscere la loro sconfitta: come Winston Smith muore convinto di “aver trionfato su se stesso” e amando il Grande Fratello, così Gordon Comstock si abbandona con soddisfazione al conformismo che ha disprezzato per anni. Anche se la visione di Orwell si potrebbe bollare facilmente come pessimistica, a distanza di anni colpisce ancora per l’intelligenza cinica con cui ci mette in guardia da un sistema che continua a perfezionare la capacità di sottometterci alle sue regole.

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