Uno degli ostacoli più difficili da superare durante gli anni della scuola è rappresentato dall’impatto che i rapporti con i compagni hanno su di noi. Tentare di inserirsi in un gruppo sociale che non coincide con quello formato dai nostri parenti, infatti, è un passaggio fondamentale della crescita individuale, perché costituisce una palestra utile ad allenare la nostra capacità di stringere nuovi legami, di prendere le misure nelle relazioni con gli altri e di costruire la nostra personalità, anche in base all’immagine di noi che ci viene restituita dalla stima o dal biasimo di chi ci circonda.
C’è un ricordo che probabilmente chiunque ha nella sua memoria legato agli anni dell’infanzia e dell’adolescenza che appare molto efficace nel rappresentare le dinamiche di inserimento e collocazione in un gruppo – con tutte le difficoltà che questo processo comporta: la sfida simbolica che decideva l’importanza di ognuno all’interno della classe messa in scena durante ogni lezione di Educazione fisica, nel momento tanto atteso del gioco a squadre di fine ora. L’elezione dei capitani e la successiva formazione delle due squadre avversarie, infatti, rivelava con sorprendente chiarezza tutte le tensioni, le rivalità o le affinità che caratterizzavano l’equilibrio del nostro piccolo nucleo sociale.
Pur essendo apparentemente un fatto da niente, l’episodio della formazione delle squadre imprimeva in chi rimaneva confinato tra le ultime opzioni, finendo per essere accettato dall’una o dall’altra parte in gioco solo per mancanza di alternative e non per reale convinzione, un forte sentimento di vergogna, lo stesso che si sperimenta quando ci si sente etichettati come gli esclusi, i deboli, gli sbagliati del gruppo, dunque i meno degni di essere scelti: uno stato d’animo che nella società attuale sta diventando sempre più diffuso, causa degli effetti negativi su una porzione consistente della popolazione – soprattutto sui giovani – e che spesso sfocia in una grave compromissione della salute mentale.
La nostra società tende a considerarsi audace, irriverente, libera da limiti opprimenti, ed è sicuramente abile nel dar vita a un “mercato dell’intimità” – per usare le parole del filosofo Umberto Galimberti – dove non esistono segreti. Ma guardando all’intreccio di relazioni in cui siamo immersi, diventa evidente quanto la vergogna determini ancora in maniera sostanziale il nostro modo di rapportarci agli altri, oggi come in passato. Negli anni recenti, infatti, la vergogna non è sparita dalla vita collettiva, è semplicemente stata fraintesa, perché abbiamo dimenticato la sua fondamentale funzione di regolatore sociale condiviso fra i membri di un gruppo, concentrandoci soltanto sui suoi esiti negativi, come il senso di inadeguatezza ed emarginazione che essa provoca.
Anche se viene spesso percepita come sentimento di esclusione, infatti, secondo l’approccio psico-evoluzionista la vergogna si svilupperebbe proprio per garantire la permanenza di un individuo all’interno del suo contesto sociale di riferimento, perché attivandosi suscita una sensazione spiacevole – quella di essere nudi, trasparenti, vulnerabili di fronte a chi ci giudica in modo negativo – che concorre a limitare i nostri comportamenti sbagliati. Come sostiene l’autrice e sociologa Gabriella Turnaturi nel suo libro del 2008 Vergogna. Metamorfosi di un’emozione, è proprio nell’accrescere la consapevolezza dei nostri limiti che questo sentimento ci spinge a rinsaldare i legami con la società e con il mondo, perché ci insegna a stare con gli altri indicandoci cosa si può e non si può fare in una determinata situazione. Intervenendo sul nostro modo di agire – e non attaccando il nostro modo di essere, come tendiamo erroneamente a pensare – la vergogna costringe ognuno di noi a prendersi le responsabilità di ciò che fa, prevenendo la frammentazione sociale e il moltiplicarsi dei conflitti.
Quando il filosofo francese Jean-Paul Sartre, nel suo libro del 1943 L’essere e il nulla, descrisse l’esperienza di degradazione che l’individuo prova quando, intento a sbirciare di nascosto, dunque senza alcun diritto, dal buco di una serratura, si accorge di essere stato visto da un altro che può giudicarlo sulla base di ciò che ha appena osservato, si riferiva proprio al meccanismo di limitazione che la vergogna mette in atto. La cosiddetta “teoria dello sguardo”, come fu chiamato questo particolare aspetto della riflessione di Sartre, infatti, spiega come l’irruzione del giudizio dell’altro rappresenti un urto per la nostra soggettività, imponendoci una condizione di subordinazione che ci toglie una parte dell’autorità che abbiamo su noi stessi, nel momento in cui diventiamo oggetto dell’opinione altrui. L’impossibilità di modificare direttamente e secondo la nostra volontà l’idea che una persona si è fatta di noi, positiva o negativa che sia, ci fa rendere conto della limitatezza del nostro potere, mettendoci di fronte alla consapevolezza che la nostra collocazione in società potrà dipendere soltanto da un impegno attivo indirizzato a comportamenti corretti, che portino le persone a fidarsi, a stimarci e a decidere di stringersi in un legame con noi. Le opinioni sul nostro conto, in sostanza, non sono conseguenza diretta della nostra volontà di piacere agli altri, né possono essere manipolate secondo i nostri bisogni egoistici, ma sono qualcosa che va costruito nel tempo, attraverso i comportamenti che teniamo nei confronti di chi ci circonda.
L’attuale tentativo di allontanare la vergogna dai rapporti che intratteniamo con gli altri deriva dalla nostra propensione a eliminare o ignorare tutti i sentimenti e i pensieri che ci mettono in crisi. Per paura di non saper gestire la vergogna, ci siamo nascosti dietro alla falsa narrazione della sua scomparsa, interpretando la rimozione di questo sentimento come una forma di emancipazione dal bigottismo e dalla restrittività tipici di visioni ormai vecchie, figlie di un passato che vorremmo non ci appartenesse più. La liberazione dalla vergogna che riteniamo di aver portato a compimento nel nostro presente, dunque, riguarda tutti i vincoli fondati sull’ossessione – ritenuta ormai obsoleta – per la dimensione privata, a cui sono riconducibili il tema del corpo, dell’istinto e del piacere, ma anche la possibilità di provare ed esternare un’emozione particolarmente violenta o di ammettere una condotta poco corretta. La nostra cultura, infatti, ha sempre ritenuto che determinate tematiche e riflessioni costituissero il fulcro dell’identità di ognuno di noi, rappresentandole, per questo motivo, come il contenuto di uno scrigno da proteggere a tutti i costi. In questo senso, non si può eliminare la vergogna senza prima sbarazzarsi del concetto di privato, ovvero di quell’insieme di dettagli che non siamo disposti a sottoporre al giudizio degli altri, se non in rari casi, perché una risposta negativa da parte loro ci metterebbe di fronte a un rifiuto radicale, una critica profonda di ciò che siamo.
È innegabile che oggi, sia in atto un processo di riassestamento valoriale che ha ridimensionato il valore del “privato”, estinguendo per certi aspetti il retaggio culturale del cattolicesimo, ma al tempo stesso anche il bagaglio di condizionamenti legati alla rispettabilità di classe – che la borghesia ha copiato dall’aristocrazia nel corso della sua ascesa, così da sentirsi più vicina alle fortunate discendenze dal “sangue blu” e rendendo il perbenismo un requisito essenziale per farsi accettare all’interno di una comunità. Il punto, però, è che questo non ha alleggerito in alcun modo la nostra percezione della vergogna. Al contrario, da quando a questo sentimento non viene più riconosciuta la sua funzione sociale (che pure resta presente), è diventato più acuto negli effetti e in un certo senso più doloroso, proprio perché totalmente privato, indirizzato esclusivamente a ciò che ci rappresenta a livello intimo. Il tentativo di allontanare la vergogna, infatti, ci si è ritorto contro, come testimonia l’aumento esponenziale dei casi di giovani che arrivano a sviluppare comportamenti autolesionisti o si suicidano per un risultato mancato o per il sentimento di odio e frustrazione che provano verso sé stessi, perché incapaci di conviverci.
I motivi che spingono a compiere questi gesti estremi sono molto diversi fra loro – sentirsi esclusi dal proprio gruppo di amici, mentire ai genitori sulla propria carriera universitaria, subire l’ingiustizia delle discriminazioni – ma sono tutti accomunati dalla declinazione “privata” della vergogna, che porta un individuo a riconoscere in una o più caratteristiche negative inerenti la propria personalità un motivo decisivo nel sancire un’inguaribile inadeguatezza alla vita di gruppo e alla società, che lo fanno sentire perennemente sbagliato, fuori posto, mancante, ma soprattutto lo identificano come responsabile della sua stessa sofferenza, in una spirale di colpevolizzazione da cui è molto difficile non farsi inghiottire. Non a caso viviamo nell’epoca della depressione maggiore, che nella sua genesi riproduce proprio questo meccanismo psicologico, apparendo strettamente connessa con la distorsione della vergogna, così come l’agorafobia e l’auto-confinamento degli hikikomori.
Le derive psicologiche della vergogna, dunque, sorgono anche da questo suo spostamento dal piano sociale a quello esclusivamente privato: un equivoco pericoloso, che fa percepire una critica circoscritta a un nostro particolare modo di agire, che tendiamo a percepire come un attacco violento al nostro modo di essere. Nonostante le nostre azioni siano un’espressione della nostra personalità, infatti, incollare l’essere sul fare è un equivoco che può avere esiti deleteri, perché cancella del tutto la possibilità – assolutamente plausibile – in cui a una persona corretta capita di fare un errore e al tempo stesso anche l’opportunità di correggersi o di migliorarsi. Inoltre, questa coincidenza fallace non contempla l’eventualità di un’esclusione immotivata, che rappresenta una meschinità del gruppo e non dell’emarginato – come testimoniano per esempio le vessazioni operate nei confronti delle minoranze e di chi vive ai margini della società. La domanda che dovremmo porci quando ci capita di vergognarci, infatti, non è che cosa ci sia che non va in noi, ma che cosa possiamo aver fatto di sbagliato.
Appiattire le funzioni della vergogna, concependola come un segnale che ci impone di condannare senza possibilità di redenzione il nostro modo di essere, significa perdere il potere trasformativo proprio del conflitto interiore che essa genera, privandola della sua capacità di limitare i nostri comportamenti scorretti, quelli che smascherano la nostra fallibilità, grazie allo sguardo e al giudizio degli altri, ma allo stesso tempo rivelano la possibilità di agire meglio in futuro. Nonostante le criticità e la fatica che la gestione della vergogna porta con sé, infatti, abbiamo sempre più bisogno di un’adeguata educazione emotiva che ci alleni a ricevere e rielaborare i suoi suggerimenti per rafforzare le nostre relazioni con gli altri. Assumendo questa prospettiva sarà più semplice accorgersi di quanto giudicare – ed escludere – qualcuno sulla base di ciò che è secondo noi, sia sì un motivo di vergogna, ma non di certo per lui.