Le molestie verso le studentesse nelle Università sono un enorme problema di cui non parla nessuno - THE VISION
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Venerdì 18 novembre un dipendente dell’università Federico II di Napoli è stato sottoposto agli arresti domiciliari con l’accusa di aver abusato sessualmente di sei studentesse nei locali dell’ateneo. A far partire le indagini era stata la denuncia di una studentessa che, a novembre 2021, aveva accusato l’uomo – un tecnico del Laboratorio di Biologia – di averla costretta a subire ripetutamente carezze e palpeggiamenti, con la minaccia di farle del male nel caso in cui avesse tentato di sottrarvisi. Il tecnico era stato sospeso dall’incarico e successivamente trasferito in un’altra sede, dove non avrebbe più avuto occasione di entrare in contatto con gli studenti; nel frattempo, altre cinque ex studentesse si erano fatte avanti con accuse simili, evidenziando come l’uomo avesse più volte manifestato comportamenti molesti nei loro confronti già a partire dal 2010. 

Si tratta dell’ultimo caso della lunga – e spesso sommersa – serie di molestie e coercizioni sessuali che da decenni si verificano all’interno degli atenei italiani – anche se, come evidenziato dalla Commissione Europea, il fenomeno si estende ben oltre i confini del nostro Paese. Solo due mesi fa, un docente del corso di Tecniche di radiologia medica della Statale di Milano è stato condannato in primo grado a due anni e mezzo di carcere per aver abusato, nel 2018, di due studentesse di 19 e 23 anni, rivolgendo loro apprezzamenti fisici durante le ore di lezione, sottoponendole a baci e massaggi non richiesti e arrivando a ricattare una di loro promettendole il superamento dell’esame in cambio di una prestazione sessuale. Lo scorso luglio, un ex docente della facoltà di Medicina della Sapienza di Roma è invece stato rinviato a giudizio con l’accusa di violenza sessuale nei confronti di due tirocinanti, per aver rivolto loro commenti a sfondo sessuale e averle palpeggiate durante i colloqui. Il processo è ancora in corso. Solo negli ultimi mesi, eventi simili hanno riguardato anche l’Università di Padova, alcuni atenei calabresi e, nel 2020, l’Università di Torino, ma l’elenco potrebbe continuare. 

Al di là dei luoghi in cui gli abusi si sarebbero verificati – aule, laboratori, ospedali o uffici dei docenti – ad accomunare tutti questi episodi è la netta sproporzione di forze che separa le persone accusate di molestia dalle presunte – quando non accertate – vittime. Se da un lato, infatti, è ormai ampiamente riconosciuto che la violenza di genere, in virtù della sua natura sistemica, trovi origine nell’implicita subordinazione della categoria femminile rispetto a quella maschile, a complicare ulteriormente la questione si ritrova l’enorme disparità di potere legata all’appartenenza di aggressore e aggredita ai due estremi opposti delle gerarchie accademiche – rispettivamente docente e studentessa o, in alternativa, tutor e tirocinante – e, non ultima, l’omertà che storicamente contraddistingue molti ambienti universitari, con promozioni e favoreggiamenti spesso promessi in cambio del silenzio. Tutto ciò non fa altro che amplificare la paura delle vittime a denunciare l’accaduto, per vergogna o paura di subire ritorsioni e pregiudicare così la propria carriera.

Le difficoltà a farsi largo nell’ambiente accademico senza incorrere in violenze o coercizioni appaiono ancora più evidenti nel caso delle discipline STEM (Science, Technology, Engineering and Mathematics)professore, dove il clima organizzativo sembrerebbe tollerare” maggiormente la messa in atto di molestie legate al genere rispetto alle facoltà più tipicamente “femminili”, come quelle umanistiche o socio-pedagogiche. A ciò si aggiunge il fatto che, nelle facoltà STEM, gli avanzamenti di carriera dipendono molto dal coinvolgimento di studenti e studentesse in borse di studio o dalla possibilità di accedere a dati e apparecchiature controllate dai docenti (quasi sempre maschi) – dinamiche che aumentano notevolmente la possibilità di subire ricatti. Un rischio ampiamente confermato anche dalla ricerca: stando al report del 2018 “Sexual harassment of women” pubblicato dal National Academies of Sciences, Engineering, and Medicine, infatti, in questi contesti fra il 20% e il 50% delle studentesse e oltre il 50% del personale universitario avrebbe subìto una qualche forma di molestia o coercizione sessuale nel corso della propria carriera accademica, un dato pressoché equivalente a quello italiano

Al di là di chi persegue una carriera scientifica, particolarmente esposte al rischio di subire molestie sessuali sono anche le dottorande, le assegniste di ricerca e le lavoratrici precarie – queste ultime giunte al primo contratto a tempo determinato dopo anni di esperienza accademica spesso frustrante, rigorosamente sottopagata e vissuta in un ambiente iper-competitivo. Di nuovo, la carriera di queste persone dipende non solo dai risultati raggiunti in termini di ricerca ma anche, in buona misura, dal sostegno e dalle eventuali raccomandazioni dei supervisori. Queste dinamiche amplificano ulteriormente gli squilibri di potere all’origine della violenza, alimentando, di conseguenza, la vulnerabilità delle persone che occupano i gradini più bassi della gerarchia.

Nella stragrande maggioranza dei casi, all’aumentare dell’intensità e della frequenza degli abusi corrisponde un drastico crollo del benessere fisico e psicologico delle vittime, per le quali l’aumento dei livelli di stress, ansia e sintomi depressivi si traduce non solo in una maggior sofferenza individuale, ma anche in un calo della produttività e nella difficoltà a interagire con i propri colleghi. Anche qualora le conseguenze non fossero immediate (non è raro che una persona riconosca di aver subìto una violenza solo in un secondo momento, magari grazie al confronto con altre persone che hanno vissuto esperienze simili), la quotidiana consapevolezza di costituire un potenziale bersaglio di ricatti, aggressioni o commenti inopportuni tende spesso a riflettersi in una maggior propensione ad assentarsi dal proprio luogo di studio o di ricerca (sia esso il dipartimento dell’Università o un reparto dell’ospedale) o, in alternativa, nella manifestazione di una minore ambizione a occupare posizioni di leadership – un ulteriore ostacolo che si aggiunge così alle difficoltà affrontate dalle donne per il raggiungimento dei ruoli apicali

A ciò si aggiunge, infine, il danno subìto dalla ricerca scientifica stessa a causa dell’allontanamento – o, nel migliore dei casi, del calo di motivazione – di studentesse e professioniste da aule e laboratori. Riprendendo il rapporto citato in precedenza, “L’effetto cumulativo delle molestie sessuali costituisce un grave danno per il progresso e una costosa perdita di talento nelle scienze, nell’ingegneria e nella medicina”. Proprio per questa ragione, continuano le autrici, le istituzioni accademiche dovrebbero considerare gli abusi sessuali alla stregua di altri comportamenti unanimemente ritenuti “pericolosi” per l’integrità della scienza, come il plagio o la falsificazione dei dati.

Nel tentativo di arginare il fenomeno e facilitare l’individuazione di chi agisce violenza all’interno degli atenei, negli ultimi anni diverse Università italiane si sono dotate di precisi “codici di condotta” contro le molestie sessuali – documenti all’interno dei quali le varie tipologie di molestia, i meccanismi di tutela di chi le subisce e le eventuali sanzioni per chi le agisce vengono definiti in modo puntuale – e di alcune cosiddette “consigliere di fiducia”, figure esterne (generalmente avvocate o psicologhe, più raramente professionisti uomini) alle quali chiunque frequenti l’ateneo può rivolgersi per segnalare eventuali discriminazioni, molestie o casi di mobbing. Sebbene si tratti senza dubbio di un passo in avanti, tuttavia, la paura di pregiudicare per sempre la propria carriera accademica continua a frenare sensibilmente la propensione delle vittime a riferire, anche solo oralmente, gli abusi subìti – per non parlare dell’eventuale formalizzazione della denuncia, conclusa in meno del 10% di casi.

Mentre negli atenei italiani la violenza maschile contro le donne rimane un fenomeno semi-sommerso, infine, un’invisibilizzazione ancora maggiore riguarda i casi in cui le persone abusanti sono donne, magari nei confronti di studenti maschi. Se da un lato, infatti, in questi casi lo squilibrio di potere basato sul genere viene a mancare, ciò non significa che il posizionamento gerarchico – con tutto il potere in mano alla docente – e l’eventuale relazione di “dipendenza” professionale esistente fra abusante e abusato non bastino a favorire la manifestazione di molestie fisiche o ricatti sessuali, resi ancora più difficili da riconoscere a causa delle aspettative sociali che vorrebbero l’uomo sempre e comunque parte attiva e predominante all’interno di un rapporto, e viceversa.

Non è una novità che, per le istituzioni italiane, la democratizzazione dell’istruzione, la tutela della salute fisica e mentale di studenti e studentesse e la promozione della ricerca non rappresentino delle priorità; il fatto che proprio l’ambiente universitario, nato per favorire lo scambio culturale e la crescita – personale e intellettuale – delle persone giovani rappresenti per molte di loro un luogo da cui stare alla larga dovrebbe farci riflettere, tuttavia, sul fallimento di un sistema politico e culturale in cui l’accesso a un determinato privilegio – sia esso legato al genere, all’età, alla professione o a tutte queste caratteristiche insieme – sembra sufficiente a giustificare qualsiasi modalità in cui tale privilegio viene esercitato, anche a discapito di chi non lo possiede. Sarebbe bello se, per una volta, a importare non fosse la salvaguardia del potere maschile, ma la tutela delle opportunità e dei diritti delle donne, a partire da quello di non essere molestate per il solo fatto di essere andate a lezione.

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