Osservare qualcuno mentre dorme è una delle violazioni più forti – per quanto apparentemente minime – dell’intimità individuale, se si esclude ovviamente l’osservazione e la perlustrazione di un nudo. Mentre dormiamo, infatti, siamo assolutamente inermi e abbandonati, “assenti”, al nostro stesso corpo. Quando qualcuno ci guarda senza che ce ne accorgiamo siamo del tutto impotenti di fronte al suo sguardo, e in questo farci oggetti, immagini, si mescolano orrore e pudore, creando una tensione erotica, che come da migliore tradizione mescola amore e morte, creazione e distruzione, desiderio e colpa, idea e realtà. Tensori che innervano molto più di quanto crediamo il nostro stesso Rinascimento – in particolare quello fiorentino e mediceo – e successivamente la cosiddetta Età dei Lumi, quantomeno quella italiana (forse mai realmente pervenuta, quantomeno non certo come siamo abituati a intenderla). Potremmo dire che ogni sguardo contiene potenzialmente in sé questa ambivalenza, e che tutto ciò che agisce è crudeltà, come ha detto il drammaturgo surrealista Antonin Artaud – con cui anche Buddha peraltro sarebbe stato d’accordo.
La nostra stessa cognizione, la percezione che abbiamo di noi stessi quando siamo vigili, svegli, presenti, ci pone costantemente di fronte al quesito sulla forma e sulla verità, da cui emerge la millenaria domanda sull’identità: “Chi sono io?”. Come molto spesso succede è ancora una volta sul nostro corpo che si generano e si scaricano certe tensioni apparentemente insolubili e ancora una volta Fondazione Prada si dimostra pronta a sondare questo territorio. Con “Cere anatomiche” – che vede la partecipazione di David Cronenberg – va ad aggiungere infatti un nuovo tassello a “Il sarcofago di Spitzmaus e altri tesori” (a cui partecipò Wes Anderson), e porta avanti la ricerca sul rapporto tra contemporaneo e arte antica, già recentemente indagato con “Recycling Beauty”, e accompagnato all’approfondimento scientifico sul corpo del progetto-mostra “Human Brains” e da “Useless Bodies?”. Fino a metà luglio, negli spazi del Podium della sede milanese della Fondazione, sono esposte tredici ceroplastiche e settantadue disegni di anatomia, prestati da La Specola di Firenze (ovvero “l’osservatorio”, lo speculum della natura), il più antico istituto in Europa dedicato a questo genere di opere. Il museo – attualmente chiuso per restauri – conserva tuttora la più grande raccolta di cere anatomiche realizzate tra il XVII e il XIX secolo e inaugurò nel 1775 (circa con tre secoli di ritardo rispetto alle aspettative dei Medici), proprio quando il marchese de Sade scriveva il suo Viaggio in Italia.
I pezzi selezionati – nati per mostrare a fini didattici l’anatomia femminile, in particolare il sistema riproduttivo e linfatico – appaiono come tante bambole adagiate in altrettante teche di cristallo, e lo spettatore assume il ruolo di soggetto assoluto, al pari del medico e del demiurgo, del voyuer o del sadico, del perverso. Queste cere, come libri o mappe, cristallizzano un punto della conoscenza, ma al tempo stesso, gli artigiani che le hanno realizzate ci hanno spesso aggiunto qualcosa in più, che non ha nulla a che fare con la scienza, i lumi, la ragione, ma col sogno, il desiderio e lo spettacolo, dando vita a opere capaci di muoversi proprio su quella tensione tra attrazione e repulsione. Le espressioni e le pose delle cere, infatti, sono estatiche e lascive, e piuttosto che i manichini dei nostri laboratori di scienze ricordano la Santa Teresa d’Avila di Bernini.
Tra esse svetta la famosa “Venere dei medici”, realizzata da Clemente Susini, uno dei più famosi ceroplasti dell’epoca, e soprannominata così in virtù di un’altra sua concittadina significativa, la “Venere dei Medici” (opera di rilevanza centrale degli Uffizi), entrambe le quali attirarono inevitabilmente l’attenzione di de Sade durante la sua visita. La prima in quanto simbolo per antonomasia della bellezza classica, pudica e marmorea, la seconda in quanto giocattolo scientifico, prototipo di sex toy, con tanto di bocca socchiusa, peli pubici e filo di perle a nascondere il taglio necessario ad aprirla e a mostrarne le viscere. Queste sculture di cera, infatti, almeno in teoria, dovevano mostrare secondo il pensiero umanista e illuminista del loro tempo la relazione tra anima e corpo, natura e divinità nel modo più realistico e oggettivo possibile, ma come sempre accade, con buona pace degli accademici, la realtà, a differenza di questi stessi modelli, non è scomponibile, ma “imparziale” e molto più complessa di qualsiasi etichetta le si voglia attribuire. Ciò che per il canone artistico veniva spesso considerato inaccettabile, men che meno se non rivestito di simboli ed idee, trovava ampio spazio nel vicino mondo scientifico.
“Nel ricreare alcune figure intere parzialmente sezionate con volti e gesti che non esprimessero dolore o agonia e che non sembrassero sottoposte a tortura o intervento chirurgico, si finì per dare vita a personaggi vividi in preda all’estasi. È stata questa scelta insolita degli scultori ad aver scatenato la mia immaginazione. […] E se la dissezione stessa avesse indotto la sensazione di estasi, quel rapimento quasi spirituale?” ha scritto Cronenberg, evitando bene qualsiasi falso pudore. Nasce da qui l’idea del suo cortometraggio inedito, che vede come protagoniste queste bambole e s’intitola: “Four Unloved Women, Adrift on a Purposeless Sea, Experience the Ecstasy of Dissection” (“Quattro donne mai amate, alla deriva su un mare senza scopo, sperimentano l’estasi della dissezione”). L’unica forma di “amore” che queste donne possono ricevere sembra essere quella della scienza, dello studioso che le scolpisce e le mutila per capire cos’hanno dentro, come sono fatte (si deduce quindi per opposizione che un corpo amato, invece, non subisca lo stesso destino, venga preservato, intatto, inviolato). Non a caso il regista aveva già sondato profondamente certi archetipi (che sovrappongono Venus emergens, Biancaneve e quella che oggi conosciamo come “la bella addormentata”, tutte figure legate in un modo o nell’altro alla gestazione), in Inseparabili, quindi la sua presenza appare del tutto spontanea come contraltare all’arte antica.
La cera – morbida, malleabile, deteriorabile – è il materiale scultoreo più vicino alla pelle umana e che meglio riesce a rendere la consistenza della carne – se si escludono la gomma e il silicone, ovviamente. Il risultato d’insieme è che queste opere, a differenza delle loro coeve svestite, suscitano una profonda empatia, fanno venire voglia di allungare una mano e toccarle. È indicativo che nonostante tuttora continui a girare una delle mostre più famose e apprezzate di tutti i tempi, “Human Bodies”, che raccoglie veri corpi umani scuoiati, conservati e messi in posa, le cere anatomiche del XVIII secolo ci turbano e ci affascinano di più. I corpi veri, infatti, sistemati per essere esibiti, in pose sportive o romantiche, finiscono per sembrare finti, non si riesce a empatizzare nemmeno per un attimo con quelle fibre muscolari rosso acceso, quei connettivali bianchi e tesi, quelle facce ottuse e sorridenti, mentre per i corpi falsi, lucidi e giallastri, adagiati supini sui loro drappi si innesca immediatamente un profondo senso di empatia. Il verosimile – ancora una volta – supera il vero, forse perché più umile, quasi come la serva Liù al cospetto della principessa Turandot di Puccini. Eppure è di Liù – umana, imperfetta, fallibile – che il pubblico si innamora, ed è per lei che piange. La cera, infatti, ci porta molto velocemente sul confine tra vero e verosimile, popolato di soffice confusione e attutita ambiguità. I cadaveri esposti nei gabinetti di scienze o nei musei di storia naturale, inturgiditi dalla formalina, sembrano oggetti senz’anima, anche quando assumono pose naturali e sorridenti, mentre questi oggetti – nel loro essere totalmente indifesi – sembrano più umani che mai, e proprio per questo popolati da uno spirito. Ciò che di attraente, perturbante e orrendo c’è in questa mostra allora è che noi esseri umani, nonostante tutto, non riusciamo ancora a rassegnarci all’idea di essere corpi, e molta della sofferenza che proviamo viene anche da qui.
Come scrive il famoso storico dell’arte e filosofo Georges Didi-Huberman in Aprire Venere. Nudità, sogno, crudeltà, che inizia con un’analisi della Venere di Botticelli (oggi trend topic dopo l’adattamento voluto dalla ministra Santanché), per concludersi proprio con la Venere dei medici di Susini apribile, che si smonta mostrando la sua anatomia, e la “Venere sventrata” da cui invece erompono i visceri: “Ripensare la nudità oltre gli abiti simbolici di cui si riveste il nudo nella rappresentazione […] significa in primo luogo accostarsi a quella fenomenologia del contatto mascherato […] di ogni idealizzazione, di ogni difesa psichica contro l’attacco, in noi, dei cosiddetti processi ‘primari’. Occorre dunque trovare nella Venere stessa la traccia di questo snodo dissimulato, inquietante, in cui il tocco di Thanatos si sposa a quello di Eros: passaggio impercettibile, e nondimeno straziante, in cui l’essere toccati (essere commossi dalla bellezza pudica di Venere, vale a dire essere attirati e quasi carezzati dalla sua immagine) diviene essere colpiti (ovvero essere feriti, essere aperti dal negativo che appartiene a quella stessa immagine). Qui nudità fa rima con desiderio, ma anche con crudeltà”. Questo significa reinventare Venere, ed è questo interrogativo fondamentale sul femminile – in quanto categoria dell’esistente, ma anche estetica e semantica, corpo in grado di contenere e celare per antonomasia – che ci pone insistentemente Fondazione Prada attraverso questa mostra.
Alcuni spettatori si sono chiesti se queste donne, nelle loro teche di legno e cristallo, siano belle. Sì, lo sono, ma non nel modo che siamo stati abituati a pensare e a pretendere. Non si capisce infatti perché debbano esserlo, in quanto donne, e in quanto oggetti esposti in veste di “opere d’arte” – per il semplice fatto di non essere in un’accademia, o in un ospedale, ma all’interno di una mostra. L’arte, proprio a partire dall’epoca in cui molti di questi “manichini” sono stati fatti, non è più bellezza. Se Armonia è figlia di Venere, Venere stessa sarà diversa dall’armonia, sottolinea sempre Didi-Huberman. Eppure, la bellezza è ancora ciò che ci aspettiamo, anche quando ci troviamo di fronte a un modello anatomico, che più che il David di Donatello o l’uomo vitruviano dovrebbe rappresentare un esemplare di essere umano squisitamente medio e mediocre, nel pieno della deviazione standard, ovvero ben lontano dagli estremi che prevedono sia la mostruosità che la grazia e la bellezza più armonica (la concinnitas), intesa appunto come proporzione tra le parti.
Queste cere mescolano la bellezza naturale a quella ideale, come vere e proprie mappe, propongono una speleologia dei corpi. La carne però fa orrore, la carne non è bella, eppure ogni nudo propone l’ossessione per lo scorticato, anche se ci impegniamo a dimenticare. La fenomenologia dell’apertura dei corpi, inaugurata a livello teorico da Leon Battista Alberti e percorsa poi esplicitamente da Leonardo da Vinci, sancisce che ogni riproduzione di bellezza soggiacia alla conoscenza di ciò che sta sotto alla superficie, ovvero all’obiettiva crudeltà del gesto che apre l’involucro. Aprire Venere è violare il mistero senza riuscire a svelarlo, disinnescare l’enigma. Lo sguardo scientifico viene visto quasi come un’ossessione, una caccia che non dà tregua, non lascia scampo, l’unica cosa possibile è la resa. Eppure, secondo molti, tra i primi a farlo notare fu Diderot, ci sono forme – porte – che non devono essere aperte. Se aprire il corpo significa ferirlo, distruggerne l’unità, lasciar erompere l’informe da esso, queste cere anatomiche ci propongono l’assurdo di questa compresenza formale, molto meno univoca a ben vedere da quella sostenuta da Goethe.
L’enigma della forma si esaurisce nell’azione – violenta, crudele, spietata – compiuta per risolverlo, svelarlo. Vive nella tensione innescata dal desiderio e dalla curiosità di scoprire, svelare, conoscere, nella consapevolezza di voler fare qualcosa che non si dovrebbe e non si può fare, vedere qualcosa che semplicemente non si può vedere. Perché ciò che si vedrà disattenderà le aspettative. Come nel sogno del medico, il primo a essere analizzato in maniera psicoanalitica da Freud e poi ripreso da Lacan, “una volta ottenuto che la paziente apra la bocca ciò che [si] vede in fondo è uno spettacolo schifoso”, inquietante. La scoperta della carne, che non si vede mai, che sta in fondo alle cose, è orribile, è l’essenza stessa dell’angoscia. “La rivelazione ultima del tu sei questo – tu sei questa cosa che è la più lontana da te, la più informe”. Di fronte a tutto questo, secondo Lacan, “il soggetto si decompone e sparisce”.
La soluzione, lo scioglimento, dell’enigma allora è per forza di cose una delusione, da de- (fuoriuscire) ludere (giocare). L’uscita dal gioco quindi, in contemporanea alla fuoriuscita delle viscere del giocattolo. La verità anatomica, come scrive Didi-Huberman, si trasforma in un fantasma perverso, che la Natura – donna – svela di fronte allo scienziato (la scienza moderna è per costituzione maschile), e al quale “l’Ottocento conferirà tutto il suo potere coercitivo sui corpi”, come sottolineato da Foucault, celebrando la bellezza solo per meglio votarla al sacrificio e alla crudeltà. Il medico nichilista Evgénij Bazárov, nel capolavoro di Turgenev Padri e figli dirà di Anna Sergeevna: “Un corpo magnifico […] da sala di anatomia!”, o in una vecchia traduzione “Com’è bella! Mi piacerebbe vederla sul mio tavolo di dissezione!”. Questa crudeltà appare tuttora affascinante e irresistibile, forse proprio perché al limite, come l’elasticità della nostra psiche e delle nostre emozioni – più che mai immerse nel dominio dell’assoluto sregolamento del desiderio sancito dal capitalismo (eppure così terrorizzate da esso, a differenza dei nostri predecessori barocchi) – per questo “Cere anatomiche” appare oggi come un potentissimo dispositivo di indagine antropologica e psicologica della nostra essenza e delle nostre pulsioni.
In copertina: Immagine della mostra “Cere anatomiche: La Specola di Firenze | David Cronenberg” Fondazione Prada, Milano. Foto: Roberto Marossi. Courtesy: Fondazione Prada.