Per il futuro dei 20-30enni italiani la crisi da Covid è il colpo di grazia finale - THE VISION
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C’è stato un tempo, durante il lockdown, in cui sembrava di vivere in un gigantesco rendering del futuro. Tutti facevano ipotesi su come sarebbero cambiate le nostre case, le nostre città, le nostre abitudini, il nostro modo di divertirci. L’elaborazione grafica di Susan, la smartworker, con gli occhi cisposi e i pantaloni del pigiama proposta qualche giorno fa è diventata subito un meme, ma fino allo scorso aprile tutti prendevano sul serio l’ipotesi che avremmo trascorso l’estate all’interno di cubi di plexiglas. Oggi ci siamo resi conto che gli stravolgimenti annunciati o dati per certi non si verificheranno. Questa ebbrezza data dalla possibilità che qualcosa nelle nostre vite sarebbe cambiato per sempre è dovuta al fatto che ci siamo talmente rassegnati al nostro destino che persino una pandemia ci è sembrata una rivoluzione, o almeno la sua possibilità. E vittima di questa illusione è stata soprattutto la generazione dei ventenni e dei trentenni, già schiacciata dalla precarietà e dall’imperativo della produttività, e che dopo questa pandemia si ritroverà in condizioni ancora peggiori.

Secondo il report dell’Oecd “Youth and COVID-19: Response, Recovery and Resilience”, basato su sondaggi condotti tra 90 associazioni in 48 Paesi, la pandemia avrà conseguenze sull’educazione, sulla ricerca del lavoro, sulla salute mentale e sulla liquidità dei più giovani, sia a breve che a lungo termine. Come fa notare l’osservatorio, le nuove generazioni partono da una situazione già svantaggiata: non solo sono le meno occupate, ma anche quelle con i redditi più bassi. Nel nostro Paese, ad esempio, sono i nati dopo il 1986 ad avere il reddito pro capite più basso (meno di 30mila euro l’anno), qualificandosi addirittura come la generazione più povera della storia d’Italia: il loro stipendio è inferiore dell’11% rispetto alla media nazionale. Questa situazione non può che peggiorare dopo la pandemia, per quella che si prospetta una delle crisi economiche peggiori di sempre. Secondo l’Organizzazione internazionale del lavoro, un giovane su sei aveva perso il proprio impiego già durante il lockdown. Circa il 77% dei lavoratori con meno di 25 anni è impiegato nella cosiddetta “economia informale”, che oltre a essere duramente colpita dal blocco delle attività di marzo, è prevedibile che sarà anche quella maggiormente sacrificata in una fase successiva.

Oltre a essere i meno tutelati e retribuiti, i giovani sono anche i più insoddisfatti della propria occupazione. A questa insoddisfazione si sono aggiunti anche gli alti livelli di stress vissuti durante la pandemia tra i giovani adulti tra i 18 e i 29 anni. Già ad aprile Eurofond notava come a essere esposti a un maggior rischio di depressione post-covid fossero le persone con meno di 35 anni: a spaventare è soprattutto il futuro, non solo lavorativo. Il rapporto dell’Oecd ha rilevato come una delle preoccupazioni maggiori dei giovani durante la pandemia sia l’aumento del debito pubblico, nella consapevolezza che eventuali misure di austerity colpiranno soprattutto le nuove generazioni.

Tra le maggiori cause di disagio c’è anche la sospensione o l’interruzione degli studi per gli universitari. Si stima infatti che nonostante l’attivazione dei programmi di didattica a distanza circa la metà degli studenti non sia riuscita a proseguire le lezioni. Secondo il ministro dell’Università e della Ricerca Gaetano Manfredi, le iscrizioni per il prossimo anno accademico potrebbero ridursi fino del 20%, mentre le stime dell’Osservatorio Talents Venture attestano il calo all’11%. Si tratterebbe di 35mila studenti in meno, con una perdita di 46 milioni di euro di rette per le università pubbliche. Un calo simile si era già verificato durante la crisi del 2008-2009, con punte di meno 8 punti percentuali nel Sud Italia. Considerato che nel Mezzogiorno, a distanza di più di dieci anni, non si è ancora tornati ai livelli pre-crisi, una diminuzione degli iscritti così consistente come quella prevista dopo la pandemia potrebbe avere effetti devastanti sul nostro Paese. Scoraggiati dalla situazione di incertezza o impossibilitati a sostenere le spese (specialmente i fuori sede, che dovranno fare i conti con gli affitti invariati, se non aumentati, nelle grandi città), molti ragazzi non cominceranno o interromperanno gli studi, andando ad aggravare il già preoccupante quadro dell’istruzione superiore. Come riporta l’ultima rilevazione Istat in merito, gli italiani sono fra gli ultimi in Europa per livello di istruzione: i laureati italiani sono il 19,6% della popolazione a fronte di una media del 33,2%, e sono anche i meno occupati dopo i greci. Il gap tra i tassi di occupazione italiani ed europei si riduce solo dopo i 50 anni, a dimostrazione che i giovani con istruzione terziaria fanno sempre più fatica a trovare lavoro.

Quella che si annuncia è quindi una situazione insostenibile non solo dal punto di vista economico e lavorativo, ma anche umano. L’incertezza del futuro congelerà a tempo indeterminato i nostri progetti di vita e le nostre aspirazioni. L’idea romantica di un “baby boom” post pandemia si scontra infatti con un Paese dove diventare genitori era già difficile in precedenza. L’Istat prevedeva infatti, secondo stime effettuate prima della pandemia, un calo di almeno 10mila nuovi nati per il 2021, che ora si pensa potrebbe arrivare a 39mila nello scenario peggiore. Secondo l’istituto non si tratta di una “disaffezione alla maternità e alla paternità”, ma dell’effetto di cause strutturali legate alle condizioni socio-economiche della popolazione e delle donne in particolare: il numero di figli desiderato non corrisponde infatti a quello reale. Sono solo 500mila le persone tra i 18 e i 49 anni che affermano che i figli non rientrano nei propri progetti di vita, mentre 2 milioni e 200mila non li hanno ma li vorrebbero. “Per circa la metà delle persone che non hanno figli e non intendono averne”, aggiunge l’Istat, “le motivazioni addotte evidenziano più che una scelta una sorta di rassegnazione a fronte di oggettive difficoltà”.

La nostra generazione ha imparato a convivere con la crisi, subendone gli effetti sia in prima persona che attraverso l’esperienza delle proprie famiglie, ma lo scenario che abbiamo di fronte è del tutto inedito. La buona notizia del Recovery Fund non basta a rassicurare sulle sorti delle generazioni più giovani: non è ancora chiaro come queste risorse verranno usate e se si verificherà un reale cambio di rotta rispetto alle politiche economiche che abbiamo già visto in atto durante la crisi del 2008-2009. La pandemia ha dimostrato la fragilità del nostro sistema in cui gli utili vengono privatizzati e le perdite socializzate, in cui per decenni si è “sostenuto categoricamente la necessità che tutte le politiche (sociali, ambientali, sanitarie) dovessero obbligatoriamente fare i conti con il ‘realismo economico’”, come ha scritto il Collectif Malgré Tout in Piccolo manifesto in tempi di pandemia. È impossibile dire in anticipo se questa presa di coscienza collettiva in cui si è capito che la tenuta dei mercati non può essere la sola realtà a cui attenersi avrà degli effetti sul modo in cui, ora che l’emergenza sanitaria è rallentata, le nuove generazioni affronteranno i prossimi mesi, se non anni.

Non possiamo più accettare l’idea che non ci sia alternativa a che le nuove generazioni paghino il prezzo più caro di ogni crisi economica. Come dimostrano anche le proposte dell’European Youth Forum, misure di austerity, tagli al welfare e precarizzazione del lavoro non fanno parte del nostro orizzonte politico. Quello che chiediamo è una transizione ecologica (e già più della metà dei fondi previsti per il progetto di sostenibilità Just Transition Fund sono stati tagliati dall’accordo finale preso dal Consiglio europeo), rafforzamento del settore pubblico a scapito del privato – specialmente nei settori essenziali che sono stati maggiormente colpiti durante la pandemia – redistribuzione della ricchezza, introduzione di redditi di base, riforma della tassazione, sostituzione del Pil come indicatore di ricchezza in favore di un altro parametro che misuri la sostenibilità e il benessere di una nazione. Non possiamo pensare di realizzare il cambiamento se tutto resterà come prima.

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