La boiler summer cup è solo l’ultimo esempio di una cultura della bellezza asfissiante e sbagliata - THE VISION

In queste settimane ha fatto molto discutere l’ultima challenge approdata su TikTok, la “Boiler Summer Cup”, una sfida in cui i ragazzi si aggiudicano un punteggio in base alla loro abilità di flirtare con la ragazza più grassa – e quindi, per loro, più brutta – incontrata in discoteca o in altri luoghi di aggregazione. Come è facile immaginare, la challenge è stata oggetto di numerose polemiche da parte di giornali e attiviste, giustamente indignate per l’incapacità dei partecipanti di riconoscerne la violenza implicita e preoccupante. Molti hanno cercato di sedare la discussione definendola un atto di goliardia o al massimo uno scherzo di cattivo gusto, qualcuno si è spinto a parlare di bullismo, ma purtroppo questa sfida rappresenta solo la punta di un iceberg che affonda in una società patriarcale che educa le donne ad aderire a standard estetici spesso impossibili da raggiungere e le punisce quando si rifiutano di accettarli.

La pressione estetica nei confronti del genere femminile non è una novità. Con il celebre Il mito della bellezza la giornalista Naomi Wolf ha sottolineato come le donne degli anni Novanta fossero costrette, molto più di coloro che le avevano precedute, a subire un ferreo giudizio sociale derivante dal loro aspetto. Con l’avvento delle nuove tecnologie, la possibilità di impartire questa “educazione alla bellezza” anche alle più giovani è cresciuta enormemente. In ragione dei loro contenuti accattivanti, semplici e replicabili, Tiktok, Facebook e Instagram costituiscono infatti l’ambiente perfetto per trasmettere l’idea che la bellezza sia un canone ideale, caratterizzato da misure e forme invariabili a cui tutte le donne dovrebbero aspirare, pena il rischio di apparire senza qualità ed essere per questo derise pubblicamente.

Naomi Wolf

Prima della boiler summer cup, sui social hanno imperversato altre challenge, tutte funzionali a trasmettere questo imperativo. Attraverso la bikini bridge, la thight gap o la paper waist challenge le ragazze confrontavano la sporgenza delle anche, lo spazio tra le cosce o la dimensione del girovita in una perversa gara in cui neanche a dirlo vinceva il corpo più sottile. Ogni foto, ogni post, era funzionale a ricevere ammirazione – o invidia – da parte delle altre concorrenti che potevano perpetrare la sfida postandone altre a loro volta. Queste gare dimostrano che la diet culture e l’obbligo a raggiungere un determinato canone estetico sono diventati estremamente pervasivi, ma per poter comprendere perché il genere femminile accetti questa imposizione è necessario osservare cosa si cela al di sotto del paradigma della bellezza. Lungi dall’essere solo un parametro con cui valutare l’aspetto esteriore, infatti, essa costituisce per le donne un meccanismo di controllo dei loro corpi. La bellezza, infatti, è particolarmente impattante sulla vita delle donne. Per la popolazione femminile costituisce una pressione continua, che comincia nell’infanzia e prosegue per il resto della vita. Le bambine iniziano a pensare al loro corpo intorno ai cinque anni: il 34% di loro si impone delle restrizioni alimentari, il 28% vorrebbe un fisico simile a quello delle donne viste nei film e in televisione.

La paper waist challenge

L’ideale della bellezza si riflette in modo diverso su uomini e donne anche perché le bambine crescono con la convinzione che sia un requisito femminile fondamentale. Per le ragazze, le possibilità di successo sul piano lavorativo o personale sono strettamente correlate all’esteriorità e per questo la pressione estetica sulle loro vite ha un peso enorme. Anche i ragazzi non sono immuni da alcune richieste sul piano estetico, tuttavia la loro identità non si costruisce in funzione del loro aspetto. Il minore impatto che il canone estetico ha nella loro vita si traduce così in un giudizio più generoso verso il loro corpo: secondo una ricerca condotta in Texas, ad esempio, i ragazzi tendono a sopravvalutare il loro fisico, diversamente da quanto accade alle ragazze.

Le donne sono immerse in una cultura che le costringe a concentrarsi costantemente sulla propria immagine e che assicura loro che anche gli altri lo faranno. Nonostante il canone estetico sia spesso irraggiungibile e irreale, vengono invitate ad aderirvi il più possibile, a qualsiasi costo. Per farlo sono costrette a sacrificare non solo tempo e denaro, ma anche quello spazio mentale che potrebbe essere dedicato al tempo libero, agli affetti o al lavoro. Uno dei pensieri ricorrenti è l’habitual body monitoring, un’idea ossessiva che ricorre all’incirca ogni trenta secondi e costringe le donne a compiere un rapido check mentale per assicurarsi di essere impeccabili agli occhi degli altri, indipendentemente dal fatto che qualcuno le stia guardando.

L’habitual body monitoring è una forma di auto-oggettivazione e proprio attraverso questa pratica le donne imparano a guardarsi dalla prospettiva di un estraneo, smettono quindi progressivamente di percepirsi come soggetti per diventare oggetti, corpi da paragonare a quelli altrui. Questo continuo confronto genera insoddisfazione, stati d’ansia e depressione, soprattutto quando ha per oggetto influencer e persone famose la cui immagine appare irreale a causa del ricorso alla chirurgia estetica o, più semplicemente, alla postproduzione delle immagini. Il marketing e la pubblicità poi spesso veicolano il messaggio per cui essere magre equivale a essere più sane, più soddisfatte di sé e più apprezzate dagli altri, ma queste categorie, in realtà, non possiedono sempre un legame tra loro. A volte poi – come fa notare la psicologa Renee Engeln in Beauty Mania. Quando la bellezza diventa ossessione – il “non essere magre è percepito come un profondo difetto caratteriale che […] denota pigrizia, ingordigia e mancanza di disciplina”. Se questi sono i preconcetti associati alla grassezza, è facile capire perché la popolazione femminile cerchi di contrastarla con ogni mezzo e alimenti involontariamente la grassofobia.

Secondo alcuni, l’unico modo per tutelare le utenti è sottoporre a un controllo più ferreo le piattaforme, bloccando sul nascere questi contenuti. Si tratta però di una soluzione miope e parziale perché, come si è cercato di mettere in evidenza, il mito della magrezza, una volta introiettato, agisce sulle donne indipendentemente dalla loro volontà. Si possono monitorare i social per impedire la pubblicazione delle challenge, ma ciò non intaccherà la pressione verso un ideale estetico irraggiungibile. Secondo altri, una buona soluzione potrebbe essere quella dell’alfabetizzazione mediatica, che consiste nell’educare le giovani a leggere criticamente le immagini mediatiche femminili. Secondo Engeln, questa proposta è fondamentale nell’infanzia: alcuni studi dimostrano che le bambine tra gli otto e i dodici anni che sono state sottoposte a questi programmi riscontrano una minor interiorizzazione dell’ideale della magrezza e una riduzione dell’ansia collegata al peso. Tuttavia, questa soluzione appare fragile nei confronti delle adolescenti e delle adulte.

Una maggiore informazione non è sufficiente a proteggere dall’ideale della bellezza perché ancora molti elementi della nostra cultura ci assicurano che la felicità dipende dal suo raggiungimento. Per le donne, infatti, la bellezza rappresenta una fonte di potere, forse l’unica su cui hanno un accesso appartenente diretto. La società le invita a curare il proprio aspetto perché esso costituisce in molti casi la moneta di scambio più importante per ottenere prestigio e valore sul piano personale. Anzi, in alcuni casi l’alfabetizzazione mediatica risulta controproducente, in particolare nei confronti di quelle ragazze che hanno già sviluppato disturbi legati all’immagine corporea. Per leggere le immagini in modo critico serve concentrazione ed è controindicato far soffermare a lungo le ragazze su immagini che propongono un’ideale di bellezza irrealizzabile, a cui però hanno già imparato ad aspirare. 

Ogni soluzione può risultare approssimativa se non si lavora, su un piano più profondo, per produrre un vero e proprio cambio di paradigma. Si può iniziare provando a considerare il proprio corpo al di là del dato estetico, osservandone e apprezzandone le sue funzioni, ciò che ci permette di fare. Un’altra azione importante consiste nell’interrompere i cosiddetti “fat talks”, cioè tutti quei discorsi che ruotano intorno alla forma fisica, alla pancia, al grasso o alla cellulite. Secondo un recente studio, non a caso, le donne adulte meno soddisfatte del loro corpo sono quelle che, durante l’infanzia, sono state oggetto di commenti negativi da parte dei componenti della loro famiglia. In definitiva, per agire questo cambiamento la prospettiva femminista può costituire un’alleata importate, in grado di rivelare il peso culturale della dimensione estetica e la sua commistione con la sfaccettatura più pericolosa del sessismo, quello interiorizzato.

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