Dire che le persone normali non compiano azioni crudeli è falso. Un esperimento del ’61 lo dimostra. - THE VISION

Quando agli inizi degli anni Sessanta, la politologa e filosofa di origine ebraica Hannah Arendt seguì il processo al criminale nazista Adolf Eichmann, trasse interessanti conclusioni sulla matrice del male che l’uomo infligge ai suoi simili. Nell’osservare e ascoltare Eichmann – tanto lucido e asettico nel raccontare i crimini che aveva commesso – Arendt dedusse che il male deriva da un’assenza di idee e di valori radicati in chi lo commette, piuttosto che da una naturale predisposizione ad agire atti crudeli e sconsiderati. Secondo la filosofa – i cui studi sono confluiti nella celebre opera La banalità del male – il nazista responsabile dello sterminio degli ebrei era semplicemente un burocrate che aveva eseguito gli ordini. A partire dal caso di Eichmann e dall’idea che l’obbedienza all’autorità e l’asservimento al potere giocassero un ruolo fondamentale nei crimini perpetrati dall’uomo, lo psicologo statunitense Stanley Milgram condusse alcuni studi di psicologia sociale che confluirono in uno degli esperimenti più controversi del secolo scorso.

Adolf Eichmann
Hannah Arendt

Prima del 1963 – anno in cui pubblicò “Behavioral Study of Obedience” – Milgram aveva collaborato con lo psicologo Solomon Asch e ai suoi studi sul conformismo, dai quali era emerso che l’individuo è portato a concordare con le opinioni del gruppo in cui è inserito, anche laddove queste contrastano col suo pensiero critico. Milgram mosse da questi risultati per capire fino a che punto l’uomo era disposto a commettere azioni immorali pur di non contravvenire agli ordini che riceveva dall’alto. L’esperimento ebbe luogo nel 1961 presso la Yale University, dove Milgram lavorava come docente di psicologia e i partecipanti furono tutti volontari reclutati tramite un’inserzione su un giornale. Furono selezionati quaranta maschi di diversa estrazione sociale – dagli operai agli insegnanti, dagli ingegneri agli impiegati delle poste – e tutti di un’età compresa tra i venti e cinquant’anni. Ai partecipanti fu corrisposto un compenso di 4,50 dollari e a tutti fu fatto credere che avrebbero preso parte a un esperimento sugli effetti della punizione sull’apprendimento; in realtà, Milgram voleva testare fino a che punto l’uomo fosse capace di infliggere sofferenza fisica a un altro quando è un suo superiore a ordinarglielo.

I volontari furono condotti in un laboratorio dell’università, dove Milgram aveva realizzato un finto generatore di scosse elettriche dotato di trenta interruttori che, progressivamente, erano capaci di somministrare scosse di intensità sempre più alta. Sotto ogni gruppo di 4 interruttori apparivano le seguenti diciture: (1-4) scossa leggera, (5-8) scossa media, (9-12) scossa forte, (13-16) scossa molto forte, (17-20) scossa intensa, (21-24) scossa molto intensa, (25-28) attenzione: scossa molto pericolosa, (29-30) XXX. Attraverso un sorteggio truccato, a tutti i volontari fu assegnato il ruolo di insegnante, mentre un gruppo di complici ottennero il ruolo dei discenti – dunque delle presunte vittime. A sovrintendere all’esperimento simulato era “lo scienziato”, un insegnante di biologia – anch’egli complice – che avrebbe avuto dovuto dare gli ordini ai partecipanti all’esperimento e che per questo manteneva un comportamento severo e autoritario.

Stanley Milgram

Ogni discente fu legato con cinghie a una sedia e gli fu fissato un elettrodo al polso, e a ogni volontario fu fatto credere che l’elettrodo fosse collegato al generatore di scosse, facendogli provare la scossa teoricamente relativa alla terza leva (45V) in modo che si rendesse personalmente conto che non vi erano finzioni e che per quanto apparentemente bassa nella progressione già sortiva effetti poco piacevoli. I volontari furono poi accompagnati nella sala del generatore, allestita in modo che questi potessero vedere e ascoltare le reazioni dei discenti quando venivano inflitte loro le scosse. A ogni volontario-insegnante fu poi ordinato di svolgere un test che consisteva in varie fasi. Nella prima, bisognava leggere alcune coppie di parole al discente, come ad esempio “giornata serena”, “scatola azzurra”, “ragazza triste”. Nella seconda fase, l’insegnante doveva ripetere la seconda parola di ogni coppia precedentemente enunciata – in questo caso “serena”, “azzurra” e via dicendo – accompagnata da quattro parole alternative; tra queste era inserita la parola presente nella coppia originaria. Il discente, a questo punto, doveva ricordare quale tra le quattro parole era corretta, cioè quella che ripristinava la coppia enunciata dall’insegnante nella prima fase del test. Se la risposta era esatta, il test poteva procedere normalmente; in caso di risposta errata, l’insegnante era invece tenuto a comunicare al discente la risposta corretta e, per punizione, somministrargli una scossa elettrica via via sempre più elevata – di 15 volt (V) in 15 volt, fino a un massimo di 450. Per rendere l’idea: la soglia di tensione minima considerata pericolosa è di 120 V in corrente continua e 50 V in corrente alternata; tuttavia ai volontari era stato garantito che le scosse non avrebbero prodotto danni permanenti.

A ogni discente fu detto di rispondere in maniera errata a una domanda su quattro, di modo che l’esperimento potesse procedere secondo protocollo e che gli insegnanti dovessero applicare un certo numero di scosse. Arrivati alla scossa da 300 V, i discenti iniziarono a emettere urla e lamenti simulati, che avrebbero dovuto essere causati dal dolore; alcuni poi iniziarono a picchiare contro il muro, supplicando lo scienziato e l’insegnante di porre fine al test. Durante tutto l’esperimento, lo scienziato aveva il compito di incoraggiare l’insegnante a continuare con la somministrazione delle scosse; quando qualcuno di loro mostrava esitazione, lo scienziato pronunciava frasi come “è indispensabile che lei continui”, “non ha altra scelta, deve proseguire”. Quando l’insegnante rifiutava di proseguire – anche di fronte alle più severe esortazione dell’autorità – l’esperimento terminava.

I risultati ottenuti da Stanley Milgram furono stupefacenti, e segnarono un passo fondamentale nell’ambito degli studi sul concetto di obbedienza all’autorità. Milgram dimostrò infatti che il 100% dei partecipanti era stato disposto ad applicare scosse fino a 300 V, che il 35% aveva somministrato scosse tra i 300 e i 375 V ma si era rifiutato di andare oltre e che, infine, il 65% aveva invece continuato fino all’ultimo, raggiungendo la massima intensità. La maggior parte dei partecipanti aveva dunque scelto di proseguire – obbedendo agli ordini dello scienziato – non solo di fronte alle urla strazianti dei discenti, ma anche quando questi smettevano di lamentarsi e simulavano un malore.

Stanley Milgram con il suo team

Durante l’esperimento, alcuni tra i partecipanti mostrarono malessere, angoscia e tensione emotiva: alcuni iniziarono a balbettare, sudare e tremare vistosamente, altri esplosero in risate nervose, altri ancora ebbero delle vere e proprie crisi. Nonostante alcuni chiedessero di fermarsi, proponendo di restituire i soldi percepiti per il test, molti scelsero di proseguire perché il loro superiore li esortava a farlo. Gli esiti dell’esperimento non rispecchiarono quanto previsto dagli psicologi e dagli psichiatri che Milgram aveva interpellato prima di procedere con il test: questi, infatti, avevano ipotizzato che la maggior parte dei partecipanti si sarebbe fermata al livello di scossa capace di provocare solo un po’ di dolore nelle presunte vittime.

Le reazioni al test indussero Milgram a dedurre che, nonostante i partecipanti ricevessero un forte trauma emotivo, per loro fosse impossibile resistere alle pressioni della figura autoritaria – nella fattispecie, lo scienziato; era ovvio, dunque, che i volontari avessero violato le norme etiche e la propria moralità per eseguire degli ordini e mostrarsi obbedienti. A esperimento concluso, Milgram, si soffermò a lungo sul tema dell’obbedienza, individuando un problema strutturale nella società a lui contemporanea; qui, infatti, ogni individuo viene fin da piccolo indotto a obbedire alle figure di riferimento – genitori e insegnanti in primis – piuttosto che a sviluppare rapidamente un solido spirito critico. Secondo Milgram, lo sterminio degli ebrei durante il secondo conflitto mondiale era stato possibile proprio perché individui apparentemente innocui, non particolarmente inclini alla crudeltà, erano stati spinti a compiere azioni inumane dai poteri forti. Come aspetto cardine della vita sociale, la predisposizione all’obbedienza entrerebbe dunque in contrasto con la coscienza individuale, generando in molti un vero e proprio conflitto interiore.

Gli esiti dell’esperimento di Milgram determinarono un’importante svolta nella teorizzazione del concetto di “Stato eteronomico”, in base al quale ogni soggetto agisce non secondo la propria coscienza, ma guidato da norme che riceve da un’autorità esterna. Anche in una società democratica, l’individuo soggetto all’eteronomia sacrifica una parte della propria autonomia per accondiscendere alle regole dettate da qualcuno che possiede maggiore autorità – e che, dunque, non viene contraddetto neppure quando dà ordini ingiusti.

L’esperimento condotto da Milgram ricevette fin da subito aspre contestazioni e alcuni misero anche in dubbio l’attendibilità dei risultati. La principale preoccupazione fu scatenata dal fatto che i partecipanti fossero stati tratti in inganno e che, inoltre, durante l’esperimento molti di essi avessero manifestato malessere fisico e psicologico di fronte alle pressioni dello scienziato. Altra critica mossa a Milgram riguardò il campione di persone utilizzate per il test: secondo molti, i maschi adulti americani non rispecchiavano il comportamento dell’intera popolazione mondiale.

Ma con il suo esperimento, Stanley Milgram arrivò a dimostrare la tesi secondo cui non è la tipologia di persona a determinare un’azione, bensì la tipologia di situazione in cui questa è chiamata ad agire. Secondo i suoi studi, per pervenire alle radici di un crimine è consigliabile analizzare il contesto in cui questo è stato agito, piuttosto che indagare la personalità di chi lo ha commesso. Ridefinire situazione e contesto è fondamentale per spiegare il comportamento di chi – come gli insegnanti durante l’esperimento – si percepisce come mero strumento al servizio di uno “stato d’agente”; la percezione di sé come parte di un ingranaggio che funziona secondo regole non individuali, indurrebbe infatti ciascun individuo a non percepire la responsabilità etica delle proprie azioni. Chiunque accetti la definizione della situazione proposta da un’autorità, rinunciando alla propria autonomia, può essere potenzialmente portato a concepire una qualunque azione criminale – o comunque lesiva dell’incolumità e dignità altrui – come assolutamente necessaria e inevitabile.

Pur criticato per i metodi utilizzati, lo psicologo Stanley Milgram realizzò un ritratto inquietante della natura umana, infirmando la convinzione secondo cui le cosiddette “brave persone” o le “persone normali” non sarebbero capaci di azioni crudeli verso il prossimo. L’esperimento di Milgram pose tutti gli individui sullo stesso piano, denunciando la pericolosità del conformismo e dell’obbedienza acritica. Ancora oggi, i suoi risultati ci inducono a riflettere sul fatto che nessuna norma ricevuta dall’alto, quando lesiva dei diritti umani, dovrebbe mai essere agita. Mai come oggi è necessario evitare di introiettare l’autorità esterna e di conformarsi a ciò che la società pensa e dice. A volte per agire giustamente è necessario obbedire di meno e prendersi la responsabilità di decidere per se stessi: un passo importante per non essere schiavi del sistema e del potere (qualsiasi esso sia), conservando la capacità di agire eticamente, non solo per il nostro bene ma anche per quello degli altri.

Segui Giulia su The Vision