Come ogni grande occasione di incontro internazionale, per esempio le prime Expo – le grandi esposizioni universali che in tempi ben lontani dalla globalizzazione davano l’occasione di entrare in contatto con imprenditori, artigiani, architetti, coltivatori di tutto il mondo – anche le kermesse artistiche rappresentano veri e propri eventi politici, con forti effetti sul contesto urbano, sociale, economico e culturale che li ospita. La letteratura sul tema è ricca, in particolare per quanto riguarda la Biennale di Architettura e Urbanistica di Seoul, in Corea del Sud; ma anche la Biennale di Kochi-Muziris, a Cochin, in Kerala, nel Sud dell’India; oppure la famosa Documenta di Kassel, in Germania. In questo scenario di cause-effetti, per forza di cose, un esempio estremamente rappresentativo dell’osmosi tra queste mostre e il reale è la Biennale d’Arte di Venezia. Attiva dal 1895, durante il Novecento la Biennale si è espansa a quasi ogni ambito della creatività: nel 1930 alla musica; nel 1932 al cinema (dando vita al primo festival cinematografico mai organizzato al mondo); nel 1934 al teatro, nel 1980 all’architettura, e nel 1999 alla danza.
Oltre a rappresentare uno degli eventi artistici più importanti al mondo, la Biennale di Venezia ha un profondo e radicato rapporto con la città, tanto che ha contribuito a influenzarne il ritmo, la vita, la forma, diventando parte integrante del paesaggio urbano ed emotivo dei suoi cittadini e visitatori. L’estensione dell’offerta culturale della Biennale ha costruito attivamente l’immagine – reale e figurata – della Venezia che conosciamo oggi, oltre a innervare il suo indiscutibile fascino, che deriva anche da questa capacità di movimento e di rinnovamento continuo, dai flussi che la attraversano, così come delle energie che la popolano, dati da persone e idee. È come se Venezia, infatti, per contenere le varie Biennali, si fosse dilatata – non tanto da un punto di vista urbano, ma semiotico – in altre dimensioni di senso e percezione, grazie alle varie forme d’arte che ha accolto e selezionato e a cui nel tempo ha dato forma, legate a una visione e a un immaginario non direttamente tangibile eppure dalla fortissima influenza.
Le origini della manifestazione risalgono al 1895 con la prima Esposizione Internazionale d’Arte che ha scandito tutto il Novecento, per poi superarlo, arrivando fino a oggi. Avendo accompagnato oltre un secolo di storia della città, la Biennale non si è soltanto plasmata sugli eventi storici che si sono avvicendati nel corso degli anni – come nel caso dello scoppio delle due guerre mondiali o i movimenti a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta –, ma ha contribuito a sua volta a dare forma al contesto urbano, come una forza endogena capace di accelerare, rallentare o deviare le sue evoluzioni. Per questo, le vicissitudini dei suoi padiglioni, ai Giardini, incarnano tutto ciò. La storia culturale e politica della Biennale, infatti, così come le intenzioni che l’hanno mantenuta in vita, possono essere lette attraverso le forme dei padiglioni che fin dai primi albori l’hanno ospitata, trovandola chiave di volta in particolare nel tensore millenario che da sempre informa e illude la nostra percezione, quello tra permanenza e impermanenza.
Come si legge nella Guida ai padiglioni della Biennale di Venezia dal 1887 di Marco Mulazzani, critico dell’architettura e professore di Storia dell’Architettura Contemporanea all’Università di Ferrara, l’idea di un’esposizione artistica a Venezia nasce in seno agli incontri negli anni Ottanta dell’Ottocento di un ristretto circolo di artisti e cultori d’arte nelle salette del famoso caffè Florian, in piazza San Marco. Tra questi c’è Riccardo Selvatico – il sindaco-poeta, o il poeta-sindaco – allora alla guida della giunta democratica che governa città, e che nel 1893 propone di organizzare una manifestazione artistica internazionale, con cadenza biennale, che trasfromò poi Venezia in un luogo di riferimento per l’arte. Il partito di Selvatico verrà sconfitto alle elezioni municipali del 1896, ma ormai la manifestazione è stata avviata l’anno prima e la sua crescita proseguirà fino all’undicesima edizione, nel 1914, l’ultima prima della guerra.
Nel 1887 c’era stato un precedente importante, l’Esposizione Nazionale Artistica, accolta dai Giardini di Castello, che poi verranno rinominati in Giardini della Biennale, una volta ristrutturati alcuni edifici già esistenti per ospitare il primo palazzo della mostra – noto, nel corso del tempo, come palazzo Pro Arte, palazzo Internazionale, palazzo Centrale, padiglione Italia (dal 1932). I veneziani erano comunque già abituati da quasi un secolo a frequentare i Giardini. Fin dalle sue prime edizioni la Biennale riscuote un enorme successo: con oltre 200mila visitatori nel 1895, 250mila nel 1897, 300mila nel 1899. È così che gli organizzatori iniziano a valutare la possibilità di realizzare padiglioni ad hoc per ospitare le opere degli artisti stranieri. Il primo a essere costruito è quello del Belgio, nel 1907. Nel 1909 si inaugurano i padiglioni dell’Ungheria, il padiglione britannico e il padiglione degli artisti bavaresi, poi della Germania. Nel 1912 aprono il padiglione francese e quello svedese, poi riassegnato due anni dopo all’Olanda, dato che la Svezia non aveva trovato un accordo col comune per riscattare l’edificio. Fino al 1912, infatti, la municipalità interveniva finanziariamente nella costruzione di alcuni padiglioni, sollecitandone poi il riscatto da parte dei paesi beneficiari.
I vari padiglioni che vengono costruiti anno dopo anno, a parte durante la prima guerra mondiale, hanno caratteristiche e stili molto diversi. A differenza di altri, il padiglione belga del 1907 di Léon Sneyers, pur essendo il primo a essere costruito, appare più moderno, con atmosfere simboliste e secessioniste; nel padiglione cecoslovacco di Otakar Novotný, risuonano invece echi cubisti; il padiglione statunitense di Delano & Aldrich è in stile neopalladiano; e Carl Brummer nel padiglione danese riprende il tipico classicismo nordico. Tutti gli anni Venti sono attraversati dal chiaro obiettivo di esprimere un’immagine compiutamente nazionale, cosa particolarmente evidente per quanto riguarda i padiglioni di Russia e Spagna, in cui temi e motivi tradizionali sono portati ai massimi estremi. Gli anni Trenta, invece, sono anni di transizione, caratterizzati sì dalla costruzione di padiglioni che esprimono ancora temi celebrativi e nazionalistici, come quello greco e tedesco, ma anche da nuove forze sperimentali, e gli allestimenti del palazzo Centrale annoverano i contributi di grandi architetti italiani come Brenno Del Giudice, Marcello Piacentini, Gio Ponti, Gustavo Pulitzer Finali e Duilio Torres; ma anche di Gigi Chessa, Alberto Sartoris e Luisa Lovarini. Anche in questo caso la diversità la fa da padrona e se il progetto di Del Giudice per il padiglione Venezia, del 1932, introduce una chiara volontà d’ordine; Josef Hoffmann nel 1934 per il padiglione austriaco raggiunge alti esiti poetici: “Il suo padiglione,” scrive Mulazzani, “annulla nella duplicità degli ambienti la tradizionale gerarchia delle sale; il salone centrale, in genere apice tanto rappresentativo quanto statico dell’edificio, è sostituito dal vuoto della galleria. I quadri sono sospesi in uno spazio rarefatto e pervaso da una calda tonalità di luce”. Questi sembrano dettagli, ma a chi sa riconoscerli appaiono come un linguaggio cifrato capace di dirci, se interrogato nella maniera opportuna, quanto cambiassero le pulsioni inconsce, consce, emotive e sociali di decennio in decennio, di cultura in cultura, attraverso la variazione compositiva e formale, l’immaginazione degli spazi e degli effetti che sortiscono su di noi, fenomeno recentemente affrontato in maniera sistematica anche dalla neuroscienza, per esempio dal grande neuroscienziato italiano Giacomo Rizzolatti, che ha contribuito alla scoperta dei neuroni specchio e sta portando avanti da anni ricerche che legano appunto la struttura del nostro cervello alla percezione degli spazi costruiti.
Nel secondo dopoguerra gli allestimenti e le architetture riflettono l’atmosfera di rinnovamento che anima sia l’Europa che la Biennale – guidata da Rodolfo Pallucchini, segretario generale dal ‘48 al ‘57 – in quello che si rivelerà essere il decennio decisivo per la rinascita postbellica dell’Italia, così come per il rilancio a livello internazionale dell’istituzione stessa. L’edizione del 1948 passa così alla storia per gli allestimenti di Carlo Scarpa, e in particolare per la sala degli acquerelli di Paul Klee. Nel 1956 vengono poi realizzati il padiglione giapponese, progettato da Takamasa Yoshizaka, e – come lo definisce Mulazzani – il piccolo scrigno di legno bianco e blu che ospita gli artisti finlandesi, disegnato da Alvar Aalto. Nel 1958 lo studio BBPR costruisce il padiglione del Canada e sono finalmente avviate le procedure che porteranno, nel 1962, alla realizzazione di un altro padiglione estremamente significativo, quello dei paesi nordici, uno dei più indimenticabili ed evocativi, assegnato all’architetto norvegese Sverre Fehn.
Nei padiglioni di quest’epoca emergono temi come la ricerca di relazioni tra lo spazio interno e i percorsi esterni all’edificio o lo studio di soluzioni reversibili che ne consentano lo smontaggio, a volte anche su indicazione della stessa Biennale (pensiamo al padiglione svizzero, giapponese, israeliano, canadese o finlandese). Viceversa, il tema dell’edificio espositivo moderno viene affrontato da Rietveld nel padiglione olandese e da Fehn nel padiglione dei paesi nordici, nel primo con un controsoffitto di brise-soleil che filtra la luce, nel secondo con uno spazio interno dalla massima flessibilità e costantemente illuminato in ogni sua parte. Più di ogni altro è però Scarpa, nel piccolo padiglione del libro d’arte (andato distrutto in un incendio nell’84) e nel padiglione del Venezuela, a mostrare come i vincoli si possano trasformare in occasioni, realizzando stupefacenti spazi espositivi al servizio delle opere d’arte e dei loro visitatori.
L’allestimento e l’architettura, dunque, accompagnano fin dalle origini le mostre della Biennale, dandone concretezza all’immagine e ai valori e contribuendo al suo successo. Tuttavia, l’Architettura in quanto tema espositivo entra ufficialmente nell’attività della Biennale solo negli anni Settanta, sia sotto forma di mostre di carattere storico, sia contemporaneo. È anche per questo che gli spazi della Biennale si espandono nelle Corderie dell’Arsenale, che assumeranno sempre più importanza. Inizia così una nuova fase, annunciata nel 1979 con la realizzazione del Teatro del Mondo di Aldo Rossi, ormeggiato alla Punta della Dogana, e caratterizzata dall’intensificazione delle manifestazioni e dall’espansione dei luoghi della Biennale. Al tempo stesso, le manifestazioni vengono ora accompagnate da installazioni e padiglioni che riflettono lo spirito originario delle costruzioni, ovvero il carattere di temporaneità: una su tutte la straordinaria Arca costruita da Renzo Piano nel 1984 nella chiesa di San Lorenzo per l’esecuzione del Prometeo di Luigi Nono, poi disassemblata e rimontata negli spazi delle fabbriche Ansaldo a Milano.
Paolo Baratta, chiamato a fare da presidente in un momento di profondo cambiamento dell’istituzione – ovvero nel 1998, quando fu introdotta una profonda riforma della Biennale che la trasformò da azienda del parastato in un soggetto pur sempre pubblico, sì, ma dotato della facoltà di operare come impresa, innestando così il diritto privato su organismi pubblici – scrive ne Il Giardino e l’Arsenale. Una storia della Biennale: “Una civiltà si evolve in base alle capacità dei singoli soggetti che la compongono, l’energia vitale di ciascuno fa l’energia vitale della società, e la sua cultura sta in gran parte nella qualità delle azioni che vi si compiono”. Secondo lui, in ultima analisi, il compito della Biennale è di tenere aperto, in mezzo al frastuono dei vari mezzi di comunicazione, aumentato a dismisura nell’ultimo ventennio, un varco per artisti e architetti, affinché possano conquistare l’attenzione del pubblico e istituire “un dialogo non distratto” in un clima di apertura e libertà, che alimenti il desiderio di ripetere questi incontri per arricchire il significato della nostra vita.
Come scriveva nel 1962 Rodolfo Pallucchini: “La Biennale è una grande istituzione sorta e voluta nell’Ottocento da una élite intellettuale progressista e lungimirante, sviluppata e ingrandita in questo secolo secondo quelle premesse ma anche tenendo conto delle variate condizioni storiche. Questa è la grande eredità che Venezia […] ha lasciato all’Italia. Non esiste altro Ente o Istituto al mondo che abbia mai realizzato fino ad oggi un panorama così vasto dell’arte mondiale”. E aveva ragione, la Biennale è diventata un’Istituzione unica al mondo, così com’è unico il luogo che tanto a lungo l’ha identificata, che ha assunto le fattezze dei pensieri e delle forze creative, immaginifiche e politiche che la attraversavano, e ha dato spazio a tutte per coesistere nella diversità. La Biennale, insomma, testimonia “una storia di permanenza nel continuo mutare”, come dice Mulazzani. Un fenomeno raro che ha trovato un terreno fertile in cui attecchire e che affida all’Architettura il suo più alto valore simbolico ed esistenziale, in una città che al di là del perimetro della manifestazione stessa è rimasta pressoché immutata, come un luogo onirico in cui è sempre possibile, almeno con la memoria, fare ritorno.
Per dirla in dialetto veneziano, con Selvatico: “Velada, paruca, / Capelo a rafiol / Xe morti e sepolti; / Ma gh’è el barcariol! // E fin che sta razza / De brazzi e polmoni, / De omeni tressi, / Sbragioni ma boni, // In fin che sta razza, / Ripeto, xe quela, / Venezia no cambia, / Venezia xe bela!”. La città la fanno le persone che la abitano, anzi, che la animano, che la popolano, e la sua – bella – forma non cambia finché educa i suoi cittadini alla curiosità, alla fantasia, al dubbio, esercitando la capacità di contenere esperienze estetiche e culturali diverse, curando alla bellezza data dalla pluralità. Anche per questo dovremmo salvare questa città dalla morsa del turismo di massa, che ne stritola sempre di più gli abitanti, ma questa è un’altra storia.
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