Si continua a parlare di Groenlandia da quando il neo-presidente degli Stati Uniti Trump ha ricominciato a dire che gli USA se la prenderanno, comprandola o anche ottenendola dalla Danimarca (di cui è un territorio dotato di autonomia), con la coercizione economica o addirittura con un intervento militare. Trump ostenta tutta la sua imperialistica sicurezza, anche se è probabile che non se ne farà niente e che le minacce siano solo un tentativo di fare pressione per ottenere altro, magari un rafforzamento delle infrastrutture militari, dato che, grazie a un accordo del 1951, gli USA, informando il governo locale e quello danese, possono costruire in Groenlandia basi militari e muovere soldati e mezzi. L’importanza strategica ed economica della grande isola nel Nord Atlantico non è da sottovalutare e, non a caso, la storia dei tentativi americani di accaparrarsela è lunga, come dimostra la proposta di acquisto per 100 milioni di dollari risalente al 1946; la Danimarca rifiutò, ma questo non impedì agli americani di rafforzare la propria influenza, per esempio rendendo permanente la base aerea di Thule, nel nord-ovest groenlandese. Forse lo scenario che si prospetta ora non è poi tanto diverso, ma quel che è certo è che la Groenlandia, strattonata da una parte all’altra, si trova tuttora vittima di atteggiamenti di stampo colonialista.
La Groenlandia è una terra inospitale – anche se il riscaldamento globale la sta rendendo sempre più verde e l’apertura del nuovo aeroporto internazionale potrebbe potenziarne il turismo – ma anche ricca di risorse; qui si trovano, infatti, riserve di materie prime critiche fondamentali per la fabbricazione di microchip e per la produzione di batterie e giacimenti offshore di gas e petrolio, oltre a mari molto pescosi. Avere il controllo della Groenlandia e delle sue risorse, quindi, significa svincolarsi dalla dipendenza dalla Cina, in una fase in cui lo scioglimento dei ghiacci rende anche più facile estrarre i metalli. I temi dello sfruttamento e della contaminazione sono molto sentiti dagli abitanti della Groenlandia – poco più di 50mila persone, di cui circa 88% di etnia inuit – che sentono uno stretto legame con l’ambiente. Storicamente, però, le potenze coinvolte hanno dato loro poco ascolto e, anzi, spesso non si sono nemmeno prese il disturbo di informarle di ciò che avveniva a casa loro, come quando un B-52 americano si schiantò nel gennaio 1968, disperdendo quattro bombe all’idrogeno; una non fu mai ritrovata e solo negli anni Novanta, a seguito delle indagini su quell’evento, si scoprì l’esistenza di un progetto segreto per realizzare un sito di lancio di missili nucleari.
Il territorio groenlandese, cioè, e persino i suoi abitanti sono considerati come risorse da sfruttare con poca o nessuna voce in capitolo: è un atteggiamento tipicamente colonialista che oggi segna un nuovo capitolo di una lunga storia di dominazione. Che cominciò già all’arrivo del missionario Hans Egede nel 1721 in Groenlandia con l’obiettivo di “riconquistarla”, segnando l’inizio vero e proprio della colonizzazione dell’isola; così il protestantesimo cristiano si impose sulle locali credenze sciamaniche e trent’anni dopo il Regno di Danimarca – nel frattempo separatosi da quello di Norvegia – rivendicò ufficialmente l’isola come colonia, status mantenuto fino al secondo dopoguerra. Allora, la Danimarca – che mantiene l’immagine di “colonizzatore benevolo”, quasi come noi italiani brava gente – facendo leva sulla discutibile argomentazione di non avere trattato brutalmente la Groenlandia come altre potenze europee avevano fatto con le proprie colonie in Africa e Asia, e sul ruolo di cuscinetto tra USA e URSS durante la Guerra Fredda, riuscì a far modificare lo status dell’isola all’ONU mantenendovi la propria presenza, pur senza avviare una vera e propria decolonizzazione.
Avviò, invece, un piano di modernizzazione – all’epoca si esportava la modernità, esportare la democrazia sarebbe andato di moda più tardi – che aprì la strada a cambiamenti radicali sul modello socio-culturale europeo, che non solo non tennero conto delle specificità locali, ma mirarono a cancellarle; fu così instaurato un nuovo sistema scolastico, ristrutturato il governo nazionale e implementata l’industria del merluzzo. E siccome la comunità internazionale non riteneva problematica l’integrazione di un territorio nella madrepatria, fu in quella direzione che si mosse la Danimarca con la revisione della propria costituzione – approvata nel 1953 senza interpellare l’elettorato groenlandese – con cui “assorbì” i territori di Groenlandia e Isole Faroe. Intanto, il passaggio violento da una vita basata sulla caccia di sussistenza e sul rapporto con la natura al lavoro salariato fu accompagnata da un aumento di disagio socio-economico, traumi identitari, alcolismo e suicidi, con tassi di incidenza ancora oggi sproporzionatamente alti; i groenlandesi, infatti, furono fatti trasferire nelle città per costruire strade, scuole e infrastrutture, in un processo di urbanizzazione che cambiò il volto dei centri abitati; allo stesso tempo, molti danesi andarono a lavorare in Groenlandia con paghe più alte rispetto ai locali e arrivando a occupare molti dei posti di comando, instaurando una gerarchia sociale di fatto razzista, mentre il danese diventava lingua ufficiale.
Gli studenti più brillanti iniziarono a essere mandati in famiglie affidatarie in Danimarca per essere assimilati allo stile di vita danese, anche attraverso gli esperimenti sociali dei “piccoli danesi”, bambini inuit allontanati dalle loro famiglie d’origine, per i quali qualche anno fa il Regno di Danimarca ha chiesto scusa, con un’azione necessaria ma che non cancella le ferite provocate nella psiche e nell’identità dei singoli e nella cultura e nel tessuto sociale della nazione. Anche perché la situazione non è cambiata molto da allora, tanto che è solo di pochi giorni fa – interpretabile forse come un tentativo danese di migliorare i rapporti con la Groenlandia, per allontanare il rischio di vedersela strappare dagli USA – la notizia dello stop ai test psicometrici per la valutazione delle competenze genitoriali. Si tratta di test psicologici, in danese noti con la sigla FKU, a cui sono sottoposte famiglie seguite dagli assistenti sociali e i genitori appartenenti alle minoranze, per determinare se siano in grado di prendersi cura dei figli; questo sarebbe già di per sé problematico, ma per di più i test si basano su presupposti culturali danesi e sono formulati in danese – che per gran parte degli inuit è una seconda lingua –, senza tenere conto delle specificità culturali delle persone che li eseguono, tanto che diversi studi ne hanno dimostrato i bias culturali e la natura discriminatoria; non a caso sono sproporzionate le percentuali di risultati sotto la media tra persone indigene, come tra gli inuit in Canada e gli aborigeni in Australia. Così, ancora pochi mesi fa a una donna groenlandese in Danimarca hanno portato via il figlio appena nato per effetto del suo risultato ai test FKU. Si calcola che circa il 7% dei bambini inuit nati in Danimarca vengano portati via alle loro famiglie – sono circa il 5% se uno dei due genitori è danese, contro l’1% dei bambini nati da due genitori danesi – e spesso vengono trasferiti in istituti in cui sono cresciuti come danesi, perdendo così la loro cultura di origine. Tra le altre pratiche razziste, poi, c’è stato il controllo forzato delle nascite nella popolazione inuit. Tra gli anni Sessanta e Settanta, migliaia di donne e ragazze – anche appena adolescenti – inuit hanno avuta inserita la spirale contraccettiva intrauterina contro il loro consenso e/o senza adeguata informazione e talvolta senza nemmeno saperlo, durante controlli medici o operazioni di routine; si ritiene che negli anni Sessanta siano state coinvolte circa la metà delle donne inuit in età fertile, ma la pratica è stata portata avanti, con minore frequenza, fino al 1991, l’anno in cui la Groenlandia ha ottenuto il controllo della propria sanità.
Solo in questi ultimi anni si è iniziato a discutere pubblicamente di questi temi e in Danimarca è ancora diffusa una grande ignoranza non solo sulla cultura groenlandese, ma anche sulla vera natura dei rapporti con la Groenlandia, che, sebbene abbia status di territorio autonomo – con un’autonomia conquistata man mano, soprattutto dall’istituzione del parlamento locale nel 1979 in poi – fa ancora parte del Regno. Oggi molti groenlandesi vogliono l’indipendenza, ma c’è anche chi teme – insieme alla crisi dell’economia, di cui oggi il 60% dipende dalla Danimarca – che, con essa, il Paese finirebbe facilmente vittima di potenze straniere. Dal 2009 l’isola ha una legge sull’autogoverno, che stabilisce la procedura da seguire per raggiungere, in futuro, l’indipendenza, per la quale gli attivisti si battono. Mentre il re danese Frederik X da poco ha fatto modificare lo stemma reale ingrandendo i simboli di Groenlandia e Isole Faroe – rispettivamente orso polare e ariete – il primo ministro groenlandese Múte Egede, dopo aver ribadito più volte il diritto all’autodeterminazione, ha annunciato di voler convocare un referendum per la piena indipendenza entro il 6 aprile. Dell’isola, a prescindere da come andrà con Trump, si parlerà presumibilmente sempre di più nei prossimi anni, perché, con lo scioglimento dei ghiacci, è forse il luogo in cui più al mondo si intrecciano crisi climatica e tensioni geopolitiche; non sappiamo quale sarà il suo destino, ma di certo è simbolo delle spinte colonialiste che nel 2025 ancora non abbiamo archiviato: già solo questo dovrebbe farci riflettere.