Se fossi uno scenografo americano che deve girare una scena ambientata in un generico ristorante italiano, la prima cosa che farei sarebbe procurarmi una stampa in bianco e nero di Alberto Sordi che mangia un piatto spaghetti, seduto al tavolo con addosso una maglietta della salute bianca. Non credo che esista un’iconografia da “Bella Italia” più diffusa, unanimemente riconosciuta e consolidata come la scena di Un americano a Roma in cui Sordi recita la celebre battuta del “Maccarone, m’hai provocato e io ti distruggo”. Più di Anita Ekberg nella fontana di Trevi che grida “Marcello, come here!”, più di Totò e Peppino, più di qualsiasi Pulcinella o Pinocchio, un italiano che mangia un piatto di pasta e che tratta un maccarone come fosse un avversario è forse la cosa più italiana e riconoscibile del mondo. Quell’immagine, quel momento decontestualizzato e riprodotto in infinite calamite, poster, carte da parati è, a tutti gli effetti, una statua, un monumento eretto involontariamente al modo di vivere e di approcciarsi al mondo degli italiani. Non che tutti noi nati in questa nazione ci comportiamo allo stesso modo, né siamo animati da uno spirito guida che ci indirizza nella nostra esistenza a suon di spaghetti e mandolino; ma il racconto, in particolare quello cinematografico, si nutre anche di stereotipi, luoghi comuni condivisi – anche nostro malgrado – che per quanto basati su percezioni non per forza oggettive alla fine in qualche modo ci azzeccano. Alberto Sordi, l’attore simbolo per eccellenza del cinema italiano dagli anni Cinquanta ai Settanta, a cento anni dalla sua nascita, il 15 giugno del 1920, è esattamente questo: un simbolo caricaturale, esagerato, grottesco alle volte e iperespressivo del nostro modo di essere, che per quanto riguarda molti aspetti, seppure sia passato molto tempo, non è affatto cambiato.
Nel 1920, quando nasceva Alberto Sordi a Trastevere, il famoso quartiere capitolino oggi parco divertimenti per studenti americani, l’Italia usciva dalla prima guerra mondiale, viveva il Biennio rosso e si apprestava a dare vita a una delle dittature più celebri del Novecento. Cento anni dopo, ci troviamo nell’anno in cui gli italiani fanno da apripista, per così dire, di una pandemia globale, con una conseguente crisi economica probabilmente senza precedenti, un’instabilità politica da grande tradizione Made in Italy e un ex comandante dei Carabinieri che vuole fare una rivoluzione e costruire un ponte tra Sicilia e Tunisia. In un secolo di storia sono successe veramente molte cose, o forse, a differenza di quelli precedenti, abbiamo avuto molti più mezzi per immortalarle e tramandarle.
Al sesto mese del 2020, dopo le manifestazioni americane del movimento Black Lives Matter, anche in Italia si è cominciato a parlare dei simboli del nostro passato, risollevando una polemica che non ha mai cessato di esistere, ossia quella su Indro Montanelli e la statua che lo raffigura. Trovo che in questa atmosfera da fine di un’era, quella che precede il coronavirus – è forse il colpo di coda del Ventesimo secolo? – sia piuttosto emblematico che un personaggio come Montanelli sia tornato a galla con tutto il fagotto di polemiche e celebrazioni che lo accompagnano. Perché il dibattito sui simboli di una storia collettiva, sui valori che incarnano e sulle immagini che danno di sé – nel caso di Montanelli: il giornalista scomodo, scorbutico e paladino della libertà – non è per nulla semplice e soprattutto non si estingue con il trascorrere del tempo.
Alberto Sordi, nel suo essere così rappresentativo di una serie di caratteristiche italiche che sono evidenti a tutti, ma non per questo condivise, è stato anche lui oggetto di una polemica simile, anche se dai toni estremamente meno concitati. Quando nel 1978 Nanni Moretti – allora regista emergente che aveva lanciato una bomba a mano nella palude cinematografica italiana che aveva seguito gli anni d’oro della commedia – ospite alla trasmissione di Arbasino Match, tratta Mario Monicelli con sufficienza, spavalderia ed estrema arroganza, accusandolo di essere parte di un sistema vecchio e asfissiante, altro non sta facendo se non sviluppare in chiave televisiva il suo Michele Apicella, il suo piede di porco atto ad aprire con forza una realtà che non è più attuale. Lo stesso personaggio che in Ecce Bombo – film che ora è diventato un cult generazionale e che, paradossalmente, è diventato simbolo e “istituzione” – dice una delle tante celeberrime battute del film, quella che però a detta di Moretti faceva calare il gelo in sala. “Rossi o neri siamo tutti uguali, e che siamo in un film di Alberto Sordi? Ve lo meritate Alberto Sordi”, è l’equivalente cinematografico di una secchiata di vernice su una statua, uno smacco a un simbolo obsoleto, pregno di valori non più attuali e incompatibile con il futuro. La differenza però è che sebbene esistano simboli culturali italiani che hanno un’evidente discrepanza ideologica con il presente – come appunto Montanelli in tante delle sue manifestazioni pubbliche e multiformi di razzismo – altri invece, che sono stati abbattuti in un determinato momento storico, è anche giusto e onesto riscoprirli e celebrarli, con una distanza che ci consenta di apprezzarne il valore. In altre parole, se per un ventiquattrenne cineasta cresciuto con il mito asfissiante di una classe di attori, registi e sceneggiatori era più che lecito sbarazzarsi anche in modo violento delle icone di quel tempo; per un ventenne di oggi non conoscere quel pezzo della nostra storia cinematografica è una perdita enorme.
Alberto Sordi, infatti, è stato il protagonista per eccellenza di una stagione cinematografica che sebbene sia stata spesso confinata agli stessi quattro nomi – quelli dei “mattatori”, per quanto riguarda gli attori – ha dato vita a un pezzo importante della nostra recente cultura, una parentesi talmente prolifica e stratificata che per conoscerla in modo approfondito servirebbero anni di studio. Sordi da solo ha girato più di duecento film, ha doppiato, ha lavorato alla radio – dove è stato notato da Vittorio De Sica per i suoi personaggi parodia dei giovani cattolici, “I compagnucci della parrocchietta” – e alla televisione, con Mina. “Albertone Nazionale” è, a tutti gli effetti, un monumento che oggi possiamo contemplare per comprendere la storia che ci ha preceduti, una storia che, a livello culturale, in quel periodo ha goduto di un enorme impatto e fertilità. Sordi è l’interprete per eccellenza del carattere medio e tragicomico del “Paese di musichette mentre fuori c’è la morte”, come dice uno degli sceneggiatori di Boris, altro simbolo del peggio – e quindi paradossalmente anche del meglio – dello spirito all’italiana. E infatti, anche un intellettuale come Pasolini, osservatore per eccellenza del nostro modo di essere tutti parte di un unico grande paradosso, confinava il piacere nella risata per Sordi – una risata dettata dal suo infantilismo, dal suo qualunquismo, proprio quello che sottolineava Moretti con il suo “Rossi e neri siamo tutti uguali” – a un fenomeno locale: solo noi italiani possiamo sederci davanti allo specchio di quella rappresentazione piccolo borghese e cattolica, e probabilmente aveva anche ragione. Ma è proprio in questo riflesso in cui tutti e tutte, in modo diverso e a distanza di anni, possiamo riconoscerci che lo rende così importante.
Il Nando Moriconi dell’Americano a Roma, lo stesso dei poster che tappezzano i ristoranti, è solo uno dei tantissimi personaggi iconici che ha interpretato Sordi. Con Federico Fellini, suo grande amico, per esempio, ha interpretato prima il protagonista de Lo sceicco bianco, una pellicola che non ebbe molta fortuna ma che venne omaggiata anche da Woody Allen in To Rome with Love, e poi il celebre Alberto dei Vitelloni e del gesto dell’ombrello ai lavoratori, un momento di cinema che oggi potremmo definire un meme. Perché, in effetti, Sordi è un po’ un meme prima dei meme: un’immagine riproducibile e adattabile a diversi contesti grazie alla sua plasticità espressiva. Ma Sordi, volto pittoresco, mascalzone e impunito – Guglielmo “il Dentone” de I Complessi, il Marchese del Grillo sfacciato e volgare, un “mostro” de I nuovi mostri di Risi, Scola e Monicelli o l’ignorante cialtrone incapace di comprendere l’arte di Le vacanze intelligenti – esprimeva forse il meglio della sua abilità quando poteva rappresentare non soltanto la classica comicità all’italiana, bonaria e scanzonata, ma quando a questa atmosfera aggiungeva un retroscena di tristezza e miseria – appunto, quel contrasto tra le “musichette” e la realtà. Per esempio, Sordi, accanto a Monica Vitti, è perfettamente comico ma al contempo pregno di una tristezza cupa, amara: quando la prende a schiaffi in Amore mio aiutami, quando la trova con l’americano giovane in Polvere di stelle, fino poi a tornare insieme con la coda tra le gambe, falliti e sputati via dal successo effimero e temporaneo; e ancora, sempre con Vitti, nel dramma di una figlia tossicodipendente in Io so che tu sai che io so.
Sordi di Il boom, diretto da De Sica e scritto da Zavattini, che da piccolo imprenditore è disposto persino a vendere un occhio, letteralmente, per avanzare di carriera; Sordi in Un borghese piccolo piccolo di Monicelli, che si umilia di fronte al potere pur di trovare un posto al ministero per il figlio mediocre, un favoritismo che lo porta poi alla morte violenta. Ma anche il Sordi di Scopone scientifico, di Luigi Comencini, che da stracciarolo che vive nelle baracche, insieme alla moglie – Silvana Mangano – prova a cambiare la sua vita giocando a carte con una nobile annoiata, incapace di comprenderne la povertà. E poi, il Sordi che incarna l’essenza del sistema sanitario italiano e del suo clientelismo di Il medico della mutua, di Luigi Zampa, quello di Una vita difficile, di Dino Risi, che raffigura il compromesso politico di un comunista fedele alle sue idee, ma non per questo incorruttibile dal consumismo degli anni Sessanta; quello di Nanni Loy in Detenuto in attesa di giudizio, kafkianamente accusato di un crimine che non aveva commesso, forse uno dei ruoli più drammatici che ha interpretato.
Così come a una statua o a un monumento, l’interpretazione che possiamo dare ai personaggi che hanno contribuito alla nostra produzione culturale e a ciò che rappresentano cambia, è inevitabile e giusto che sia così. Alberto Sordi, da un certo momento in poi – che forse potremmo individuare con Il tassinaro – è diventato un simbolo incompatibile col presente che viveva: stanco, ripetitivo, parodistico. Non era più la caricatura brillante dell’italiano medio ma lo scimmiottamento di quello stesso personaggio che lui aveva inventato, una parabola che rappresenta molto bene, anche in questo caso, un tratto del nostro Paese: ossia l’incapacità di capire quando mettere la parola fine a un fenomeno che si è concluso, come quello della commedia all’italiana. Ma per quanto Sordi alla fine della sua carriera possa essere diventato stucchevole e ripiegato su un ruolo ormai trito, dobbiamo essere grati non solo alla sua carriera incredibile e a quello che ci ha lasciato da un punto di vista cinematografico, ma anche a chi lo ha criticato, a chi ne ha percepito il fastidio, a chi ha visto in quel riflesso dell’italiano medio tutta l’ipocrisia sgradevole, democristiana, piccolo borghese e sfacciata del nostro Paese; e forse oggi, a distanza di anni, possiamo rispondere a Moretti che in realtà no, non ce lo meritiamo proprio un attore come Alberto Sordi.