Annibale Crosignani è uno psichiatra torinese che, seguendo la scia di Basaglia, è stato uno dei protagonisti della rivoluzione psichiatrica che ha portato alla chiusura dei manicomi italiani e alla nascita di un nuovo modello di psichiatria. Con la Legge 180/1978, seguita poi dalla 833 nello stesso anno, gli ospedali psichiatrici sono stati chiusi e la riabilitazione del diritto umano degli internati è stata accompagnata dall’apertura di reparti di psichiatria negli ospedali civili, da un modello di psichiatria territoriale e dalla diffusione collettiva di un nuovo concetto di patologia mentale. Oltre alla privazione del diritto umano che era alla base della segregazione manicomiale, infatti, la stessa psichiatria non aveva un’effettiva valenza medico-clinica, in quanto disciplina complice e sfruttata da un sistema reclusivo che non andava a toccare solo i malati mentali, ma buona parte degli emarginati della società.
Il manicomio era regolamentato dalla Legge Giolitti del 1904, secondo la quale queste strutture dovevano gestire i cosiddetti “alienati mentali, pericolosi a se stessi e agli altri”. In realtà l’internamento era esteso anche a persone considerate “di pubblico scandalo” e, come dice Crosignani a The Vision, tutti gli individui reputati come socialmente e fisicamente falliti, privi di appoggio familiare o senza occupazione lavorative, prostitute, orfani problematici che si erano comportati male in istituto, ragazze scappate di casa e così via: tutti coloro che l’ordine della società del tempo, per un motivo o per l’altro, voleva emarginare. Questo faceva sì che all’interno dei manicomi mondi e storie personali estremamente diverse tra loro si incontrassero, contribuendo a complicare le dinamiche dell’ambiente. La maggior parte degli internati però proveniva dalle classi più povere della popolazione e molti di essi avevano storie familiari travagliate. Negli anni Sessanta, il numero di internati in tutta Italia arrivò fino a 100mila, divisi sia in strutture pubbliche, gestite a livello provinciale, che private, gestite da enti sovvenzionati dalle stesse province. Tuttavia, in certi casi, si arrivava ad avere al massimo un solo manicomio, che andava a coprire un territorio anche molto vasto, che poteva comprendere anche diverse città e relative province. Ciò creava disagi profondi sia per gli internati che per le loro famiglie, in quanto queste ultime per andare a trovare i loro cari dovevano fare molta strada. Tutto ciò veniva usato da alcuni malati per offenderne altri durante le discussioni che intavolavano, discriminandoli e ferendoli ulteriormente con frasi del tipo: “Tu non hai il parlatoio, io sì”. La gestione dei malati, come ormai è emerso, era inumana, e si basava sul terrorismo psicologico, usato preventivamente con intento di pura sorveglianza. Le terapie non esistevano.
Secondo la legge Giolitti, ogni anno una commissione di vigilanza aveva il compito di visitare queste strutture e riferire le condizioni di vita dei malati. Questi controlli però erano vere e proprie truffe, in quanto venivano annunciati prima di essere svolti e spesso alle commissioni prendevano parte gli stessi direttori dei manicomi, che naturalmente contribuivano a insabbiare la reale situazione delle strutture in cambio di favori analoghi. Tutto ciò contribuì a un progressivo degrado strutturale e organizzativo e all’accettazione di qualsiasi sopruso sui pazienti, considerati peggio degli animali. Per Crosignani è stata questa esperienza che lo ha portato a capire quanto un essere umano possa agire sulla vita dell’altro, come possa profanarlo, violentarlo e ridurlo a una nullità.
Anche chi lavorava in manicomio di solito aveva seguito un iter complicato e aveva avuto una carriera lavorativa peculiare. Lo stesso Crosignani aveva deciso di fare il concorso per diventare psichiatra nel manicomio femminile di Via Giulio a Torino dopo otto anni di lavoro nella clinica universitaria all’ospedale Molinette, dove non riusciva più a sopportare di prendere parte a un sistema autoritario, dove la reverenza obbligatoria nei confronti dei direttori veniva messa prima della gestione dei malati. I medici del manicomio però potevano essere definiti come “anchilosati intellettuali”, in quanto finivano a fare i custodi e niente di più. Lo Stato era completamente disinteressato al recupero e al benessere dei malati. La psichiatria stessa non aveva una dignità, in quanto disciplina sfruttata per dare una presunta valenza curativa a strutture dove i diritti umani non contavano niente: all’epoca era un settore medico utilizzato per giustificare uno stato di prigionia. Crosignani descrive quanto poco contasse la sua professionalità medica all’interno del manicomio: il suo lavoro doveva ridursi esclusivamente nel firmare i registri, le richieste di farmaci e le pratiche contenitive attuate dagli infermieri. Era un lavoro burocratico, dove lui si doveva prendere la responsabilità di tutto ciò che veniva dichiarato senza sapere realmente cosa accadesse, vista l’impossibilità di avere un qualsiasi tipo di rapporto medico-paziente, dato che di pazienti ce n’erano 180. A causa di questo sistema, venivano spesso compiuti errori medici grossolani. Aveva scoperto, ad esempio, che una malata a distanza di un anno prendeva ancora l’antibiotico per una tonsillite: il medico precedente si era dimenticato di sospenderlo a guarigione avvenuta. Crosignani, stupito di come fosse impossibile esercitare il proprio mestiere a quelle condizioni, chiese immediatamente consiglio ai colleghi sul da farsi. Ma gli fu detto che poteva fare poco o niente: tra gli altri colleghi ad esempio, ce n’era uno che, per passare il tempo riempiva una vasca da bagno e passava le sue giornate a giocare a battaglia navale; un altro che si chiudeva in biblioteca a studiare; e un altro ancora gli disse fino a che punto – grazie alla sua posizione privilegiata – poteva convincere le infermiere a essere a sua disposizione. Essendo molte avrebbe potuto divertirsi con una diversa di giorno in giorno, però gli sconsigliava le pazienti. Il manicomio metteva dunque a dura prova la stabilità psicologica di chiunque lo abitasse. Inoltre, gli infermieri non erano professionisti, ma persone che prendevano questo impiego come secondo lavoro, spesso contadini: bastava aver fatto le scuole dell’obbligo più un “patentino” per poter fare l’infermiere manicomiale, e non si poteva ricoprire la stessa carica al di fuori del manicomio stesso. Inoltre, per chiare ragioni, una condizione preferenziale era l’essere “forti e robusti”.
Un primo passo globale per la sensibilizzazione dei malati psichiatrici venne dal I Congresso mondiale di Psichiatria, tenutosi a Parigi nel 1950, dove per la prima volta si parlò dei diritti dei malati come esseri umani e di come poter migliorare la loro condizione. Inoltre, tra gli anni Cinquanta e Sessanta furono scoperti e sviluppati i primi antipsicotici (come la clorpromazina), i primi antidepressivi e le benzodiazepine – ancora oggi gli ansiolitici per antonomasia. L’innovazione psicofarmacologica aveva contribuito non solo a rendere meno rigido il mondo manicomiale e a migliorare le condizioni dei malati, ma anche degli stessi psichiatri, che prima avevano, di fatto, come uniche scelte terapeutiche le terapie elettroconvulsionanti, che spesso venivano usate soprattutto a scopo punitivo e non terapeutico, come dimostrano casi eclatanti come quello del dottor Coda, soprannominato “l’elettricista”.
Crosignani descrive le novità introdotte dal Congresso di Parigi e dalla scoperta degli psicofarmaci come fondamentali per il cambiamento che Basaglia fece del manicomio di cui era direttore a Gorizia. I tempi stavano cambiando e le condizioni erano favorevoli per provare a trasformarlo in una comunità terapeutica, che si basava sul modello di Maxwell Jones, che Basaglia conosceva personalmente e con cui aveva un legame professionale significativo. Su questo modello, l’esperimento fu esteso anche a Perugia e a Parma, e Basaglia, percependone il funzionamento e le potenzialità, arrivò a capire che con l’appoggio politico giusto (che avrebbe trovato nel Pci), grazie al potere dei media e con le sue pubblicazioni – fatte grazie alla casa editrice Einaudi – l’istituzione manicomiale italiana era pronta per essere superata. Di particolare importanza fu l’uscita del libro Istituzione negata nel 1968, che ha costituito anche una delle fondamenta sulle quali si è strutturato il movimento studentesco attivo in quegli anni.
A quel punto l’esperimento doveva essere fatto su una città grande e industrializzata come Torino, dove il progetto venne portato avanti da Crosignani e dal suo collega Giuseppe Luciano, che aderì alla causa, con il sostegno di associazioni specifiche come Lotta contro le malattie mentali (ALMM), del Partito Comunista e del movimento studentesco stesso, che era particolarmente attivo nella realtà torinese.
La situazione prese poi una direzione definita con un’assemblea pubblica organizzata dagli studenti della facoltà di Architettura di Torino nel dicembre del 1968. Tra i molti presenti, c’era anche Pier Paolo Pasolini. “È un crimine progettare un ospedale psichiatrico? Se c’è un rapporto tra situazioni sociali di oppressione, quale significato assume curare e assistere dei malati di mente e progettare dei nuovi ospedali psichiatrici?”: erano queste le domande che si poneva l’assemblea in risposta al fatto che la parte politica più conservatrice, nello scontro che si era aperto sul tema, aveva proposto come soluzione la costruzione di un nuovo manicomio, che avrebbe dovuto ospitare fino a 1200 pazienti. Quest’assemblea incrementò ulteriormente il dibattito pubblico, al punto che si riuscì a far accettare all’amministrazione di portare avanti l’esperimento di Basaglia a Torino. Così, il 10 aprile del 1969 il progetto prese il via all’interno di uno reparti del manicomio femminile di Via Giulio, la cui équipe era formata da trenta infermiere e da Crosignani e Luciano come medici. Crosignani descrive ancora con una profonda emozione la gioia dell’aver annunciato alle sue pazienti che da quel momento per loro sarebbe iniziata una nuova vita: una vita in cui sarebbero state libere. Le ex-internate affette da patologie psicotiche non riuscirono a capire subito, ma tutte le altre iniziarono immediatamente a fare le loro richieste: giri, visite quotidiane, parrucchiera, possibilità di indossare abiti civili, guardare la tv, avere libero accesso ai servizi igienici e annullare le minacce di chiuderli a scopo punitivo. Si iniziarono anche a organizzare spettacoli per le pazienti, che rimasero però molto deluse dai concerti di musica beat a cui assistettero. Per molte di loro, infatti, la musica era ancora quella degli anni Quaranta, l’ultima che avevano ascoltato prima di essere internate. Anche Dario Fo andò a provare Mistero buffo nel loro reparto. Tuttavia, i medici si trovavano ancora a gestire situazioni difficili: come ad esempio quelle di persone che volevano tornare a casa loro, ma la cui abitazione era stata bombardata durante la guerra, o di donne che volevano ricongiungersi coi mariti, che però nel frattempo si erano rifatti altre vite.
Sapendo che dove era in atto l’esperimento le pazienti venivano trattate così, anche i pazienti degli altri reparti cominciarono a richiedere i medesimi cambiamenti, e anche molti medici e infermieri si fecero convincere appoggiando la causa. Così, il progetto diventò virale e si diffuse in tutta Torino, dove la lotta per la chiusura manicomiale finì nel 1973, con la creazione di un sistema di assistenza psichiatrica territoriale che anticipò di 5 anni la legge 180 e 833. Tuttavia, Crosignani ricorda di aver visto scritto sui muri del reparto “Liberazione ≠ libertà”: gli ex-internati si sentivano infatti slegati dalle catene, ma non si sentivano ancora liberi, perché le nuove leggi non si occupavano ancora di definire alcun tipo di riabilitazione o di integrazione sociale, soprattutto per persone che avevano vissuto per decenni in quel contesto di violenze e repressione.
Crosignani è stato uno degli attori fondamentali di questo processo e le sue esperienze devono essere ricordate, per non dimenticare da dove nascono alcuni dei diritti che oggi potremmo fare l’errore di dare per scontati. Come ci ricorda la targa commemorativa della facoltà di Architettura di Ferrara, oggi ospitata proprio dall’ex ospedale psichiatrico della città, Palazzo Tassoni: “Chi attraversa oggi questi spazi ricordi che essi divennero tristi luoghi di sofferenza e di esclusione. […] Alla comunità scientifica, alle giovani generazioni, ai cittadini tutti spetta l’impegno costante ad opporsi ad ogni forma di emarginazione a difesa dei diritti fondamentali dell’uomo”.