Una parte significativa della nostra identità è definita dal tipo di lavoro che scegliamo o quello per il quale stiamo studiando. È naturale che ciò che facciamo, le attività con le quali riempiamo le nostre vite, formino la nostra personalità e l’idea che noi abbiamo di noi stessi, così come la vediamo allo specchio o la presentiamo agli altri. Tuttavia, l’erosione degli spazi extra lavorativi e del tempo libero ha ridotto molto di tutto questo semplicemente alla nostra vita professionale o di studenti. Per coloro che hanno un percorso delineato, e che ne sono felici, questo potrebbe non rappresentare un problema; per chi ha incontrato più difficoltà, materiali o personali, trovarsi fuori dal tracciato tradizionale, fatto di studio-lavoro-famiglia, può rappresentare un ostacolo insormontabile. Difficilmente accostati a questo genere di narrazione e spesso descritti semplicemente come scansafatiche o buoni a nulla, i Neet (Neither in employment, education or training) rappresentano una fetta rilevante dei giovani italiani.
Secondo gli ultimi dati dell’Istat, relativi al terzo trimestre di quest’anno, le persone tra i 15 e i 34 anni che vivono in Italia e non sono inserite in un percorso di studio, formazione o lavoro sono oltre 2 milioni, il 24,2% del totale dei ragazzi di quell’età. I dati Eurostat relativi al 2018, e che considerano la fascia 20-34, sono ancora più preoccupanti: con il 28,9% di Neet abbiamo vinto l’ennesima medaglia al disvalore tra i 28 Paesi membri, lontani dalla media europea del 16,5% e molto più vicini a Turchia e Montenegro. Non che sia un disonore di per sé non lavorare o non essere incasellati in un percorso di studi canonico, ma l’inattività tra i giovani è al contempo causa e conseguenza di un’esclusione sociale che ha gravi conseguenze non solo sull’individuo, ma su tutta la democrazia.
Distaccandosi con coraggio dalla semantica diffusa nel dibattito pubblico – specialmente quello politico – l’ultimo rapporto dell’Unicef intitolato Il silenzio dei Neet paragona il fenomeno a quello giapponese degli Hikikomori: adolescenti che decidono di ritirarsi dalla vita sociale, anche per lunghi periodi, schiacciati dalla pressione che l’eccessiva competitività e i falsi miti di successo impongono loro. Seppure possa sembrare lontano dalla nostra cultura o vissuto, è effettivamente possibile trovare delle analogie con quello che può accadere nella vita di un giovane italiano che ha affrontato il percorso verso l’età adulta durante gli anni dell’ultima crisi economica, cullato nella disillusione degli adulti di riferimento e contagiato dalla loro sfiducia verso le istituzioni e il futuro. Per comprendere però come siamo finiti ad avere il peggior dato sugli inattivi in Europa è necessario prendere in considerazione gli aspetti peculiari della società italiana, molto diversa da quella giapponese.
Prima di tutto, in Italia abbiamo un serio problema con il lavoro nero: in un Paese in cui 13 persone su 100 lavorano senza un contratto regolare (dati Istat 2017) è lecito pensare che una porzione dei Neet risulti inattiva perché lavora nell’economia sommersa e non perché sia a casa a leggere fumetti. Esistono poi gli impegni quotidiani non prettamente lavorativi, che spesso vanno a sostituire i servizi di base quando questi mancano; primo tra tutti l’asilo nido. Non è un caso se tre quarti di coloro che non lavorano e non sono disponibili a farlo (il 19% circa dei Neet) sono giovani donne impegnate nell’accudimento di figli o parenti non autosufficienti. C’è poi un altro dato che aiuta a comprendere il fenomeno nel nostro Paese, relativo alla dispersione scolastica: l’Italia in 20 anni ha perso 3 milioni di studenti, il risultato peggiore al mondo. Alcuni di loro hanno iniziato a lavorare (nel 2013 i bambini e ragazzi tra i 7 e i 15 anni che avevano avuto una qualche esperienza lavorativa erano quasi il 7% del totale dei loro coetanei), ma una buona parte potrebbe essere finita proprio nella categoria degli inattivi. Quasi la metà dei Neet, infatti, non ha terminato nemmeno il ciclo secondario superiore di 5 anni, molti hanno conseguito solo il diploma e “soltanto” l’11% ha rinunciato a lavorare e studiare dopo aver preso una laurea. Proprio quest’ultima cifra, infine, può offrire un’altra prospettiva sul fenomeno: in Italia, a differenza del resto d’Europa, solo poco più della metà dei laureati riesce a trovare un impiego entro tre anni dal conseguimento del titolo di studio, complice la mancanza di contiguità tra il mondo dell’università e quello professionale.
Alla luce di questi dati è evidente che finire in quella che la società ritiene l’infamante categoria dei Neet non è esattamente una scelta, ma una condizione legata a doppio filo con il genere di nascita, il contesto familiare e l’importanza che questo dà all’istruzione, la spendibilità dei propri titoli nel mondo del lavoro e, quindi, il valore del percorso di studio che si ha avuto la possibilità di intraprendere, il luogo in cui si cresce e le possibilità lavorative ed educazionali che offre. A conti fatti, è una questione di opportunità e le opportunità non sono uguali per tutti – nonostante il mito del self made man/woman. Per cercare una volta per tutte di allontanarsi dalla narrazione per cui i giovani che non lavorano o studiano non sarebbero pronti al sacrificio, sarebbero viziati e preferirebbero cazzeggiare piuttosto che investire nel proprio futuro, è fondamentale fare un discorso più ampio e riflettere sulle disuguaglianze nel nostro Paese.
È evidente che i soggetti che hanno più possibilità di finire nella categoria dei Neet sono quelli più vulnerabili: disabili, donne, persone provenienti da aree depresse o contesti familiari poveri, migranti. Più si scende lungo la scala sociale e più è alta la possibilità di perdersi, finire in un limbo in cui non si ha né la voglia di studiare, né la possibilità di lavorare, né la fiducia o i mezzi per cambiare le cose. Il fatto che questo venga sottolineato di rado ha certamente a che fare con le difficoltà che abbiamo nel mettere in discussione il concetto di meritocrazia, uno dei dogmi più persistenti della nostra società. Da quando i Paesi occidentali si sono trasformati in democrazie, il falso mito delle pari opportunità si è diffuso tanto che sembra impossibile metterne in dubbio la fondatezza, anche di fronte all’evidenza: il mondo in cui viviamo è molto più simile all’aristocrazia ereditaria di quanto non ci concediamo di ammettere. Anche se sulla carta nessuno vieta al figlio di un operaio di diventare ingegnere, quanto potrà risalire la scala sociale e arricchire il suo patrimonio è già sostanzialmente deciso.
In Italia un giovane su due eredita la condizione economica dei genitori e un terzo dei figli di poveri è destinato a rimanere tale, mentre quello di un dirigente, con pari titoli di studio, guadagnerà il 17% in più rispetto a loro. I figli dei meno abbienti dovranno faticare per 5 generazioni per arrivare a percepire un reddito medio, mentre il 5% della popolazione conserverà e continuerà a far crescere il suo patrimonio, pari a quelle del 90% più povero. In una società simile, pensare che il contesto familiare e culturale non influisca sulle reali opportunità di successo di qualcuno è ingenuo, o ipocrita. Fingere di aver contato solo sulle proprie capacità e guardare chi non ce l’ha fatta dall’alto in basso quando si proviene da una famiglia benestante è, quantomeno, poco onesto a livello intellettuale. Allo stesso modo come, all’alba del 2020, negare che anche il genere faccia la sua parte nel cristallizzare le situazioni di disuguaglianza è indice di un rifiuto, a questo punto patologico, di analizzare la realtà oggettiva.
Quello dei Neet è un problema che si è aggravato molto con la crisi economica del 2007/2008, ma non ha pesato allo stesso modo in tutto il mondo. L’Italia è stata travolta perché il nostro Paese ha investito pochissimo in istruzione e nell’appianamento delle disparità, tanto che siamo al 22esimo posto su 37 Paesi per divario nei risultati scolastici tra figli di ricchi e poveri. La classe dirigente non ha affrontato il fenomeno in maniera sistematica, ma ha preferito rifugiarsi dietro l’idea che i giovani fossero pigri, o che il reddito di cittadinanza fosse un disastro non perché pensato male e attuato peggio, ma perché avrebbe incentivato “i ragazzi del Sud a non fare niente”. Una narrazione che fa venire l’orticaria quando arriva dalla destra, e la voglia di stracciare la tessera elettorale quando abbracciata da esponenti del centrosinistra. Soprattutto, il problema dei Neet in Italia non è stato risolto perché non esiste ancora, dopo più di 10 anni di crisi economica e finanziaria, un reale progetto politico di redistribuzione del benessere e rafforzamento delle tutele sociali per tutte le categorie di cittadini.
In questi mesi la generazione Z si è affacciata, con la giusta prepotenza, al dibattito pubblico. È un’occasione d’oro per la politica di chiedere una seconda possibilità e riguadagnare una parte della sua credibilità, ascoltare ciò che gli adolescenti hanno da dire anche se per qualche anno ancora non voteranno, e cercare di intercettare le loro esigenze prima di vederle diventare dei problemi insormontabili.