Una donna, all’ospedale San Camillo di Roma, ha dovuto aspettare oltre due settimane per un raschiamento a seguito di un aborto spontaneo, perché la struttura esegue la procedura solo il lunedì e il giovedì, giorni che coincidevano con Pasquetta e il 25 aprile. “Sono 16 giorni che la creatura è venuta a mancare e devo aspettare lunedì. Non basta già il dolore di una mamma ma anche l’agonia. È uno schifo”, ha dichiarato a TPI la donna, una 40enne operaia in una piattaforma logistica, che ha lasciato il lavoro durante la gravidanza. Purtroppo non si tratta di un caso isolato, ma questo è l’esempio di come sia considerato accettabile che una donna debba soffrire per settimane per un problema ostetrico-ginecologico.
L’idea che il corpo delle donne sia naturalmente portato al dolore ha radici antiche quanto quella del peccato originale. La Genesi racconta che Eva, dopo aver mangiato la mela della conoscenza nel giardino dell’Eden, viene punita da Dio con l’anatema: “Moltiplicherò i tuoi dolori e le tue gravidanze, con dolore partorirai figli”. Questo passo (che, come riporta Erri de Luca, contiene un errore di traduzione, dal momento che il termine ebraico “ètzev” si traduce con “sforzo” e non “dolore”) ha condannato le donne di ogni tempo a patire il dolore, ma soprattutto a non potersene lamentare, a darlo per scontato o, addirittura, a viverlo come una punizione.
Come le donne riescano a sopportare i dolori del parto è un mistero che ha sempre affascinato medici e scienziati, ma che ha anche creato una specie di mistica della sofferenza femminile (e la conseguente derisione di quella degli uomini, considerati incapaci di sopportare una febbre a 38°). L’idea che le donne sopportino meglio il dolore (cosa su cui, in realtà, non c’è alcuna certezza scientifica, se non il fatto che i tipi di dolore che colpiscono i due sessi sono differenti) fa sì che non solo alle donne sia implicitamente richiesto di nascondere la sofferenza fisica – ed è questo il motivo per cui il congedo lavorativo in caso di mestruazioni dolorose è spesso percepito come un capriccio o un’esagerazione – ma anche che il trattamento che ricevono dalla sanità sia diverso rispetto agli uomini. Generalmente si dà per scontato che per lei sia normale e naturale soffrire, durante il parto, durante il ciclo mestruale e quando si ammala.
Lo scorso anno, la Bbc ha pubblicato una serie di 18 articoli intitolata The Health Gap dedicati alla disparità di trattamento tra uomini e donne nella sanità, uno dei primi tentativi di ricostruire un quadro unitario di questa situazione drammatica. La disparità riguarda infatti tutti gli aspetti della salute delle persone, dalla carenza di studi sulla fisiologia femminile ai tempi di attesa al pronto soccorso, dai pregiudizi dei medici nei confronti delle donne che lamentano dei sintomi, alla riluttanza a prescrivere antidolorifici.
Il problema del gap sta alla base della medicina che si basa quasi esclusivamente sulla fisiologia maschile. Secondo uno studio pubblicato sul The New England Journal of Medicine, le donne hanno sette volte le probabilità di un uomo di ricevere una diagnosi errata e di essere dimesse dal pronto soccorso durante un infarto perché manifestano, generalmente, dei sintomi diversi da quelli maschili, e i medici non sono in grado di riconoscerli perché i loro studi si basano sui sintomi che presentano gli uomini. Per questo le donne con meno 50 anni hanno il doppio delle possibilità di morire d’infarto rispetto a un uomo della stessa età. Lo stesso problema si presenta anche nella farmacologia. Come sottolineato dal rapporto Prospettive di genere e salute. Dalle disuguaglianze alle differenze dell’Università degli Studi di Torino, la maggior parte dei farmaci vengono testati sull’idealtipo maschio di 70 chili e i dosaggi consigliati fanno riferimento a questo standard, anche se donne e uomini hanno diverse capacità di metabolizzare i principi attivi. Ne consegue che gli effetti collaterali vengono subiti più dalle donne che dagli uomini.
A questo si lega il già citato fatto che uomini e donne provano tipologie di dolore diverse. Come riporta l’Harvard Health Blog, il dolore cronico investe le donne nel 70% dei casi, ma gli studi in proposito vengono condotti per l’80% su pazienti di sesso maschile. Nel saggio Doing Harm, la giornalista Maya Dusenbery prova a spiegare questa disparità di studio e trattamento in una prospettiva storica, dimostrando che la difficoltà principale incontrata dalle donne che soffrono di dolore cronico è quella di essere credute dai medici. “Nel migliore dei casi, hanno trovato un dottore che crede che il loro dolore sia reale, ma che non sa spiegarlo o capirlo o trattarlo. Nel peggiore, il loro dolore è stato derubricato di default come di natura psicologica, se non come inventato”, scrive Dusenbery. “Quello di cui hanno bisogno i pazienti con dolore cronico non sono consigli su come comunicare meglio i propri sintomi, né singoli dottori più propensi a fidarsi dei loro racconti. Sostanzialmente, hanno bisogno di ricerca scientifica per spiegare l’inesplicabile”.
Un esempio di come questo pregiudizio si traduce nella vita di una donna è il trattamento di molte malattie di tipo ostetrico-ginecologico, che ancora oggi vengono trattate come retaggio di quella che una volta veniva indicata come la causa di tutti i mali femminili, l’isteria. Per avere una diagnosi di endometriosi, ad esempio – una malattia causata dall’accumulo di tessuto endometriale al di fuori dell’utero che provoca, tra le altre cose, intensi dolori mestruali – ci vogliono in media 7,4 anni, stando a uno studio olandese. Il dolore addominale viene spesso minimizzato allo stesso modo. Secondo uno studio, le donne che vanno al pronto soccorso per questo motivo negli Stati Uniti aspettano 65 minuti prima di ricevere una terapia, mentre gli uomini 49. Anche le malattie che comportano dolore durante i rapporti sessuali vengono spesso ridimensionate o non trattate, come se la sessualità fosse un aspetto che la donna può benissimo vivere con sofferenza o ansia. Come raccontato in uno degli articoli di The Health Gap sulla vulvodinia, una patologia che provoca un intenso bruciore alla vulva, alle donne viene raccomandato dai dottori di prendere tranquillanti o antidepressivi prima di fare sesso, oppure di bersi un bicchiere di vino e rilassarsi. In pratica di darsi una calmata e incrociare le dita, non proprio il modo più sereno per vivere la propria vita affettiva.
Anche a me fu risposto così da una ginecologa del servizio sanitario nazionale, alla mia richiesta di alleviare un dolore che avevo da settimane: “Non starai mica morendo”. Ho raccolto altre storie di questo tipo: donne a cui sono stati tolti polipi uterini senza anestesia durante una normale visita di controllo, a cui è stato detto che la causa della propria ipermenorrea fosse il grasso in eccesso sulle cosce, a cui è stata fatta pesare la scelta di non aver avuto figli, a cui sono stati fatti ammiccamenti sessuali, colpevolizzate per aver contratto una infezione sessualmente trasmissibile. Donne derise e umiliate da personale sanitario che dovrebbe occuparsi proprio di salute femminile.
Anche la violenza ostetrica, ovvero la messa in atto di pratiche non necessarie e dolorose durante il parto in ospedale, di cui si stima siano un milione le vittime solo in Italia, è un problema sommerso di cui solo recentemente si è cominciato a parlare. Dall’indagine condotta da Doxa e OVOItalia, l’Osservatorio sulla violenza ostetrica Italia, risulta che 1,6 milioni di donne nel nostro Paese è stata sottoposta all’episiotomia, l’incisione vulvo-vaginale per facilitare il parto, senza aver dato il proprio consenso e il 41% dichiara di aver subìto pratiche lesive della propria dignità e integrità psicofisica. La dimostrazione che qualcuno sembra aver presto quel “partorirai con dolore” un po’ troppo alla lettera. Una delle donne che mi hanno raccontato la propria esperienza mi ha riferito che durante il travaglio l’ostetrica, alla sua richiesta di ricevere l’epidurale, le rispose che l’ospedale non la forniva per scelta perché “il dolore fa parte della vita e ogni donna lo sa”.
Come chiudere questo gap? La risposta non è semplice, perché prima di tutto bisogna cominciare col riconoscerne l’esistenza. Il fatto che esistano pochi studi in merito, ma soltanto una serie di dati che restituiscono un quadro allarmante ma frammentato della situazione, denuncia che quello dell’health gap è un problema su cui non è stata posta la giusta attenzione. Il già citato dossier Prospettive di genere e salute avanza una proposta interessante, un Health Equity Audit che prenda in esame la disparità di trattamento nella sanità come una delle tante disuguaglianze che coinvolgono i generi. L’idea è che le differenze sociali, culturali ed economiche tra uomini e donne contribuiscano a creare e aumentare il divario anche nella medicina. Per questo il piano propone di coinvolgere del personale che sia sensibile a questo tema e che sappia porsi le giuste domande: come ridurre l’esposizione al rischio dei soggetti socialmente più deboli con attenzione al genere? Ci sono evidenze di differenti conseguenze sociali della malattia per donne e uomini? Infine, grande importanza viene data al contesto sociale: le donne devono avere a disposizione tutti gli strumenti di autonomia economica, consapevolezza di sé, cultura e capacità individuale per potersi rivolgere al sistema sanitario nel modo più equo possibile.
In un’epoca in cui prendiamo antidolorifici, analgesici se non addirittura oppioidi anche per un’unghia incarnita, pensare che le donne siano naturalmente obbligate a provare dolore è soltanto una delle tante manifestazioni della cultura sessista in cui siamo immersi.
Anche per questa malattia cronica della nostra società è necessaria una cura.