All’inizio della pandemia, quando erano state chiuse in tutta fretta le scuole, era stato lanciato da più parti un allarme ben preciso: nessuno si sta occupando dei bambini e degli adolescenti e delle ripercussioni che la situazione avrà sulla loro salute mentale. A ormai quasi un anno di distanza, è possibile vedere alcuni di questi effetti.
L’Asl Toscana Centro ha registrato un incremento del 10% di accessi al pronto soccorso per attacchi di panico, crisi psicotiche o gravi picchi depressivi nei più giovani, mentre l’Ospedale pediatrico Bambino Gesù di Roma ha visto un aumento dei ricoveri per tentativi di suicidio e autolesionismo nei ragazzi dai 12 ai 18 anni rispetto allo scorso anno: se negli anni passati i posti letto del reparto di Neuropsichiatria erano occupati al 70%, negli ultimi mesi si è raggiunta la capienza massima. L’entità del fenomeno è stata confermata anche da Santo Rullo, medico psichiatra del Centro italiano di solidarietà don Mario Picchi, un’associazione che si occupa di dipendenze e disagio psichico, che ha spiegato che sono sempre meno i posti disponibili nelle case di cura. Anche senza arrivare alla patologia, secondo il presidente del Consiglio nazionale dell’Ordine degli psicologi, David Lazzari, in un momento come questo gli studenti delle scuole superiori sono sempre più bisognosi di ricevere aiuto, sostegno e ascolto per superare il malessere dovuto all’isolamento e alla mancanza di socializzazione.
La crisi della salute mentale degli adolescenti, a livello globale, è ormai conclamata. Secondo l’Health Behaviour in School-aged Children, uno studio internazionale coordinato dall’Oms, dal 2014 al 2018 la salute mentale dei ragazzi dagli 11 ai 15 anni è peggiorata, soprattutto nelle femmine. “Durante la transizione dalla prima alla seconda metà dell’adolescenza”, ha spiegato il co-autore dello studio alla rivista scientifica Pediatria “le ragazze mostrano anche un calo più marcato del sostegno familiare percepito, della facilità di comunicazione con i genitori, del sostegno degli insegnanti e della soddisfazione scolastica”. I dati italiani dello studio non sono molto rassicuranti: tra i Paesi analizzati, l’Italia è rispettivamente al terzo posto e al secondo posto per i tredicenni e i quindicenni che dicono di sentirsi spesso arrabbiati e al primo posto per quelli che si sentono nervosi (indipendentemente dall’età, con un picco del 57% tra le quindicenni). Nel 16% dei casi, questo disagio si trasforma in patologia, anche se l’Oms stima che la percentuale, considerando anche i disturbi non diagnosticati, salga al 20%. I più diffusi sono l’ansia e la depressione, che è ormai diventata anche una delle principali cause di disabilità a livello mondiale.
Il suicidio resta un avvenimento raro, ma nel corso degli anni è diventato in tutto il mondo la terza causa di morte negli adolescenti e i trend globali confermano che il tasso è in aumento rispetto a dieci anni fa. Nella maggior parte dei casi, circa il 50-65%, chi si suicida ha alle spalle una storia di depressione. Negli Stati Uniti, il fenomeno interessa sempre di più anche i bambini: il numero di accessi al pronto soccorso per tentativi di suicidio o ideazione suicidiaria è raddoppiato dal 2007 al 2015, superando il milione; nel 43% dei casi, si tratta di bambini con meno di 11 anni. Anche se i dati che vengono dagli ospedali non sono rassicuranti, ci vorrà del tempo prima di capire se la pandemia abbia davvero aumentato il tasso dei suicidi. Come spiega Valigia Blu, i suicidi sono aumentati anche durante epidemie precedenti e nel caso del Covid-19 la situazione si complica perché è anche più difficile chiedere aiuto, specialmente se si è adolescenti e quindi meno autonomi degli adulti. Quel che è certo per ora è che la pandemia ha messo a dura prova i servizi per tutelare la salute mentale, aggravando in molti casi problemi già presenti e facendo sì che non si riescano a trattare quelli appena sorti.
Capire le cause di questo disagio che va ben oltre i confini temporali della pandemia non è per niente semplice, anche se da qualche anno si è presa la tendenza a dare la colpa ai social media. Secondo Jean M. Twenge, psicologa e autrice del saggio Iperconnessi, il 2012 è stato l’anno di svolta per il disagio adolescenziale: gli smartphone e la loro apparente e sconfinata libertà avrebbero tolto ai più giovani la voglia di ribellarsi e di trasgredire, una delle caratteristiche di quella età. Questo porterebbe alla rassegnazione, alla mancanza di uno scopo e in ultima istanza all’insoddisfazione nei confronti della propria vita. Se sicuramente la vita digitale ha contribuito ad aumentare la complessità dell’adolescenza, esponendo i ragazzi a problemi e pericoli che gli adulti per primi spesso non sono in grado di risolvere, attribuire tutta la colpa a un oggetto come lo smartphone appare riduttivo. In questa pandemia, con le scuole chiuse e le occasioni di socialità ridotte a zero, gli adolescenti avrebbero sofferto ancora di più la situazione senza nemmeno la possibilità di riuscire a connettersi virtualmente con la propria rete di amicizie.
È chiaro che questo disagio ha una radice più profonda, che la pandemia ha contribuito a far emergere ma che non spiega del tutto, considerando anche che è troppo presto per arrivare a delle conclusioni. Come spiega anche un lungo articolo su The Atlantic, l’ansia è forse il sentimento più caratterizzante della gen Z, ancor prima di essere una patologia: ce lo dicono i meme, le canzoni pop, i libri per bambini. I video su TikTok con l’hashtag #anxiety hanno un totale di 3,2 miliardi di visualizzazioni. Se i millennial sono la generazione della depressione, invischiati nell’immobilità del realismo capitalista e convinti che non ci sia alternativa, nati e cresciuti all’interno del paradigma della crisi, gli adolescenti di oggi assistono da lontano a un mondo in declino. Sono a metà tra il desiderio di cambiare le cose – come dimostrano la fioritura dei movimenti per il clima, l’adesione al femminismo, la fluidità nelle questioni di genere – e la schizofrenia del nostro sistema, dove tutto cambia a una velocità senza precedenti.
Secondo molti esperti di salute mentale, il fatto che molti di questi ragazzi siano cresciuti dai cosiddetti “genitori elicottero”, figure iperprotettive che caricano i figli di mille aspettative e non li lasciano mai prendere decisioni autonome, non fa altro che complicare le cose, al punto che un programma sperimentale dell’Università di Yale ha cominciato a fare terapia non a bambini e adolescenti che soffrono d’ansia, ma ai loro genitori. L’ansia trasferita sui figli è generata dalle aspettative sociali che per primi i genitori sentono su di sé, costantemente additati come una generazione che ha fallito. Così si alimenta una catena di senso di colpa, per cui gli adolescenti di oggi vengono accusati di essere “troppo fortunati”, quando è ormai evidente che il benessere materiale non corrisponde al benessere mentale.
Uno dei problemi più grossi è il terrore che questi ragazzi sviluppano nei confronti del fallimento. Viviamo in una società imbevuta dalla retorica della positività a tutti i costi, che esalta acriticamente il merito senza considerare gli ostacoli oggettivi e che stigmatizza fortemente chi non ce la fa. Se non eccelli, la colpa è solo tua e l’eccellenza è l’unica strada che ti porta ad avere un minimo di riconoscimento sociale: la mediocrità diventa un disvalore e fare le cose per la gioia di farle, anche se non ti riescono bene o se non portano a risultati riconosciuti, è diventato un problema. Molto spesso questi stimoli provengono proprio dai genitori stessi, ansiosi di trovare ai propri figli un ambito in cui possano dimostrare di essere i migliori, che sia il profitto scolastico, uno sport o una capacità artistica. Non si tratta di puntare il dito o attribuire la colpa unicamente ai genitori, ma di prendere coscienza di una mentalità che si è sedimentata e che è ormai considerata la nuova normalità: per le nuove generazioni, il fallimento è una colpa e non un evento della vita che può capitare a tutti e per le più svariate ragioni.
La pandemia ha sconvolto questi codici consolidati e forse ne ha mostrato l’insensatezza. La scuola si fa a casa, con tutti i problemi che questo comporta. Gli hobby e gli sport si sono fermati. La motivazione e il senso di scopo che animava la vita dei ragazzi ha cessato di colpo di esistere. Il tutto mentre venivano privati della propria socialità, fondamentale per l’equilibrio mentale, ma anche di figure di riferimento alternative ai genitori, come possono essere gli insegnanti. Trovare un colpevole nella Dad, in TikTok o nei videogiochi significa rifiutarsi di prendere coscienza della società che stiamo costruendo e lasciando alle nuove generazioni. La pandemia finirà, così come l’isolamento e il lockdown. Ma quello che è diventato questo mondo resterà sulle loro spalle.