Giugno è il Pride Month e in tutto il mondo si tengono cortei e manifestazioni per celebrare l’orgoglio LGBTQIA+ e, sebbene spesso siano considerate semplici feste, la loro natura è legata alle rivolte di Stonewall e alla rivendicazione del proprio diritto a esistere. L’origine del Pride come modalità di espressione da parte delle comunità LGBTQIA+ è perlopiù ignota all’opinione pubblica, soprattutto in Paesi che, come l’Italia, hanno iniziato tardi a organizzare manifestazioni simili. D’altra parte, conoscere le modalità e le dinamiche che hanno portato il Pride a essere ciò che oggi conosciamo è fondamentale per non perderne il significato intrinseco, soprattutto di fronte alla crescente insistenza delle pratiche di rainbow washing messe in atto da marchi piccoli e grandi, che nella stagione del Pride vedono un’opportunità di business non troppo diversa rispetto all’otto marzo – altra ricorrenza scambiata ormai dai più come “festa” – o a San Valentino. Per conoscere il significato sociale e culturale di questa manifestazione è opportuno innanzitutto conoscere le persone che, a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta, si sono battute contro la società del tempo e, spesso, contro la legge affinché oggi ci fosse concessa la possibilità anche solo di vivere e sopravvivere.
A dispetto di quanto si possa credere, nonostante la denominazione comunemente diffusa in Italia fino a pochi anni fa fosse “Gay Pride”, questa manifestazione non ha avuto origine esclusivamente dalla forza della comunità gay e/o cisgender. Sebbene, nel corso degli anni immediatamente successivi ai moti di Stonewall, sia prevalsa la costruzione di una narrazione a uso e consumo della ristretta minoranza di uomini gay, sono numerose le figure bisessuali, transgender e lesbiche che hanno giocato un ruolo fondamentale nella prima stagione delle rivendicazioni “queer”. Tra queste rientra senza dubbio Brenda Howard, nota come “la Madre del Pride”. Nata nel 1946, nel Bronx e già attivista durante la guerra in Vietnam, Howard non partecipò ai moti di Stonewall del 1969, sebbene conoscesse il locale e le diverse soggettività che lo attraversarono. Il suo contributo principale avvenne dopo la storica rivolta – che ebbe la durata, non consecutiva, di tre giorni – assicurandosi che questi eventi non venissero dimenticati. Infatti, un anno più tardi, Brenda diede origine a un comitato per l’organizzazione di una marcia in ricordo dei “riots” dell’anno precedente, il “Christopher Street Liberation Day”, dando così vita alla forma del corteo per come lo conosciamo oggi e insieme ad altri attivisti contribuì a diffondere la denominazione “Pride” per questa forma di manifestazione, stabilendo un significato iconico per tutta la comunità.
Per anni Brenda Howard ha collaborato con il Gay Liberation Front, nonostante la predominanza degli interessi degli uomini cisgay all’interno dell’agenda dell’associazione. Contribuendo, nel 1987, alla creazione del New York Area Bisexual Network, una rete di supporto pensata specificatamente per persone bisessuali. Successivamente ha fondato la prima sezione di Alcolisti Anonimi dedicata a persone bisessuali negli Stati Uniti, sulla base di intuizioni arrivate con l’esperienza e poi confermate scientificamente da rilevazioni statistiche successive, che hanno evidenziato che le persone appartenenti all’ombrello BI+ mostrino una maggiore tendenza a sviluppare patologie mentali e vivere situazioni di isolamento sociale rispetto alla media della popolazione gay e lesbica a causa della discriminazione subita e della costante invisibilizzazione. Nonostante il suo infaticabile operato, però, al di fuori del mondo anglosassone pochi sono a conoscenza del contributo di Brenda Howard, che scomparsa nel 2005 a causa di una forma aggressiva di cancro, solo negli ultimi anni sta ottenendo un meritato, seppur tardivo, riconoscimento. Le ragioni dietro questa vera e propria invisibilizzazione degli obiettivi raggiunti dall’attivista sono da rintracciare sia al suo profilo personale che alle sue stesse lotte.
Brenda non era solo un’attivista per i diritti LGBTQIA+, era anche una donna bisessuale, poliamorosa, kinkster – praticante del BDSM – e femminista, una somma di caratteristiche che contribuirono a definire un identikit anomalo proprio durante le fasi di assestamento delle lotte. Allo stesso tempo, all’interno del movimento emersero e divennero ben più visibili posizioni più moderate e meno radicali rispetto a quelle dei primi anni, soggettività più vicine alla via “istituzionale” come quella del consigliere comunale gay di San Francisco, Harvey Bernard Milk, assassinato nel 1978 in un delitto di chiara impronta omofoba.
Quando si cominciò ad adottare una strategia di normalizzazione delle persone non eterosessuali, il movimento si ritrovò anche a dover compiere la scelta dei modelli da proporre. Il tutto secondo una politica “progressiva” non senza conseguenze e che di fatto negli anni ha escluso dalla narrazione le soggettività che meno si prestavano a una narrazione normata: le persone bisessuali, transgender e con stili di vita non amatonormativi.
Nella sua vita Brenda ha incarnato tutti questi elementi e ciò ha fatto sì che potesse essere più facilmente dimenticata dalla narrazione mainstream. Proprio nel 1993, Brenda partecipò alla Marcia su Washington come co-responsabile dello spezzone Leather, un gruppo facente parte delle comunità kinkster. Si trattò di una scelta politica fondamentale, considerando che erano da poco terminati gli anni più roventi delle cosiddette “sex wars femministe”, ovvero quel periodo di grande fermento accademico tra fine anni ’70 e pieni anni ’80 in cui molte attiviste si interrogarono sul valore più o meno intrinsecamente patriarcale della pornografia, del sex work e del sadomasochismo. In questo senso le vicende di Howard e la sua figura sono esemplificative della criticità che ha caratterizzato il movimento LGBTQIA+ a partire dai moti di Stonewall e che per certi versi continua ancora oggi ad avere. Solo recentemente hanno cominciato a emergere con potenza voci che non siano quelle della comunità maschile cis gay, che per lungo tempo ha, di fatto, monopolizzato le istanze dell’intero movimento.
Il “gay washing” ha interessato ed interessa molti aspetti, basti pensare all’uscita, pochi anni fa, del film “Pride”, nel quale le persone realmente protagoniste dei moti di Stonewall, come Sylvia Rivera, Marsha P. Johnson o Stormé DeLarverie, sono state rimosse in favore di protagonisti maschi bianchi gay creati “ad hoc”. Questo fenomeno di cancellazione o trasformazione interno alla comunità di figure diverse rispetto alla narrativa dominante ha coinvolto anche l’Italia. Basti pensare alla figura di Mario Mieli, storico fondatore del Fuori!, manifesto del primo movimento di liberalizzazione sessuale in Italia, e tutt’oggi identificato prevalentemente come gay nonostante fosse dichiaratamente bisessuale. Altro caso clamoroso di bicancellazione in Italia è stato quello di Marielle Franco, attivista bisessuale brasiliana uccisa dalla polizia e indicata, anche da organi d’informazione queer, come lesbica. La predominanza, in Italia, di istanze quali il matrimonio egualitario o l’adozione di bambini sono altri esempi di come il movimento queer abbia dato la priorità a una visione della lotta più vicina al binarismo sessuale e di genere e quindi all’eteronormatività e meno disponibile alle esigenze di altre frange della comunità queer. Minori energie sono state spese per combattere a fianco della comunità intersex, che per esempio da anni invoca una legge contro la mutilazione dei genitali dei neonati intersex per motivi puramente estetici o ancora per sostenere le persone transgender che richiedono una revisione della legge 164 e un approccio al percorso di affermazione di genere meno medicalista e paternalista di quello oggi vigente. Mentre a livello culturale anche slogan come “born this way” o “Love is love”, oltre a essere semplicistici ed escludenti della complessità e ricchezza delle esperienze della comunità sono depositari di un significativo sguardo privilegiato nei confronti delle persone queer monosessuali e monogame.
Howard, invece, probabilmente per il suo impegno attivo nella comunità bisessuale, è stata per anni semplicemente messa da parte. La sua morte in sordina ha impedito di farne una martire del movimento ed è stata lentamente dimenticata. La creazione del Brenda Howard Memorial Ward alla sua morte è stato il primo passo verso il riconoscimento del ruolo fondamentale da lei giocato per l’intera comunità queer. Si tratta di uno dei primi riconoscimenti volto a persone che si sono distinte a sostegno delle persone bisessuali e, oltretutto, del primo riconoscimento dedicato, negli Stati Uniti, a una persona della comunità bisessuale.
A diciassette anni di distanza dal Brenda Howard Memorial Ward, tuttavia, la strada da percorrere a favore del pieno riconoscimento dei diritti e delle istanze delle persone appartenenti all’ombrello BI+ è ancora lunga. Alla bifobia esercitata naturalmente da parte della società, infatti, per le persone bisessuali si aggiunge anche quella perpetrata nella stessa comunità. La mancanza di punti di riferimento sociali, elemento per il quale Howard ha lottato per tutta la vita, costituisce uno dei fattori critici che portano, non solo a condizioni di salute mentale peggiori per le persone BI+ rispetto a etero, gay e lesbiche, ma anche, secondo dati statunitensi, a livelli di povertà più elevata.
In una fase storica in cui i Pride sono ormai diffusi in tutto il mondo, ma rischiano di perdere la propria anima, la comunità LGBTQIA+ ha bisogno ora più che mai di riabbracciare quella radicalità di intenti e di esistenza di cui Brenda Howard rappresenta un valido esempio. A 32 anni dal “Christopher Street Liberation Day” abbiamo ancora bisogno di “madri” potenti, infaticabili e rivoluzionarie come Brenda Howard.