Nell’era dell’iper-profilazione dei contenuti il concetto di cultura pop è finito

Nel corso del Novecento il concetto occidentale di pop si è sviluppato ed è cresciuto forte dell’esistenza di canali divulgativi condivisi che comunicavano nello stesso momento a tutti la stessa cosa. In particolare, comunicavano a tutti le stesse emozioni suggerendo così uno stesso modo di provarle. Torniamo ad esempio gli albori della nostra società dei consumi, quando nasce la categoria commerciale degli “adolescenti”. Nel 1964 i Beatles vanno all’Ed Sullivan Show e tutti gli Stati Uniti interrompono la vita quotidiana per guardarli diventare parte dell’immaginario del mondo. In pochi mesi le ragazze e i ragazzi piangono, strillano, svengono: non sanno perché ma si sentono rappresentati dalla stessa grande energia.

Spostiamoci a molti anni dopo, nel nostro continente e nel nostro Paese. Nella seconda metà degli anni Novanta, i bambini italiani stanno guardando in prima serata, ciascuno con i propri genitori, lo stesso film su Italia Uno. Il mattino dopo, a scuola, ne parleranno insieme, recitandone già le battute a memoria, rivendicando inconsciamente il potere di avere compiuto un’esperienza collettiva e probabilmente generazionale. In quegli anni era abbastanza impossibile non sapere chi fossero Ezio Greggio o Pikachu, il Mago Forest o i Simpson e qualsiasi altra emanazione della scatola nera. Si era inseriti in un sistema per cui anche se qualcosa non corrispondeva agli interessi personali, lo si conosceva comunque senza che ci si ponesse troppo il problema di evitarlo. Forse non seguivi il calcio ma conoscevi i calciatori, forse non seguivi il cinema ma conoscevi gli attori. I media venivano accettati così come erano, in una specie di fede quasi religiosa. La chiave era ovviamente la televisione, l’occhio del Grande Fratello che funzionava esattamente al rovescio: non guardava ma si faceva guardare. Per tanti decenni l’istituzione principale dell’esistenza occidentale è stata quella. Fino alla diffusione di Internet.

Questo immenso strumento, che come metà della nostra tecnologia è nato inizialmente per applicazione militare, fin dai primi anni Duemila ha gradualmente frammentato l’agglomerato di una cultura collettiva. Lentamente e in più fasi, la Pop Culture ha perso sempre più ciò che la rendeva tale, ossia la popolarità riconosciuta da tutti o perlomeno dalla stragrande maggioranza. Le controculture, che prima si sviluppavano nei ghetti e nei sobborghi per farsi successivamente assorbire dalla cultura dominante, hanno preso a svilupparsi nei forum e nelle comunità online. Il dibattito è stato assorbito dai social network. Spesso inquadrata riduttivamente come momento di “rivoluzione delle comunicazioni”, l’era di Internet ha iniziato a spostare il baricentro delle emozioni condivise: raggiungere tutti in tempo reale dalla stessa fonte è cominciato a diventare sempre meno frequente. Non era una rivoluzione della comunicazione. Era una rivoluzione del pensiero.

Oggi ci sono comici che riempiono tour nei teatri nonostante un sacco di gente non abbia mai sentito il loro nome. Ci sono musicisti che quasi misteriosamente riempiono luoghi da 20mila, 30mila persone e che non verrebbero fermati per strada dal cittadino medio per un autografo. Ci sono youtuber, influencer, instagrammer, opinionisti, scrittori, liberi pensatori che sono conosciutissimi pur mantenendo l’anonimato più totale. Quello che prima era solo un’eccezione ora è diventata una diffusa categoria: i famosi sconosciuti.

Il sentore di un simile fenomeno l’ho provato per la prima volta appena iscritto all’università Statale di Milano. Un pomeriggio attraversando Piazza Duomo notai un vastissimo gruppo di adolescenti dagli occhi brillanti in coda davanti a una libreria mentre aspettavano qualcuno “Chi aspettate?”, domandai, “Conor Maynard”, mi rispose una fan entusiasta. Chi? A oggi ancora non ho la minima idea di chi fosse Conor Maynard, anche se non ho mai dimenticato il nome di chi per la prima volta mi fece sentire così vecchio. Ciò che conta è che quello che pensavo essere un normale distacco generazionale era in realtà la prima avvisaglia di un cambiamento culturale.

Le icone pop considerate ancora tali sono quelle che appartenevano a 20 anni fa o prima. Se mi trovo con una persona della mia età e insieme incontriamo Max Pezzali, è facile che gli dica: “Guarda chi c’è: Max Pezzali”, sapendo che lui comprenderà il significato (qualunque esso sia) di quell’incontro. Se vediamo Attilio Berestraghi non sarà la stessa cosa. Questo per un motivo molto semplice. Perché non esiste Attilio Berestraghi, ma non ditemi che vi siete sentiti in difetto nel leggere un nome famoso che non avete mai sentito. Potrebbe esserci benissimo un famoso Attilio Berestraghi, acclamato da folle urlanti per qualche cosa, che nessuno sa chi sia.

Conor Maynard

Insomma, può darsi che stiamo vivendo un ritorno di stanze culturali che crescono senza necessari contatti le une con le altre e in questo senso la globalizzazione non sta più perseguendo l’appiattimento di quelle che Pier Paolo Pasolini definiva “le varie realtà particolari”, ma al contrario sta alimentando proprio l’opposto, ossia una frammentazione dei punti di riferimento, che portano a una valorizzazione delle scelte personali degli individui.

In qualche misura è il modo in cui il mondo, anche quello occidentale, aveva sempre vissuto fino all’avvento del capitalismo. Prima della diffusione del telefono, della radio e della televisione, il sistema sociale fu percepito solo da pochi illuminati come una grande rete che poteva includere tutti; era invece norma che ognuno si riconoscesse nella propria piccola comunità. Come spesso cita Giulio Sapelli, “Coal is my life” era il motto dei minatori scozzesi e “El carbon es mi vida” quello degli spagnoli. E così per molti altri; la concezione dell’individuo, con diritti e sentimenti di rivalsa, era sconosciuta. Furono i media e la cultura di massa del Novecento a illudere tutti della possibilità di nuovi orizzonti ai quali aspirare, creando di fatto un’ondata di invidia sociale. Fino a quel momento non solo l’erba del vicino non era considerata più verde della propria: nessuno badava poi così tanto al vicino. Ogni comunità era un mondo separato ed è proprio su un modello simile che si potrebbe tornare.

Al distanziamento fisico sembra emergere ancora di più il distanziamento mentale dato dalle nicchie, dalle bolle già presenti in rete che si autoalimentano. Talvolta solo apparentemente autonome, ma in realtà profondamente influenzate dalla cultura dominante. Questa visione sul futuro in qualche modo ripercorre al rovescio la costruzione teorica premonitrice che il sociologo David Riesman espose nel 1950 con La folla solitaria. Agli albori della società basata su televisione e radio, Riesman denunciava proprio il rischio di alienata omologazione che i mass media potevano portare, comparando criticamente la nuova società che nasceva degli anni Cinquanta in cui “nell’ambito del gruppo dei pari era necessario apprezzare la cultura popolare”, agli anni precedenti in cui “la persona autodiretta che leggeva solitariamente il suo libro era invece meno consapevole degli sguardi altrui”.

Nella prefazione alla traduzione italiana di Cultura convergente dell’americano Henry Jenkins, anche il collettivo Wu Ming suggeriva nel 2007 il concetto della fine della cultura di massa come la conosciamo: “Oggi la stragrande maggioranza dei prodotti culturali non è di massa: viviamo in un mondo di infinite nicchie e sottogeneri. Il mainstream generalista e “nazionalpopolare” è meno importante di quanto fosse un tempo, e continuerà a ridimensionarsi”. Questo nuovo assetto che caratterizza i primi due decenni degli anni Duemila avrà ripercussioni su larga scala. Potrebbero non essere necessariamente negative, i linguaggi potrebbero intraprendere nuove strade, diversificandosi e permettendo di sviluppare un maggiore esercizio alla coesistenza tra diversità, andando ad offrire un importante sostegno alla democrazia, che oggi sembra attraversare una delle sue crisi più profonde. Ma è importante essere consapevoli del fatto che queste conseguenze non sono indipendenti da noi e dalla nostra capacità critica e di analisi del reale.

Allo stesso tempo, non è escluso che questa rivoluzione possa portare a stravolgimenti negativi. Le differenze sociali potrebbero aumentare a dismisura, come molti ipotizzano, e con esse anche le tensioni. In tal senso converrebbe tenere bene a mente anche i pareri di pensatori che guardano con severità alle presunte opportunità offerte da internet, come ad esempio il bielorusso Evgenij Morozov. Il suo The Net Delusion del 2011 ci ricorda come i rischi di disgregazione della società si annidano potenzialmente in ogni angolo del cyberspazio.

Nietzsche, nel 1882, previde l’imminente decadimento della dimensione spirituale giudaico-cristiana (principio supremo che aveva guidato il mondo occidentale dalla caduta dell’Impero romano fino a quel momento) a causa della modernità, della scienza e della tecnologia: fenomeno che chiamò la morte di Dio. Molto tempo dopo la Pop Culture ha definitivamente sancito la morte di Dio, finendo però per assumerne l’identità. La parola “idolo” (dal latino “idōlum”, figura), che per centinaia di anni era stata direttamente correlata al sentimento religioso, ha subìto una metamorfosi di significato andando a identificare nel Novecento di volta in volta musicisti, attori, atleti o figure politiche. Le effigi scintillanti dell’universo pop erano diventate divinità di un neo tecnopaganesimo anche più potente di ciò che era stata l’idea di Dio. John Lennon lo comprese nel 1966 annunciando che i Beatles erano divenuti più famosi di Gesù e scatenando l’ira dei puritani d’America. Sono passati decenni e oggi, mentre assistiamo ad una nuova destrutturazione, sembra che stia arrivando qualcos’altro a sancire a propria volta la morte della cultura pop. Sarà importante scoprire che cosa, anche per difenderci dalla possibilità che sia qualcosa di negativo.

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