Fin dall’antichità, filosofi e studiosi di varie discipline si sono interrogati sulla natura delle emozioni. Se in passato venivano considerate con un accezione negativa, poiché il loro essere al di fuori dalla razionalità sembrava portare le persone a regredire allo stato animale, gli studi attuali hanno contribuito a una loro rivalutazione, sottolineando in particolare quanto la loro espressione sia indispensabile per il benessere mentale e un sano sviluppo psicofisico.
Negli ultimi decenni abbiamo assistito a un recupero in chiave positiva delle emozioni, tanto che i libri e i corsi di alfabetizzazione emotiva hanno ottenuto un grande successo di pubblico. A scuola, fin dalla più tenera età, insegniamo ai bambini a esprimere una vasta gamma di emozioni; eppure, nei confronti di una di esse, la rabbia, persistono notevoli chiusure. Come fa notare il filosofo Franco Palazzi ne La politica della rabbia, richiamando Susan Sontag, “la rabbia è stata sin dall’inizio sia malattia che metafora, un groviglio di significati dove medicina e politica, sapere e potere si sono avviluppati irrimediabilmente”. Nella cultura occidentale non ha mai ricevuto particolari giudizi positivi.
Nel Medioevo, ad esempio, per gli studiosi che appoggiavano la teoria umorale, possedere un temperamento collerico costituiva una sorta di predisposizione naturale. Solo in epoca recente, con l’evolversi della medicina, queste supposizioni sono state abbandonate. Grazie agli studi compiuti da Paul Ekman negli anni Settanta, sappiamo che la rabbia costituisce una delle “emozioni primarie”, definite così perché proprie dell’intero genere umano: non importa in quale civiltà si trovi, qualsiasi essere umano le esprimerà attraverso un’invariata mimica facciale – per quanto riguarda la rabbia: gli occhi si “assottigliano”, la fronte si aggrotta, le labbra si serrano. Però, come sottolinea la scrittrice Soraya Chemaly in La rabbia ti fa bella, non solo molte persone fanno fatica a esprimerla, ma la società non autorizza uomini e donne a farlo allo stesso modo. Per questo può essere interessante provare ad analizzare questa emozione attraverso una lente di genere, chiedendoci quanto gli stereotipi contribuiscano alla sua manifestazione.
Tecnicamente, possiamo definire la rabbia come una reazione a un’ingiustizia subita; proprio per questo motivo è l’unica tra le emozioni primarie ad avere una forte connotazione politica. La possibilità di esprimerla, pertanto, sembrerebbe dipendere dal potere e dal privilegio di cui si dispone. La rabbia degli uomini conferma determinate caratteristiche ritenute tipicamente maschili, come la capacità di reagire, di farsi le proprie ragioni, di non farsi sottomettere. Seguendo questo ragionamento, è facile capire perché quando a manifestarla sono le donne o le minoranze risulti scomoda e inopportuna.
Come sottolinea anche la storica Annaclara Valeriano in Malacarne. Donne e manicomio nell’Italia fascista, negli anni del regime per una donna era sufficiente essere diagnosticata come “irascibile”, “ribelle” o “insolente” per essere internata in manicomio. Fino all’entrata in vigore della Legge Basaglia, nel 1978, ogni donna che deviava da una presunta norma di “rispettabilità della condotta” subiva questa sorte: le pratiche sanitarie si legavano così a doppio filo a ideologie politiche e culturali. A partire dal 1968 il Manuale Diagnostico e Statistico (DSM) dei disturbi mentali incluse anche la mascolinità aggressiva e le condotte antisociali tra gli elementi patologici, offrendo, come riporta Palazzi, una descrizione implicitamente razzista della sintomatologia, in un contesto nel quale si riscontrava già una tendenza a patologizzare le forme di protesta. Come sottolinea l’autore “in una serie di documenti classificati, l’FBI aveva bollato Malcom X – ‘il nero più arrabbiato d’America’ – come schizofrenico, mentre nel dibattito pubblico il ricorso a questa condizione serviva a distinguere gli attivisti afroamericani moderati da quelli maggiormente pericolosi”. Nel periodo in cui gli istituti psichiatrici venivano smantellati, chi continuava ad abitarli erano per lo più afrodiscendenti nelle cui cartelle cliniche veniva riportata l’adesione o il supporto a gruppi antirazzisti come sintomo dei loro disturbi mentali.
Esprimere la rabbia non è un’operazione neutra, ma una pratica fortemente vincolata agli stereotipi di genere, cioè all’insieme delle credenze che definiscono come un uomo o una donna debba comportarsi per aderire al modello standardizzato di maschilità o femminilità. È stata la pedagogista Elena Gianini Belotti, autrice del famoso saggio Dalla parte delle bambine, a portare per la prima volta in Italia, nel 1973, l’attenzione su questo tema, sottolineando in particolare il peso dell’educazione nel mantenimento dello status quo. Le bambine, denunciava Belotti, sono educate per aderire a un ideale di passività; vengono premiate se si dimostrano accondiscendenti e pazienti poiché essi sono i requisiti essenziali per prendersi cura degli altri. Al contrario, ai maschi viene insegnato a essere attivi, a muoversi nel mondo con esuberanza e a difendersi.
Questo modello binario che caratterizza le pratiche educative è stato denunciato anche attraverso varie ricerche sociali. Nel 1976, gli studiosi Will, Self e Datan hanno realizzato un esperimento chiedendo a due gruppi di persone di relazionarsi con un bambino di otto mesi (Adam) o con una bambina della stessa età (Beth), per poi riferire ai ricercatori circa la qualità dell’interazione. Il gruppo convinto di aver giocato con Beth descriveva la piccola come “deliziosa”, il suo pianto era considerato più “delicato” e in generale raccontavano che aveva espresso emozioni di paura, di tristezza o spavento. Al contrario, chi si era preso cura di Adam lo descriveva come un bambino vivace e non ravvisava nelle sue espressioni nessuna delle emozioni precedenti. Peccato però che entrambi i gruppi avessero interagito sempre con lo stesso bambino, in un caso vestito da maschio, in un altro da femmina. Questi esperimenti hanno contribuito a denunciare la presenza degli stereotipi in educazione, sottolineando altresì il loro potenziale discriminatorio. L’educazione emotiva e affettiva risulta essere preponderante nella crescita delle bambine, eppure molti studi hanno messo in evidenza come i genitori tendano a escludere la rabbia. La mancata educazione a quest’emozione porta le donne a riconoscerla con più difficoltà, a zittirla o a sostituirla con altre, ritenute socialmente più accettabili, come ad esempio la tristezza.
Ancora oggi, nonostante i grandi cambiamenti avvenuti nel corso del Novecento, la rabbia risulta essere un’emozione che condiziona pesantemente la vita delle donne. Come ricorda la psicoterapeuta Phyllis Chesler in Le donne e la pazzia, le donne fanno più fatica a esprimere la rabbia perché quando accade rischiano maggiormente di essere ridicolizzate. È ancora consuetudine prendere in giro una donna arrabbiata ironizzando sulla sua vita sessuale, o associare una sua risposta più “piccata” al ciclo mestruale. Lo sfogo della rabbia, poi, implica spesso l’utilizzo di imprecazioni e linguaggio scurrile e nonostante molti studi abbiano messo in evidenza quanto l’uso di un linguaggio volgare, quando si è arrabbiati, abbia molteplici benefici, tra cui l’attenuazione del dolore, una donna che lo adopera ha più probabilità di incorrere in una sorta di “biasimo sociale” rispetto a un uomo. Interiorizzare la rabbia, però, ha conseguenze molto dannose sul piano psicologico, come l’insorgenza della depressione o di stati d’ansia che potrebbero appunto fornire una delle motivazioni al perché siano le donne a richiedere maggiormente supporto a medici e personale qualificato. In uno studio degli anni Settanta, Phyllis Chesler ha sottolineato che i numeri delle pazienti ricoverate con diagnosi di psicosi e nevrosi erano più alti rispetto agli uomini, così come le richieste di aiuto avanzate dalla popolazione femminile a psichiatri e professionisti sanitari. Chiedere aiuto, però, non significa necessariamente riceverlo: nel suo saggio dal titolo Doing Harm, la giornalista americana Maya Dusenbery ha compiuto uno studio accurato per dimostrare quanto il dolore delle donne, anche quando diretta espressione di sintomi e malattie evidenti, fosse sottostimato rispetto a quello maschile.
L’atto di nominare qualcosa è ciò che ci permette di esserne consapevoli: non riconoscere la rabbia, non avere parole per comunicarla, come abbiamo visto espone in particolare le donne a diversi rischi in ambito sanitario. Tutto ciò ha conseguenze pesanti sul piano dell’autostima: non credute, schernite, ridicolizzate, le donne sperimentano con più facilità vissuti di “sofferenza fisica e mentale, sentimenti di impotenza inadeguatezza e vergogna”. Sul piano sociale, invece, il rischio è di continuare a subire forme di violenza di genere. Lo standard di femminilità ancora oggi in vigore insegna infatti alle donne a essere pazienti, a perdonare, a anteporre ai propri desideri quelli delle persone di cui si prendono cura. Uno dei fattori che impedisce loro di scappare davanti a una relazione che si palesa per la sua tossicità è proprio un ideale di totale dedizione e sacrificio a cui devono conformarsi, che le porta a tollerare azioni che, a parti invertite, non sarebbero mai accettate.
Le donne hanno bisogno di poter esprimere la propria rabbia e per farlo l’educazione resta lo strumento più efficace. È necessario prima decostruire gli stereotipi di genere, osservare in prospettiva storica le diseguaglianze vissute dal genere femminile e poi offrire nuove narrazioni e rappresentazioni della rabbia femminile. Per farlo, è indispensabile modificare il nostro linguaggio: il primo passo è smettere di associare la rabbia a patologie quali la “frigidità” o l’incapacità di avere relazioni affettive soddisfacenti. Il secondo invece consiste nell’accogliere il potenziale trasformativo di questa emozione, che è uno strumento di ribellione personale e collettivo.