La transizione ecologica va accelerata ma non può avvenire nel solco del colonialismo - THE VISION

A febbraio è stato presentato il quarto Rapporto Ambiente Snpa (Sistema Nazionale per la Protezione dell’Ambiente), un’analisi in 21 punti sullo stato dell’ambiente in Italia, secondo cui stiamo migliorando rispetto ad alcuni indicatori ambientali come raccolta differenziata, qualità dell’aria – ebbene sì: mentre lo leggevo mi è andato di traverso il cappuccino d’avena, pensando allo stato disastroso di molte nostre città – e produzione di energia rinnovabile. Nonostante sia ancora molto lontano l’obiettivo europeo di raggiungere entro il 2030 (praticamente dopodomani) il 70% dell’energia prodotta da rinnovabili, nel 2023 le emissioni legate al comparto energetico sono state contenute proprio grazie a solare, eolico e nucleare. Questi, uniti alla mobilità sostenibile, sembrano i mezzi principali per risparmiarci il peggio. Almeno a noi, in Europa, perché grattando la superficie verde, questa transizione non è poi così tanto ecologica, dato che avviene anche a scapito – ancora una volta – di chi già per secoli ha subito le nostre prevaricazioni: i cosiddetti Paesi del Sud globale.

Le più forti economie al mondo, infatti, mentre annunciano i propri progressi nella lotta alla crisi climatica fingono di non sapere che quando si parla di ambiente, tanto più in un mondo interconnesso come quello di oggi, non possiamo gioire di due api che tornano sul nostro balconcino, se nel resto del Pianeta gli insetti stanno letteralmente scomparendo. La transizione ecologica a partire dal suo ingrediente principale, cioè la transizione energetica che portiamo avanti in Europa è possibile anche grazie allo sfruttamento di aree del mondo in cui applichiamo un meccanismo pericolosamente simile al più classico colonialismo. La stessa storia va avanti almeno dal XVI secolo: da quando, cioè, le potenze europee iniziarono ad arricchirsi tramite quello che lo storico Alfred Crosby ha definito imperialismo ecologico, ai danni dei territori colonizzati, con l’imposizione di modelli agricoli nuovi e impattanti e colture remunerative e dannose come tè, canna da zucchero, cacao, cotone e gomma, per poi dare il colpo finale ai suoli con un uso massiccio di fertilizzanti, mentre le popolazioni locali venivano prima schiavizzate e poi mantenute in condizioni di dipendenza economica e culturale i cui strascichi non possono dirsi mai del tutto superati. Oggi, le risorse al centro di questo sistema di sfruttamento sono cambiate e riguardano innanzitutto i minerali e i metalli essenziali per le tecnologie legate alla mobilità sostenibile e alla produzione di energia rinnovabile, ma la logica resta simile.

Da sempre, al centro delle politiche espansionistiche e ai progetti imperialistici che si sono manifestati nel corso della Storia moderna, infatti, c’è la produzione energetica, che oggi mentre diminuisce il peso del carbone – per la produzione di batterie e infrastrutture necessita di materie prime come nichel, cobalto e litio, reperite in Paesi in cui il costo della manodopera è basso e le norme sulla tutela ambientale meno restrittive, per usare un eufemismo. Il coltan, per esempio, essenziale nell’industria elettronica perché permette di ottimizzare il consumo di corrente elettrica nei chip, oltre che in Venezuela si trova per lo più in Repubblica Democratica del Congo, un Paese in cui la democrazia è presente quasi esclusivamente nel nome e dove questo minerale è al centro di contese violente tra milizie contrapposte; l’estrazione è infatti scarsamente regolamentata e abbonda il lavoro forzato e minorile, con gravi conseguenze per la salute di cuore, sangue, pelle e cervello, con difetti genetici e aumentato rischio di cancro; il tutto a fronte di salari da 1 o 2 euro l’ora. L’estrazione di nichel, impiegato nella fabbricazione di turbine eoliche e pannelli solari e reperito soprattutto in Indonesia, richiede invece ampie superfici, ricavate deforestando, oltre a grandi quantità di acqua e carbone. L’estrazione di litio, poi, nel cosiddetto “triangolo del litio” costituito da Cile, Argentina e Bolivia a cui si aggiunge il Perù è triplicata dal 2018 a oggi e la sua esportazione verso i Paesi produttori di auto elettriche e batterie diventerà presto il principale prodotto di esportazione della regione sudamericana, arrivando all’80% delle vendite verso l’estero entro il 2040. La sua estrazione danneggia però gli ecosistemi delle zone umide, dove si trovano le miniere, che causano anche aumenti della salinità delle acque e un inaridimento del territorio, problematici per tutte le specie che abitano quelle aree, dai fenicotteri agli esseri umani, costretti ad andarse per continuare le loro attività.

Per rendere equa la filiera di questi minerali cruciali, quindi, servono maggiori regolamentazioni, accordi internazionali e una vigilanza che garantisca il rispetto dei diritti dei lavoratori. Per evitare che la corsa alle materie critiche comporti il degrado ambientale per i territori che ne sono ricchi, poi, bisogna rendere più sostenibile la filiera di approvvigionamento, magari attraverso il riciclo. Gli studi sono promettenti: lo scorso anno, per esempio, i ricercatori del Karlsruhe Institute of Technology sono riusciti a recuperare fino al 70% del litio dagli accumulatori elettrici esausti senza usare prodotti chimici inquinanti e senza sprecare energia. Se questo metodo risultasse scalabile, si tratterebbe di una doppia vittoria: da un lato il recupero dei rifiuti elettronici ne eviterebbe lo smaltimento errato e, peggio, la dispersione nell’ambiente e, dall’altro, si otterrebbe un minerale prezioso per la transizione senza tutte le problematiche che al momento vi sono connesse.

Non ci limitiamo, però, soltanto a prendere, sfruttando quel che possiamo delle risorse locali: lasciamo anche qualcosa, in particolare rifiuti, a partire da quelli plastici, il cui commercio globale – che tra il 1988 e il 2021 ha coinvolto 250mila milioni di tonnellate di rifiuti plastici – consente (almeno in parte) ai Paesi ad alto reddito (e ad alto consumo) di evitarne le conseguenze dirette a casa loro e di ripulirsi l’immagine, mentre continuano a produrre plastica vergine. Un fenomeno analogo riguarda i rifiuti elettronici, accolti per un insieme di ragioni, dalla corruzione dei governi alle deboli politiche ambientali, passando per il sottobosco di un’economia informale grazie a cui famiglie poverissime mettono in tavola un pasto rivendendo il recuperabile dalle discariche, da Paesi come India, Pakistan, Vietnam, Filippine e Ghana, cui approdano arrivando soprattutto da Stati Uniti e Gran Bretagna.

Come conseguenza peggiorano ulteriormente i rischi sulla salute delle persone, che già i Paesi meno industrializzati subiscono per la crisi climatica e le sue ricadute economiche, compresa la maggior parte di quei 2.800 miliardi di dollari in perdite e danni provocati dalla crisi climatica tra il 2000 e il 2019. Basti pensare che otto dei dieci Paesi più colpiti da fenomeni meteorologici come siccità, alluvioni e desertificazione sono africani e le loro popolazioni sono colpite dalla povertà energetica, mentre i tassi di consumo energetico dei Paesi ricchi superano di gran lunga il fabbisogno necessario al soddisfacimento dei bisogni umani. A questo punto è evidente che una transizione equa richieda di ridurre i consumi in termini di energia nei Paesi più ricchi, per ottenere rapidi abbattimenti delle emissioni, garantendo al contempo al resto del mondo energia sufficiente per il proprio benessere.

Già uno uno studio del 2022 dei ricercatori dell’Istituto di Scienza e Tecnologia Ambientale dell’Università Autonoma di Barcellona evidenziava che gli attuali piani di mitigazione climatica – spesso fondati su sistemi a emissioni negative basati, per esempio, sulla cosiddetta bioenergia, come la biomassa – producono diseguaglianze ancora di stampo coloniale, mantenendo in vita il privilegio energetico del Nord globale. Basti pensare ai progetti – oggi ritenuti per lo più inefficaci, quando non completamente inutili – di compensazione delle emissioni con cui le aziende occidentali si lavano la coscienza finanziando iniziative di riforestazione nei Paesi in via di sviluppo, spesso sottraendo le aree individuate alla gestione tradizionale, per lo più sostenibile, dei popoli indigeni; si tratta di operazioni soprattutto d’immagine, che non riducono all’origine le emissioni prodotte.

Più di recente, alla Cop28 (proprio quella a cui hanno partecipato 600 esponenti del settore del fossile pronti a riconvertirsi, almeno all’apparenza, a forme più verdi di energia tramite accordi in Africa, in Sudamerica e nel Sudest asiatico) la creazione del Fondo Loss and Damage – per compensare, almeno in parte, i Paesi del Sud globale di quanto hanno subito per effetto dei cambiamenti climatici – è stata salutata come un importante passo avanti verso la giustizia ambientale. Solo che rischia di essere un’operazione di facciata, oltre che insufficiente, se non viene accompagnata da altre misure di sostegno e coraggiose azioni di mitigazione climatica. Attualmente, infatti, i flussi finanziari internazionali per l’adattamento ai Paesi in via di sviluppo sono 5-10 volte inferiori alle necessità stimate e il Fondo stesso è sotto finanziato, considerando che il fabbisogno annuale per l’adattamento è stimato a circa 160-340 miliardi di dollari da qui al 2030 e 315-565 miliardi di dollari fino al 2050.

Al momento, quindi, l’azione globale per la transizione ecologica non sembra in grado di garantire la giustizia sociale, senza la quale parafrasando il noto adagio l’ambientalismo è solo giardinaggio. Lo schema della transizione, infatti, non mette in dubbio il modello economico estrattivo dominante, che continua a essere fondato sullo sfruttamento e sul concetto di crescita, già dimostratosi fallato, se non proprio fallimentare: e a farne le spese è ancora il Sud globale. A cambiare, forse, dovrebbe essere quello stesso paradigma che considera l’industrializzazione e la crescita economica come gli unici e i soli metri di misurazione del benessere di una nazione, in cui l’automobile continua a essere l’irrinunciabile mezzo del progresso, del quale non possiamo ancora fare a meno, di fronte a reti di trasporto pubblico non all’altezza delle necessità reali e di infrastrutture per la micromobilità carenti e, quindi, non sicure. Per attuare la transizione ecologica bisogna ridurre rapidamente le emissioni attraverso un insieme sistematico di misure capillari, non procedendo per escamotage che non fanno altro che impattare su chi già da secoli subisce.

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