Gli standard di bellezza maschili esistono. E fanno male agli uomini.

Il movimento della body positivity si è rivelato un fallimento. Lo dicono un po’ tutti, non solo gli scettici della prima ora, ma anche molte femministe che inizialmente ci avevano creduto. La disfatta definitiva è stata la sua appropriazione come strategia di marketing per i prodotti dietetici: siccome l’idea dell’accettarsi come si è va poco d’accordo con i beveroni dimagranti, si è ben pensato di ribaltare in modo perverso il meccanismo retorico: i beveroni dimagranti li bevi proprio perché ti fanno sentire meglio, più in forma, in salute, positiva nei confronti del tuo corpo. In realtà, le avvisaglie della fine del movimento body positive erano chiare sin dal momento in cui si è capito che il discorso valeva solo per alcuni corpi, mentre gli altri potevano continuare a sentirsi tagliati fuori. Tra questi corpi esclusi ci sono anche quelli maschili. 

Gli standard di bellezza non esistono solo per le donne, ma anche per gli uomini, e possono essere altrettanto irraggiungibili e mortificanti. Anche gli uomini si sentono a disagio se sono troppo bassi o troppo alti, troppo magri o troppo grassi, se perdono i capelli o se non riescono a farsi crescere la barba. Ma il loro disagio non è percepito come tale. Per lungo tempo, l’unico capitale a disposizione della donna è stato la sua bellezza, mentre l’uomo poteva disporre di altre “qualità”: il potere, la ricchezza, il lignaggio, la cultura. Ma questo non significa che l’uomo sia sempre stato del tutto immune al raggiungimento di uno standard estetico: forse i lineamenti del viso contavano meno, ma di certo era fondamentale essere forti, muscolosi, prestanti, alti, proprio perché queste caratteristiche erano considerate come la materializzazione fisica del potere maschile e patriarcale. Un altro requisito fondamentale era la virilità, tanto che in varie epoche divenne di moda imbottire i pantaloni con l’ovatta per far sembrare più grossi i genitali.

In epoca moderna, tutto questo si è tramutato nel codice della mascolinità che prevede un orizzonte abbastanza limitante. Definire questo concetto è una delle sfide aperte più complesse per i gender studies. Negli anni Ottanta, la sociologa Raewyn Connell coniò il termine “mascolinità egemone” per tentare di descrivere le dinamiche di potere maschile coniugando la differenza di genere con la disuguaglianza sociale. La teoria nacque sulla base dello studio delle relazioni tra gli studenti di una scuola superiore australiana. Ponendo che ne esista una egemone, Connell teorizza l’esistenza di diversi modelli di mascolinità, organizzati in modo gerarchico, che si influenzano reciprocamente. In questo, non si può tralasciare il ruolo del corpo, che per la studiosa (che per lungo tempo ha osservato competizioni sportive come la famosa gara di triathlon IronMan) diventa un mezzo di espressione del potere virile. 

Oltre ai muscoli e alla prestanza fisica, negli ultimi anni gli uomini hanno conosciuto standard di bellezza diversi. Nel 1994, in un famoso articolo sull’Independent, il giornalista Mark Simpson coniò il termine “metrosexual” per riferirsi a una nuova generazione di uomini, esemplificati nel modello di riferimento David Beckham, “single, con una grande disponibilità economica, che vivono o lavorano in città, che usano il dopobarba Davidoff ‘Cool Water’ (quello col bodybuilder nudo sulla spiaggia), giacche Paul Smith (le indossa Ryan Giggs) […] e intimo Calvin Klein (Marky Mark non indossa altro). L’uomo metrosexual è un feticista della merce: un collezionista di fantasie sul maschio che gli sono state vendute dalla pubblicità”. L’avvento di questa nuova categoria ha problematizzato la mascolinità: accanto all’ideale di maschio all’ennesima potenza si è aggiunto un nuovo uomo stranamente interessato alla cura di sé. 

Simpson ha fatto notare come il metrosexual sia una categoria inventata e spinta dal mondo della moda maschile, perché il “maschio tipo” non aveva alcun interesse per lo shopping. Le aziende così hanno potuto intercettare un nuovo cliente: le persone gay che proprio in quegli anni, soprattutto nelle grandi città, completavano la loro liberazione e potevano finalmente vivere allo scoperto. Sarebbe però stato assurdo limitarsi a una fetta di mercato così ristretta e per questo le pubblicità hanno continuato a scegliere testimonial inequivocabilmente eterosessuali, oppure fotografati mentre erano intenti a sedurre donne o a spogliarle con uno schiocco di dita. 

Con il metrosexual si è creato il paradosso di un nuovo modello di mascolinità al tempo stesso attraente e respingente: la cura del corpo maschile veniva esaltata e insieme stigmatizzata perché considerata una “cosa da gay”. Oggi la categoria metrosexual è stata superata, ma resta l’impossibilità per gli uomini di prendersi cura di sé – per esempio depilandosi – senza essere ridicolizzati. Intanto i modelli di perfezione maschile restano i soliti: i muscoli, l’altezza, la barba, la mascella strutturata. 

Alcune questioni sono rimaste immutate nel tempo, come quella delle dimensioni del pene, e ancora oggi rappresentano un metro di paragone fondamentale per l’autostima maschile. Secondo Chris Hemmings, autore del saggio Be a Man, tutta la vita dell’uomo si baserebbe sul valore delle proprie dimensioni, dal pene, ai muscoli, al portafoglio: “La dimensione generale di noi stessi diventa inestricabilmente connessa al nostro senso di autostima e, con essa, la vergogna e l’imbarazzo di non poter competere”. Il problema del dick shaming è più complesso di quanto sembri: questa forma di discriminazione è molto diffusa, dalla classica dinamica “da spogliatoio” all’insulto preferito delle donne per umiliare un ex fidanzato. Il 68% degli uomini eterosessuali ha dei problemi con le proprie dimensioni e, soprattutto, crede che la lunghezza media del pene sia molto più superiore a quella che in effetti è. 

I maschi sono così al centro di una sovrapposizione di stimoli diversi, di aspettative di virilità abbastanza irrealistiche e chiunque non si conformi ai modelli di mascolinità viene escluso. Se ci aggiungiamo il fatto che per un uomo non è previsto o è difficile esternare le proprie fragilità (soprattutto riguardo un argomento così “femminile” come quello della percezione del corpo), non risulta strano che secondo una ricerca condotta da Antonios Dakanalis dell’Università degli Studi di Milano-Bicocca, l’80% degli studenti universitari sia insoddisfatto del proprio corpo. Non tutti sviluppano un disturbo alimentare: la maggior parte di loro è però affetta da ansia sociale, perfezionismo (con conseguente eccessivo ricorso all’esercizio fisico) e continuo monitoraggio del corpo (inteso come guardarsi allo specchio, toccarsi i muscoli ecc.). 

Anche il ricorso ai trattamenti estetici è cresciuto esponenzialmente negli ultimi anni: il 46% degli uomini si depila, le linee di make-up e di skin care per maschi sono sempre più diffuse, e aumentano anche coloro che ricorrono a interventi di chirurgia plastica. Come possiamo interpretare questi dati? Senz’altro come l’avvento di un’idea più fluida di genere (dal momento che storicamente queste attività erano riservate alle donne), ma anche come una maggiore pressione negli uomini nella rincorsa e nel raggiungimento di un certo standard. 

Certamente, gli uomini subiscono un condizionamento molto diverso da quello delle donne, anche perché come si è già detto all’uomo sono riconosciute con maggiore facilità altre caratteristiche di potere oltre alla bellezza estetica. Le donne però hanno reti di supporto: il movimento body positive per esempio, pur con tutte le sue contraddizioni, ma soprattutto la vicinanza e il supporto delle altre donne. Qualsiasi sia la caratteristica fisica che ci fa stare male, possiamo confrontarci con altre persone che soffrono per la stessa condizione. Tra femmine è normale aprirsi sulle questioni che riguardano il corpo, mentre in generale gli uomini sono più isolati, faticano a fare conversazioni intime con gli amici e tendono a non mostrare le loro emozioni

Se gli uomini vogliono migliorare il rapporto con la propria immagine, è necessario rifarsi a quell’idea di molteplicità di mascolinità di cui si è occupata Raewyn Connell. La sociologa lamenta un uso errato del termine da lei coniato per riferirsi a una serie di stereotipi maschili che rischiano di ricondurre il discorso al mero modello del “macho” che non deve chiedere mai. “La mascolinità”, afferma Connell nel paper Hegemonic Masculinity: Rethinking the Concept, “non è un’entità fissa incarnata nel corpo né un tratto della personalità di un individuo. Le mascolinità sono configurazioni di pratiche che vengono assunte nell’azione sociale e, di conseguenza, possono differire a seconda delle relazioni di genere in un particolare contesto sociale”. 

Bisogna replicare il lavoro che le femministe hanno fatto per decenni con la decostruzione del concetto di femminilità, ovvero non lasciare che prevalga una sola narrazione, un solo stereotipo o un solo ruolo di genere precostruito. Non basta sperare che tutto a un tratto arrivi un qualche movimento body positive al maschile. Sono gli uomini in prima persona che devono attivamente prendere consapevolezza dei limiti e dei divieti che la società impone al loro genere, come quello di mostrarsi fragili, e porsi in modo critico nei confronti del sistema patriarcale. 

Degli stereotipi legati alla femminilità si parla, giustamente, in modo sempre più critico. Non perché un bel giorno si è deciso che fossero mortificanti e sbagliati, ma perché qualcuno – le donne – ha lottato affinché diventare la casalinga perfetta non fosse l’unico orizzonte di possibilità. Gli uomini sembrano essere più restii a fare rete per fronteggiare i problemi di genere. Basti pensare alle polemiche suscitate dal famoso spot di Gillette sulla mascolinità tossica, che anziché venire apprezzato per aver mostrato un modello positivo o quantomeno alternativo, è stato percepito come un attacco. Oppure al modo in cui Alicia Walker, una ricercatrice che stava conducendo uno studio sul legame tra dimensione del pene e bassa autostima, è stata bersagliata da una shitstorm online e costretta a chiudere la ricerca. 

Nel femminismo c’è posto per tutti quanti vogliano dare una mano ad abbattere gli stereotipi di genere. Ma sono gli uomini a doversi impegnare per primi a cambiare le cose per loro stessi, prima che della loro lotta si impossessi qualche azienda di beveroni dimagranti. 

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