Troppi criticano il femminismo senza neanche conoscerlo
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L’Italia è quello strano Paese dove il 73% delle firme sul primo quotidiano nazionale è un uomo, dove non c’è nessuna donna alla guida delle testate giornalistiche della tv di Stato, dove c’è una sola direttrice responsabile di un quotidiano nazionale (Norma Rangeri a Il Manifesto) e dove il 78% dei posti dirigenziali nell’editoria libraria è occupato da uomini ma, a sentir parlare molti commentatori che agiscono su questi stessi mezzi di comunicazione, ci sarebbe una “dittatura del politicamente corretto” e una sorta di egemonia culturale delle femministe, che zittiscono ogni voce di dissenso maschilista e rendono la vita impossibile a chi di questo sistema beneficia.

Riportare gli ultimi casi di grande indignazione di massa da parte delle femministe è un buon modo per capire la potenza di fuoco di questa lobby di gattare che non si depilano: Amadeus ha fatto arrabbiare tutti alla conferenza stampa di Sanremo quando ha descritto la valletta Francesca Sofia Novello come una donna che “sta un passo indietro”, ma ha condotto comunque la trasmissione, condannandoci anzi a cinque giorni di battute di Fiorello sulla questione. Sempre durante la kermesse, i testi misogini del rapper Junior Cally hanno sdegnato persino Salvini, ma il cantante si è esibito sul palco senza alcun problema. Del servizio di Striscia la Notizia che prendeva in giro l’aspetto della giornalista Giovanna Botteri, che ha giustamente sollevato molte polemiche, si sono dimenticati tutti nel giro di qualche giorno. Insomma, se esiste una lobby femminista censoria e castrante, fa davvero male il suo lavoro.

Giovanna Botteri

Tuttavia, le voci di donne totalmente marginali nei luoghi dove si fa davvero la cultura di massa, unite allo spauracchio di qualche pagina Instagram che vende mascara al grido “Girl power!”, sono sufficienti ad alimentare pregiudizi sul femminismo che non sono troppo distanti dalle vignette contro le suffragette di inizio Novecento, dove le attiviste erano dipinte come racchie rancorose e gli uomini che le sostenevano sottomessi alle loro angherie. Il problema è che spesso chi parla di femminismo per criticarlo nemmeno sa di cosa sta parlando, riducendo tutto a un binarismo “uomo vs. donna” che, oltre a essere lontano da molte delle rivendicazioni femministe, dipinge anche una realtà escludente verso tutte le identità che in quel binarismo non si riconoscono.

Per cominciare, si potrebbe partire dalla base, ovvero dalla premessa che femminismo non è il contrario di maschilismo. La presenza delle radici “femmina” e “maschio” in questi due lemmi è sufficiente a creare questo equivoco. “Femminismo” si riferisce infatti a un movimento di rivendicazione dei diritti delle donne nato già alla fine del Diciassettesimo secolo, ma sviluppatosi in modo più organico a partire dalla rivoluzione francese, mentre “maschilismo” non indica un movimento organizzato, ma un atteggiamento culturale, mentale, sociale che crede nella superiorità biologica e morale dell’uomo sulla donna. È vero, sono esistiti e tuttora esistono alcuni gruppi che si definiscono orgogliosamente maschilisti, ma sono del tutto irrilevanti rispetto alla portata storica e alla presenza del movimento femminista, che esiste da circa trecento anni. Il fraintendimento non è raro: spesso quando una notizia di un uomo vittima di violenza di genere arriva sui giornali, nei commenti c’è sempre qualcuno che tirerà in ballo il femminismo, come se quella violenza ne fosse il prodotto, al pari della violenza sulle donne che è frutto della cultura maschilista che la alimenta e la normalizza.

Manifesto pubblicato dalla National League for Opposing Woman Suffrage, inizio ‘900