Il sesso non vende più. Almeno così sembra, stando a una ricerca dell’Università di Padova e Trieste pubblicata a settembre 2020. Le cose non stanno esattamente in questo modo naturalmente, ma le pubblicità che oggettificano il corpo con lo scopo di promuovere beni materiali sembrano aver perso efficacia. Risulterebbero anzi offensive per molti consumatori. Questo tipo di inserzioni, diffusosi già a partire dagli anni Ottanta durante il boom economico generato nel dopoguerra, si basa sull’accostamento di un prodotto all’immagine di un corpo, il più delle volte femminile, dipinto come oggetto sessuale. Secondo la objectification theory (teoria dell’oggettificazione) di Fredrickson e Roberts (1997), rendere un corpo oggetto sessuale equivale a frammentarlo, privarlo della sua totalità per renderlo una mera collezione di parti o funzioni erotiche. L’apice di questo fenomeno, raccontato con incredibile precisione da Lorella Zanardi nel documentario Il corpo delle donne (2008), è rappresentato in Italia dalla Tv berlusconiana e post-berlusconiana, che ha avuto un ruolo fondamentale nel promuovere, ma soprattutto nel normalizzare, la serie infinita di stereotipi legati all’universo femminile di cui oggi, con fatica, stiamo cercando di liberarci.
Il sistema – televisivo e pubblicitario – sembra tuttavia determinato a resistere al cambiamento. Un’indagine dell’Art Director Club del 2014 riportava che l’81,27% delle donne nelle pubblicità erano ancora dipinte “come modelle, sessualmente disponibili o pre-orgasmiche”, utilizzate come decorazioni, in gergo “grechine” (come le cornicette che si facevano fare nei quaderni alle scuole elementari). Questo meccanismo è stato sostenuto da decenni di male gaze in ambito culturale, in cui il pubblico – in primis quello femminile – è stato abituato a vedere il corpo e la presenza femminile solo attraverso lo sguardo maschile, o quello che si presuppone lo sguardo maschile dovrebbe essere.
In questo contesto, lo studio pubblicato a settembre, dal titolo evocativo Does Sex Really Sell? Paradoxical Effects of Sexualisation in Advertising on Product Attractiveness and Purchase Intentions (“Il sesso vende davvero? Effetti paradossali della sessualizzazione nelle pubblicità sull’attrattività del prodotto e le intenzioni di acquisto”), porta certamente una buona notizia. Lo studio, basato sulle risposte di 258 soggetti (153 donne e 105 uomini), mette a confronto due pubblicità dello stesso prodotto, una caratterizzata da una presenza sessualizzata (sia maschile che femminile) e una neutra, ed esamina poi la risposta emotiva e le intenzioni di acquisto dei partecipanti. I risultati sono stati straordinari: le donne, questa forse non è una sorpresa, hanno dimostrato di essere meno attratte dalle pubblicità in cui era presente un corpo maschile oggettificato; per gli uomini invece – e questo è il dato senza precedenti – il livello di oggettificazione del corpo femminile nelle pubblicità non ha rappresentato alcuna differenza. Non una maggiore probabilità di acquistare il prodotto pubblicizzato, né un maggior livello di gradimento. Anzi, in alcuni casi, sia per le donne che per gli uomini intervistati, l’oggettificazione genera un senso di fastidio. Apparentemente, pubblicizzare un prodotto mettendoci accanto una donna il cui corpo viene frammentato, privato della sua identità per divenire di fatto merce, non rappresenta più un fattore positivo per le vendite. Questa non può che essere una novità positiva, un segno che le lotte femministe degli ultimi anni non sono cadute nel nulla. Potrebbe finire qui, si potrebbe segnare un punto sul tabellone della giustizia sociale e poi andare avanti, ma purtroppo c’è un altro aspetto essenziale da considerare, decisamente più tetro.
Nel sistema capitalistico dell’occidente contemporaneo quasi ogni ambito della vita è basato sulle vendite. Sotto l’ala del liberismo, il poco potere che resta all’individuo sembra risiedere nel mercato stesso. Edward Bernays, considerato il padre del moderno impianto delle pubbliche relazioni, vede la pubblicità come il mezzo principale per sostenere “la forza civilizzatrice del capitalismo”. I pubblicitari sarebbero di conseguenza “un governo invisibile che è la vera autorità dominante”. Questo è sufficiente per iniziare a comprendere l’importanza e il conseguente potere della propaganda pubblicitaria. Basta pensare che in un viaggio medio in metropolitana a Londra – della durata di circa 45 minuti – si è esposti a più di 130 pubblicità di più di 80 prodotti diversi. In una giornata se ne vedono circa 3500. I messaggi commerciali sono ovunque intorno a noi, è inevitabile che abbiano un’influenza diretta sulla nostra vita e le nostre abitudini.
Dato quindi per assodato il potere che la pubblicità ha sul nostro modo di pensare e di vedere il mondo, bisogna chiedersi che cosa sostituirà il desiderio sessuale accanto all’ultimo prodotto di marca per convincerci a comprarlo. E farlo è necessario se si vuole evitare di vivere in una bella illusione. Questa è la della “società dello spettacolo”: se la spettacolarizzazione di un determinato concetto non funziona più, quel concetto va sostituito. Dopotutto bisogna continuare a promuovere e vendere e per farlo la pubblicità è essenziale: se non è più il sesso a portare profitto attraverso la persuasione, dovrà essere qualcos’altro.
In realtà, però, è sbagliato porsi questa questione pensando (e parlando) al futuro, perché una trasformazione dei meccanismi pubblicitari è già in atto. Un punto d’inizio di questo cambiamento si può individuare facilmente nella campagna pubblicitaria di Adidas del 2004, quella che ha dato vita al famoso slogan della compagnia “Impossible is nothing”. Per averne una comprensione critica bisogna tornare al maggio del 1968, a una scritta su un muro di Parigi destinata a diventare il motto dei Situazionisti. Durante un’assemblea per i diritti dei lavoratori tenutasi in quel periodo, un sindacalista si era alzato al grido di protesta di: “Dobbiamo essere realistici, non possiamo pretendere l’impossibile!”. A questa esortazione alla moderazione, i gruppi politici che avrebbero poi occupato la Sorbona prima dell’estate risposero con la celebre scritta sul muro: “Siate realistici, pretendete l’impossibile”. Era nato un nuovo concetto, che portava con sé la possibilità di immaginare un mondo diverso: se pretendiamo l’impossibile, niente è impossibile.
Quasi quarant’anni dopo qualcuno negli uffici creativi di Adidas deve essersi ricordato questa storia. Da qui un’idea altrettanto rivoluzionaria, ma volta in questo caso a sostenere l’impianto sociale anziché a metterlo in discussione. “Impossible is nothing”, infatti, non è altro che la riconduzione nel mainstream di un ideale politico passato, che era nato come una forza dirompente di cambiamento e un’espressione di lotta. Non è l’unico caso: sono figli dello stesso meccanismo il “Just do it” di Nike, “Think different” di Apple, “Perché tu vali” di L’Oreal, “Ci sono cose che i soldi non possono comprare” di Mastercard e molti altri. Si prende un valore che concettualmente esprime una volontà di rivoluzione (agisci e basta, pensa diversamente, tu vali, i soldi non sono tutto) e lo si accosta al logo di una compagnia. Il consumatore sarà portato a pensare che l’azienda faccia di questi valori la propria missione quando, a ben vedere, il marchio esiste in antitesi a essi. Gli ideali che guidavano i giovani nelle proteste per le strade europee sono quindi svuotati e ridotti a un espediente per incrementare i profitti del sistema che non sono riusciti ad abbattere.
La parola “ideale”, nella società dei consumi, ha perso definitivamente la sua importanza, anche se oggi le cose stanno cambiando, e lo dimostrano movimenti come Fridays For Future o Black Lives Matter . Questo fatto, unito alla forza del patriarcato che ha alimentato un tale sistema, in fondo, è ciò che ha permesso la costituzione di un modello sociale in cui era accettabile (possiamo finalmente usare il passato) che il corpo femminile venisse visto e utilizzato come un oggetto tra gli altri oggetti. Senz’altro è stato compiuto uno sforzo ideologico e culturale in questo senso negli ultimi anni, che ha condotto a risultati come quello presentato dalla ricerca citata all’inizio. Questo tipo di lavoro, insieme alle nuove spinte a favore di una giustizia sociale, civile, climatica, sta facendo riscoprire la potenza delle idee a livello collettivo.
È bene prendere i risultati ottenuti come rinforzo positivo. Il mercato, però, si deve adattare e il capitalismo non sembra certo arrestare la sua corsa. Il meccanismo fondante della pubblicità è semplice: utilizza l’accostamento di idee e immagini per incrementare le vendite. È intuitivo che si usino, nella narrazione pubblicitaria, principi, oggetti, corpi, che siano apprezzati dalla popolazione target. È esattamente quello che sta avvenendo con gli slogan politici del passato, e che dà origine anche ai fenomeni del pinkwashing e del greenwashing nell’ambito del marketing e della comunicazione: si tratta banalmente di utilizzare, magari anche a sproposito, temi verso cui le persone – in questo caso i consumatori – dimostrano un interesse politico per riuscire a massimizzare i profitti.
Permettere che ideali politici come quelli degli anni Sessanta e Settanta del Novecento vengano utilizzati per alimentare oggi lo stesso sistema che volevano combattere è un fallimento abissale del nostro sistema di valori. L’aspetto più grave della questione è che ci siamo allontanati così tanto da quei ragazzi che cercavano di combattere le ingiustizie con una scritta su un muro, che ce ne andiamo in giro con i loro slogan addosso senza nemmeno sapere davvero che cosa significhino.
Un punto è stato segnato a favore del rispetto del corpo femminile e forse di una comunicazione più sana, ma non bisogna abbassare la guardia, è necessario anzi alzarla, tenere le idee e gli ideali al sicuro dalla logica del mercato, proprio perché abbiamo avuto prova di come la battaglia contro il potere possa essere vinta. Contro il riduzionismo della retorica mainstream l’arma più potente che ognuno di noi ha è di ritornare a quell’eredità di sogno che dobbiamo ai Situazionisti: se iniziassimo a pretendere l’impossibile, non comprando una maglietta ma agendo, qualcosa di concreto si potrebbe sicuramente ottenere.