Alcune questure di importanti città italiane, come Napoli, Salerno e Venezia, da anni stanno sperimentando l’uso di tecnologia d’avanguardia nella lotta alla criminalità. Uno di questi è X LAW, un progetto sviluppato in Italia che sfrutta le potenzialità del machine learning per prevenire i reati. La software house si vanta di poter prevedere scientificamente dove avverrà un reato nel territorio cittadino, emettendo allarmi “predittivi georeferenziati”, cioè indicando un luogo come potenziale scena di un futuro reato. Come si spiega sul sito, si può così agire in modo anticipato sull’illecito, predisponendo controlli di polizia lì dove dovrebbe avvenire il crimine per ostacolarlo.
Questo metodo di “targeting anticipato”, ovvero la pratica con cui si individuano gli obiettivi di un’operazione prima che diventino soggetti dell’azione, è solo uno degli esempi dell’evoluzione che sta avvenendo nelle nostre città e, più in generale, un segnale dell’indirizzo che sta prendendo la politica a livello globale nell’affrontare il problema della sicurezza urbana, soprattutto nelle periferie. L’uso di tecnologie sempre più sofisticate da applicare al controllo dell’ambiente urbano è una prassi ormai consolidata nel mondo, così come l’approccio militare alla governance cittadina.
Nel suo articolo “Città come campi di battaglia: il nuovo urbanismo militare, pubblicato sulla rivista City e diventato un punto di riferimento per gli studi urbani, il professor Stephen Graham dell’Università di Newcastle, nota una costante militarizzazione della vita civile, basata sull’entusiasmo per quanto offrono le nuove tecnologie di controllo. Queste sono in grado di sfruttare la rete di consumo e mobilità già esistente nelle città, e l’accesso ai database di sorveglianza, per identificare cittadini classificabili come potenziali minacce alla sicurezza. L’idea è quella di applicare alla città il modello di controlli tipico di un aeroporto tramite l’uso di tecnologie come la videosorveglianza, il tracciamento biometrico e i droni equipaggiati con nuove piattaforme satellitari, recentemente sperimentati a Torino. Inoltre, vengono implementate tutta una serie di tattiche già in uso in zone urbane militarizzate come Baghdad o Gaza: dalla creazione di aree di protezione fortificate intorno ai centri finanziari o politici all’uso di armi non letali per il controllo dell’ordine pubblico durante le manifestazioni. In contesti di applicazione del diritto civile viene già ora eseguita un’identificazione sociale delle persone, spiega Graham, affiancata, quando non sostituita, dalla distinzione dei civili in possibili “bersagli”. La militarizzazione urbana non si limita all’uso di tecnologie innovative. Nella trasformazione della città in un campo di battaglia, sono utilizzati anche strumenti culturali e linguistici che riverberano il contesto militare, nei discorsi politici e sulle pagine dei giornali. Questo è visibile soprattutto quando si parla di periferia, che diventa teatro di “guerra tra poveri”, “guerra allo spaccio”, e “guerra” tra istituzioni e criminalità o fondamentalismo religioso (quest’ultimo specialmente dopo gli attentati in Francia tra il 2015 e 2016).
Anche in Italia le politiche sulla sicurezza nelle città stanno avendo un ruolo sempre più importante nel dibattito pubblico e destano un rinnovato interesse nelle amministrazioni. Il “Paese dei mille campanili”, sebbene a fasi alterne, non è infatti esente dalla spinta centripeta verso agglomerati urbani sempre più vasti. In una realtà come quella italiana, i cittadini urbani sono il 36% del totale, circa 22 milioni secondo l’Istat, e la città è al centro dei flussi globali di persone e merci, generando la maggior parte della ricchezza prodotta sul territorio nazionale. Per capire come gestire questa nuova dimensione urbana dal peso sempre maggiore, è stata istituita la Commissione parlamentare d’inchiesta sulle condizioni di sicurezza e sullo stato di degrado delle città e delle loro periferie nel 2016.
Il report presentato dalla Commissione dipinge un quadro alquanto sconfortante. La periferia emerge come area in cui vive la maggior parte dei cittadini urbani (l’83% secondo i dati dell’Eurostat), ma anche quella in in cui si riscontrano maggiori fenomeni di illegalità. Teatro di “conflitto sociale tra ceti deboli, fra italiani impoveriti e migranti senza certa collocazione”, recita la relazione, e in cui il degrado ambientale e abitativo e la mancanza di servizi pubblici e presidi istituzionali lasciano ampio margine di azione alla criminalità organizzata e all’abusivismo. Le linee d’azione indicate dalla Commissione sono state essenzialmente due: la rigenerazione urbana (di cui un esempio è l’abbattimento delle Vele di Scampia) e il rafforzamento del controllo sul territorio con l’implementazione delle politiche sulla sicurezza. In quest’ultimo ambito il dossier fa riferimento alla celebre “teoria delle finestre rotte” brevettata nella New York di Rudy Giuliani per combattere il degrado, identificato come uno dei maggiori elementi che danno una percezione di insicurezza anche nelle periferie italiane, dove pure si registra un calo significativo dei principali reati (tranne dei femminicidi).
La Commissione raccomanda l’“utilizzo di tutte le forme di sicurezza passiva” anche attraverso la tecnologia. In questo senso, un mezzo su cui si è fatto leva è quello della videosorveglianza, per la cui installazione, con il decreto legge del 20 febbraio 2017, si sono erogati milioni di euro in finanziamenti per i comuni che ne facevano richiesta. In particolare, nel triennio 2017-2019 sono stati stanziati 37 milioni di euro per l’installazione di “piattaforme di videosorveglianza 2.0 che prevedono anche la partecipazione di soggetti privati”. L’accordo della Conferenza Stato, città ed autonomie locali del 26 luglio 2018 ha introdotto altre direttive per l’attuazione della sicurezza urbana. Si prevede la partecipazione attiva dei cittadini, con l’istituzione di assistenti civici volontari che affianchino la polizia nel controllo del territorio; l’introduzione del daspo urbano negli spazi pubblici; il partenariato con soggetti privati per l’erogazione di servizi di controllo del territorio, non più di esclusiva competenza di enti pubblici. La partecipazione dell’impresa privata nella fornitura di competenze e prodotti allo Stato non è cosa nuova nell’ambito della sicurezza. X LAW non è l’unico software di polizia predittiva che si sta sperimentando nelle questure italiane. Un altro è KeyCrime, ideato dall’ex assistente capo della questura di Milano Mario Venturi, fondatore della start up che ha sviluppato il programma. KeyCrime si avvale dei dati disponibili sul comportamento della persona che ha compiuto il reato, li analizza e individua i crimini che potrebbero avere lo stesso autore, prevedendo anche il luogo in cui potrebbe avvenire il prossimo colpo. Conserva quindi anche i dati relativi all’etnia, definiti “fondamentali” da Venturi in un’intervista a Wired. Il problema è che spesso questo si traduce in una profilazione etnica, in cui ancora una volta sono le minoranze a essere penalizzate. Il rischio è un aumento di controlli verso zone considerate disagiate o residenti stranieri che le abitano, aumentando i preconcetti già esistenti verso queste due categorie e la loro marginalizzazione.
Non a caso è partita l’operazione “Periferie sicure”, attuata nei primi mesi del 2019 con lo scopo di rafforzare “il contrasto all’illegalità diffusa soprattutto nelle aree periferiche delle città, spesso caratterizzate da fenomeni di irregolarità e degrado”. L’attenzione di questa operazione, che ha messo in campo 7mila agenti della Polizia in 18 città italiane, si rivolge prevalentemente al contrasto dello spaccio e a controlli serrati sui quartieri identificati come centri della “movida”.
La maggiore presenza delle forze dell’ordine sul territorio è stata ulteriormente rafforzata dall’operazione “Strade Sicure”, in cui un contingente militare “agisce con le funzioni di agente di pubblica sicurezza”. L’operazione, la più pesante in termini di risorse impiegate per l’esercito, è stata prorogata ininterrottamente dal 2008 generando una percezione costante di città “blindata”, in cui personale armato presidia i luoghi di aggregazione, diventando sfondo della nostra socialità.
Un altro esempio di militarizzazione urbana è quanto avvenuto nei quartieri torinesi di Barriera di Milano e Aurora con l’operazione “Scintilla”. Queste due zone hanno tutte le caratteristiche associate alla periferia: criminalità diffusa, marginalizzazione sociale, alta presenza di cittadini stranieri, occupazioni abitative anche di gruppi autonomi e squatter. L’operazione è stata attuata per lo sgombero dell’“Asilo occupato”, edificio in cui si concentrava la comunità anarchica torinese. Nei mesi seguenti allo sgombero, i residenti di Aurora hanno visto una massiccia implementazione della presenza della polizia su tutto il territorio, con presidi permanenti, blocchi stradali e controllo dei documenti ai cittadini che entravano e uscivano dal quartiere. Allo stesso tempo, in questo ambiente urbano fragile, sono mancati programmi di lotta all’esclusione sociale, alla disoccupazione e per l’integrazione. Ad oggi i quartieri sono spesso teatri di scontri tra residenti e forze dell’ordine, dove i primi denunciano abusi da parte dei secondi, e allo stesso tempo di fenomeni criminali diffusi.
Alla richiesta dei cittadini di una maggiore presenza dello Stato nei quartieri più a rischio, si è risposto con un aumento del controllo, sfumando i confini tra civile e militare, pubblico e privato. Controllo che si ramifica in ogni aspetto della vita del quotidiano, compresi gli spazi virtuali, che forniscono quei dati indispensabili al funzionamento della macchina. Le ricadute sociali di queste politiche securitarie, se non accompagnate da un impegno altrettanto intenso per quanto riguarda politiche di sviluppo, abitative e di integrazione, sono per il momento solo un’ulteriore emarginazione degli spazi periferici e dei suoi abitanti, una ghettizzazione altamente tecnologica di interi quartieri e la profilazione delle persone che ci vivono.