Il 9 agosto del 1969, la Family di Charles Manson faceva irruzione nella villa di 10050 Cielo Drive, un ricco quartiere di Los Angeles, massacrando tutti i presenti: sette persone, tra cui Sharon Tate, l’allora moglie di Roman Polański incinta di otto mesi. Sei giorni dopo dall’altra parte degli Stati Uniti, a Bethel, nello stato di New York, circa mezzo milione di persone si radunarono per il festival più importante della storia della musica, Woodstock. Questi due fatti segnarono, seppur in modo diverso, la storia e l’immaginario degli Stati Uniti e rappresentarono lo spartiacque tra l’utopia della Summer of Love e i conflitti sociali degli anni Settanta. L’idillio hippie, che raggiunse il suo apice proprio in quel periodo, tra il 15 e il 18 agosto 1969, con gli omicidi di Manson – che si era trasferito nella San Francisco delle comuni di Haight-Ashbury con la velleità di diventare un musicista – subì una brusca fine.
Quasi tutto quello che sappiamo di Woodstock lo dobbiamo alla mitologia che quasi immediatamente si sviluppò intorno a quello che successe durante quei “3 Days of Peace & Rock Music”, eternamente fissati nella nostra memoria grazie al documentario Woodstock di Michael Wadleigh e all’omonima canzone di Joni Mitchell, resa famosa dalla cover di Crosby, Stills, Nash & Young. E poiché si tratta di una ricostruzione – nel primo caso di un documentario della Warner Bros da un milione di dollari e nel secondo di una canzone scritta da una musicista che a Woodstock non partecipò nemmeno da spettatrice – gran parte della vulgata su questo festival è frutto, infatti, se non di totale fantasia, almeno di una grossa mistificazione.
Inizialmente furono quattro ragazzi con meno di 27 anni ad avere l’idea di organizzare il festival: John Roberts, Joel Rosenman, Artie Kornfeld e Michael Lang. “Giovani uomini con un capitale illimitato, in cerca di valide e interessanti opportunità di investimento e proposte di business”: questo l’annuncio che Roberts e Rosenman misero sul New York Times e sul Wall Street Journal. Roberts, rimasto orfano, aveva ereditato una somma considerevole dai suoi genitori e aveva intenzione di investirla in un progetto musicale. Tramite contatti comuni, conobbero Lang, che aveva già organizzato il Miami Pop Festival del 1968 e Kornfeld, che lavorava alla Capitol Records. Insieme fondarono la Woodstock Ventures Inc. e grazie alle conoscenze di Kornfeld riuscirono a ingaggiare i Creedence Clearwater Revival, il primo grande gruppo a firmare per Woodstock. Inizialmente il concerto doveva tenersi nella città di Wallkill, che però temendo dei disordini ritirò la disponibilità all’ultimo minuto. La situazione venne salvata da Elliot Tiber, che stava organizzando il White Lake Music and Arts Festival nella vicina Bethel, il quale convinse il fattore repubblicano Max Yasgur a mettere a disposizione il suo terreno per ospitare il festival, dietro a un compenso di 75mila dollari. Questa storia è raccontata nel memoir di Elliot Tiber Taking Woodstock, da cui Ang Lee ha tratto nel 2009 l’omonimo film (in italiano Motel Woodstock).
Quello che né il documentario premio Oscar del 1970 – girato durante il concerto – né la canzone di Joni Mitchell raccontano è che Woodstock fu un disastro a livello organizzativo: 400mila persone vissero per quattro giorni in un inferno di sporcizia, droghe e fango, con pochissimo cibo e con la costante minaccia di una elettrocuzione di massa. Ma fu anche un miracolo: nessuna di queste 400mila persone morì, eccetto il diciassettenne Raymond R. Mizzak, investito per fatalità da un trattore. Come raccontarono nel 1989 alla National Public Radio Roberts e Rosenman, il festival costò circa 4 milioni di dollari e nonostante all’inizio fosse previsto un biglietto di ingresso, l’arrivo inaspettato di così tante persone che cominciarono ad abbattere le transenne li costrinse a rendere il festival gratuito. Il produttore del festival John Morris salì sul palco e pronunciò una frase entrata nella leggenda: “It’s a free concert from now on”: sebbene questa decisione sia passata alla storia come una sorta di regalo dei generosi organizzatori alla Generation of Love, in realtà si trattò di una scelta motivata dalla paura che tutto saltasse in aria, dal momento che già dal primo giorno il festival si rivelò un inferno. Poiché l’area fu ricostruita a Bethel in fretta e furia dopo che il municipio di Wallkill aveva negato la disponibilità dello spazio, tutta la zona del concerto e del campeggio soffriva di gravi lacune di servizi e di sicurezza. Ci si aspettava circa 25mila presenze (anche perché molti dei musicisti, poi diventati famosissimi, non erano ancora così conosciuti all’epoca), ma arrivarono 375mila persone in più del previsto. Rosenman e Roberts fecero personalmente dei colloqui a oltre mille poliziotti per presidiare l’evento, assicurandosi che non avessero intenzione di arrestare nessuno per il consumo di droga, ma questo non fermò gli hippie dal distruggere le cancellate e fare irruzione e nell’area del concerto.
Oggi, rivedendo le immagini del documentario o le raccolte fotografiche dell’evento, Woodstock ci sembra un paradiso di libertà, anarchia e promiscuità, per non parlare della bellezza della musica. In realtà, molti concerti furono pessimi, sia a livello di performance che di qualità del suono. Come racconta Ed Ward, lo storico musicale della Npr, “Woodstock sostituì con la quantità la qualità, rispetto a quello che sentiamo oggi. Tutto il primo giorno fu un disastro totale”. La scaletta di Woodstock fu rimaneggiata moltissime volte, a causa di ritardi, sostituzioni e cancellazioni dell’ultimo minuto. Se oggi tutti ricordano i grandi nomi del rock e del folk che si alternarono sul palco – da Janis Joplin all’indimenticabile Jimi Hendrix, da Joan Baez a un giovane e allora semisconosciuto Santana, – la maggior parte dei 24 performer di Woodstock sono finiti nel dimenticatoio. Molti concerti furono rovinati a partire dallo stato alterato dei musicisti, come l’infinito set dei Jefferson Airplane e quello degli Who, che ancora oggi Roger Daltrey ricorda come un incubo, a causa dei numerosi problemi. “Dovevamo suonare in serata ma alle quattro del mattino del giorno dopo stavamo ancora aspettando nel backstage in un campo pieno di fango,” ha raccontato Daltrey nel suo memoir Thanks a Lot Mr. Kibblewhite. Il cantante degli Who, che all’epoca stava provando a disintossicarsi, salì sul palco in preda alle allucinazioni, perché qualsiasi cosa commestibile era coperta di LSD. “Persino i cubetti di ghiaccio. Per fortuna avevo portato con me una bottiglia di Southern Comfort, quindi mi è andata bene finché non ho deciso di farmi una tazza di tè. Una bella tazza di tè allucinogeno”.
Guardando il film di Wadleigh, è difficile credere che le cose siano andate in questo modo, ma come disse lo stesso regista la sua intenzione era quella di rendere Woodstock l’evento capitale degli anni Sessanta: “Vedevo questo bellissimo evento come un ritorno alla Terra, un ritorno al giardino dell’Eden che combinava politica e musica. Se si guarda il film che ho montato, ogni canzone ha a che fare con la politica o l’azione sociale”. In sostanza, molti set furono improvvisati, o consistettero solo in lunghissime jam session senza senso.
Chi c’era, però, probabilmente non se ne accorse nemmeno perché, come raccontano i testimoni, la maggior parte dei concerti furono praticamente inaudibili. Nonostante il buon lavoro del fonico Bill Hanley “il padre del sound dei festival”, l’impianto elettrico fu improvvisato, sia perché all’epoca non si era ancora ferrati sull’organizzazione di concerti così grandi, sia perché arrivarono centinaia di migliaia di persone in più del previsto, sia perché le numerose difficoltà causarono una catena di errori di progettazione che lo resero una specie di bomba a orologeria. Nella prima notte di festival, un acquazzone complicò ulteriormente la situazione: “Il capo elettricista chiamò da dietro le quinte,” raccontò Rosenman alla Npr. “Gli chiesi che problema ci fosse, e mi sembrava davvero scosso al momento, persino per un uomo che affrontava quello che stavamo affrontando. […] ‘Ho paura che tutti quei corpi bagnati ammassati potrebbero causare un…’ – e poi fece una pausa e non potevo immaginare che stesse cercando le parole con cui se ne sarebbe venuto fuori. Ma se ne uscì con ‘elettrocuzione di massa’”. Bob Weir, il chitarrista dei Grateful Dead, prese la scossa non appena toccò il microfono sul palco. I testimoni raccontano di bagni inesistenti, di scarsità di cibo e acqua e di persone drogate o ubriache che andavano in overdose o vomitavano ovunque.
Molte persone non riuscirono nemmeno a raggiungere il luogo dell’evento a causa della coda chilometrica che si formò sull’unica strada di Bethel (considerata una delle più lunghe di sempre), inclusi alcuni musicisti che rimasero bloccati nel traffico. Tra questi la band di apertura, gli Sweetwater, sostituiti da Richie Havens che improvvisò un concerto di circa tre ore, che segnò la sua fortuna. Tra le tante perfomance poco riuscite, alcune sono entrate a pieno titolo nella storia della musica, tra cui quella di Havens che, non sapendo più cosa suonare in attesa che arrivassero gli altri musicisti, cominciò a ripetere “Freedom… freedom…”, creando quello poi diventò il suo singolo di maggior successo. Anche un altro momento tra i più iconici non solo del festival ma della storia del rock in genere non era stato programmato: l’ultimo artista previsto (che salì sul palco il lunedì mattina anziché la domenica sera per il protrarsi del ritardo), Jimi Hendrix, cominciò a suonare una versione distorta dell’inno americano, imitando i suoni delle bombe e delle mitraglie della guerra del Vietnam. Anche se Woodstock ebbe una marea di problemi logistici, organizzatori e musicisti erano sinceramente mossi dalla convinzione che la musica potesse cambiare il mondo: se Wadleigh montò le immagini del festival per farlo diventare una perfetta sintesi delle lotte pacifiste degli anni Sessanta, ciò non esclude che su quel palco qualcuno provò davvero a proporre un’idea di mondo diversa.
Nonostante questo, Neal Karlen, in occasione del venticinquesimo anniversario del festival, scrisse sul New York Times che Woodstock “non fu una rivoluzione, ma una strategia di marketing per questa nuova generazione giovane, in prevalenza bianca e precedentemente insondabile, con un mucchio di soldi a disposizione”. Karlen criticava il turismo di massa che aveva investito Bethel – diventata meta di pellegrinaggio per gli appassionati – i gadget promozionali, i concerti degli anniversari che quando coinvolgevano i musicisti originari radunavano soltanto vecchi hippie ormai diventati reazionari. Il tentativo di celebrare il festival in chiave moderna con Woodstock ‘99 dimostrò l’impossibilità di replicare i fasti del 1969: sebbene i problemi organizzativi fossero simili (il caldo, la pioggia, la folla), i tempi erano cambiati. Durante il concerto dei Limp Bizkit si verificò uno stupro di gruppo e mentre la band suonava “Break Stuff” la folla cominciò a picchiarsi e a distruggere il palco. Durante l’esecuzione di “Under the Bridge” dei Red Hot Chili Peppers, invece, una veglia per protestare contro le armi da fuoco si trasformò in un incendio doloso. L’evento fu soprannominato “The Day the Music Died” e si concluse con 44 arresti.
Il 1969 fu un anno cruciale della storia americana e il susseguirsi nel giro di una settimana degli omicidi di Cielo Drive e del festival più importante di sempre ci dice molto dello spirito contraddittorio di quella Generation of Love. Del Woodstock originale ci rimane forse una storia falsata, distorta ed esagerata, ma nessuno è più riuscito a replicare quell’utopia di pace, amore e musica. Oggi i festival musicali – tolte le dovute eccezioni – sono ridotti a passerelle per influencer che hanno al seguito uno staff di fotografi, parrucchieri e truccatori, e che si “godono” la musica al fresco dell’aria condizionata, in privé sponsorizzati da qualche brand. Il concerto per il cinquantesimo anniversario, Woodstock 50, per le numerose difficoltà organizzative (a quindici giorni dall’inizio mancava ancora una location) alla fine non si farà, ed è un bene, perché non avrebbe retto il paragone con l’originale. Nonostante il fango, la droga tagliata male, la pioggia, gli amplificatori che mandavano scintille, l’assenza di cibo, acqua e bagni, tutti ancora oggi avremmo voluto essere a Bethel nel 1969. Perché Woodstock fu certamente un disastro, ma anche un miracolo.