Gli italiani sono tra gli ultimi posti in Europa in quanto a benessere e salute mentale, lo conferma il “Mind Health Report 2023” condotto da Ipsos su un campione di 30mila 600 persone scelte tra 16 diversi Paesi del mondo. Da questa raccolta dati è emerso anche che il grado di malessere e infelicità che si registra in Italia è tra i più alti, in particolare quando collegato al senso di solitudine. Un dato allarmante, che vede nelle nuove generazioni i soggetti più a rischio e che trova riscontro nell’impennata di suicidi e tentativi suicidari in Italia negli ultimi tempi, proprio nella fascia più giovane della popolazione, e che dovrebbe farci riflettere sulle ragioni profonde che alimentano un malessere diffuso che, piuttosto che diminuire, aumenta. In base a quanto dichiarato dal campione oggetto dello studio, tra le cause principali dell’infelicità figurano lo stress psicologico, l’incertezza e la precarietà del futuro, ma anche, appunto, la solitudine, una percezione negativa del proprio aspetto fisico e l’ansia legata al cambiamento climatico. Inoltre, per il 38% dei giovani intervistati, i social e le nuove tecnologie – così come l’uso compulsivo che spesso se ne fa – hanno un impatto negativo sulla salute psicologica, acuendo malessere e insoddisfazione.
Oltre alle concrete problematiche che i giovani devono affrontare oggi, che li portano a sviluppare stress, ansia e malessere profondi, un altro aspetto che amplifica il loro disagio è la narrazione dannosa, oltre che non veritiera, che i più grandi continuano a fare rispetto alle nuove generazioni, e alla loro presunta incapacità di maturare e farsi valere, per esempio, nel mondo del lavoro e nella società. Le dichiarazioni del sindaco di Venezia Luigi Brugnaro di qualche settimana fa sono un esempio lampante di quanto, nonostante tutti abbiamo davanti agli occhi le grandi difficoltà che i giovani, oggi in particolare, devono affrontare per realizzarsi in ambito professionale – dai costi, per esempio, per mantenersi all’università, specialmente per chi è fuori sede e deve appunto sostenere le spese di un affitto, alla difficoltà di trovare un posto di lavoro adeguatamente retribuito, anche quando si è studiato a lungo e con profitto – si continui a sparare a zero sulle nuove generazioni sminuendole con considerazioni irricevibili.
Le dichiarazioni di Brugnaro hanno fatto seguito alla protesta di molti ragazzi che, contro il caro affitti, hanno deciso di scendere in piazza in diverse città d’Italia e dormire in tenda, seguendo l’esempio della studentessa Ilaria Lamera che, per prima, si era accampata per alcune notti di fronte al Politecnico di Milano. Interpellato sulla vicenda, Brugnaro ha sentenziato: “Sbagliano i giovani. L’altro giorno viene un ragazzo da me, e mi dice che aveva trovato un posto letto a 700 euro. Gli ho risposto ‘tu non meriti di laurearti, perché se ti fai fregare 700 euro per un posto letto non meriti di diventare classe dirigente’. Brugnaro ha poi continuato: “Io andavo anche a lavorare durante l’università. Se vuoi studiare e andare a bere lo spritz, dico che se te lo puoi permettere fallo pure”, e ha poi aggiunto che in realtà basterebbe essere disposti a spostarsi in periferia per trovare affitti meno costosi. Tutte considerazioni che sono un tale concentrato di messaggi sbagliati, stereotipati e offensivi, nonché inutilmente paternalistici, da farci riflettere su una consuetudine che non accenna a contrarsi ma, al contrario, si espande: quella di una casta di gerontocrati che sminuiscono i giovani e danno loro addosso con considerazioni spesso superficiali, e che sembrano ignorare del tutto le difficoltà che questi ultimi affrontano quotidianamente per studiare e garantirsi un futuro.
Bisogna sottolineare che attribuire agli studenti la responsabilità dell’aumento vertiginoso degli affitti e non, per esempio, all’assenza totale di politiche che fissino un tetto massimo nei costi di stanze e monolocali, contribuisce a caricare i giovani di un peso che non possono portare sulle spalle; inoltre, trattandoli non troppo indirettamente come degli sciocchi che, addirittura, se accettano di pagare cifre spropositate per una stanza non meriterebbero di laurearsi e realizzarsi, si finisce per far passare il messaggio che lo studio sia un merito che si conquista mostrandosi astuti, piuttosto che un diritto in quello che dovrebbe essere un welfare state.
Piuttosto che sostenere i giovani nella costruzione di un futuro che richiede enormi sacrifici e in cambio non garantisce nulla, i più anziani sembrano preferire sminuirli costantemente e, di contro, autoincensarsi. Sottolineando che, ai tempi in cui studiavano loro all’università e andavano contestualmente a lavorare (come se oggi non esistessero studenti-lavoratori), spesso accusano non troppo velatamente gli studenti di oggi di essere meno disposti alla fatica e al duro lavoro di quanto non fossero loro da giovani, aderendo al solito luogo comune secondo cui i ragazzi del nostro millennio sono molli, eterni bambini e pure un po’ sfaticati; persone che avrebbero tutti gli strumenti per farcela ma che, semplicemente, non ne hanno la voglia. Ma questo scenario non è realistico poiché, oltre a dover far fronte alla precarietà generalizzata, le nuove generazioni si ritrovano schiacciate da una società che propone loro un unico modello di realizzazione e di successo possibili, che li incastra in un meccanismo performativo usurante al quale è molto difficile sottrarsi ma che, allo stesso tempo, li priva della possibilità concreta di realizzarsi.
La forma mentis della nostra società fa sì che, per ritenere di avercela fatta, ciascuno aderisca a un modello preconfezionato adulto con un lavoro e un’indipendenza economica, magari con una casa di proprietà, una famiglia e dei figli; non possiamo negare che questo sia il modello in cui, per convenzione, rintracciamo il nostro successo personale, mentre aspetti come la salute psicologica, la consapevolezza emotiva, la conoscenza di sé, la capacità di individuare le proprie aspirazioni e autentici bisogni – e non quelli indotti e stereotipati – e quella di prendersi cura di sé e degli altri, tutti fattori essenziali in un percorso che tenda all’autorealizzazione, vengano costantemente trascurati e ignorati dalla società. A partire da questo presupposto, per esempio, possiamo pretendere indirettamente dai giovani – come qualcuno ha preteso da noi quando avevamo la loro età – che antepongano il buon voto a scuola o a un esame universitario, o l’eccellenza in una prestazione sportiva, ai segnali che il corpo e la mente inviano e che magari rivelano scarsa cura di sé o un malessere più profondo. Chiediamo loro di conquistare un traguardo dopo l’altro, più in fretta possibile, e se non lo fanno li etichettiamo come indolenti e fannulloni, se invece corrispondono alle nostre aspettative, al loro primo fallimento – perché è chiaro che chiunque, anche uno studente o lavoratore indefesso, prima o dopo fallisca – noi siamo comunque pronti ad addossare loro tutta la colpa. Così, mentre i giovani si perdono in una ossessione prestazionale indotta, devono pure fare i conti con una società che, da anni, getta le basi per la loro precarietà e frustrazione eterna, sul piano professionale, economico e affettivo.
E in questo quadro drammatico, i gerontocrati fanno tutto tranne ciò che andrebbe fatto: mettersi in discussione, perché le problematiche con cui quotidianamente si confrontano le nuove generazioni sono, in buona parte, il prodotto dell’operato di chi oggi ha 50 o 60 anni e, dall’alto dei propri privilegi, si permette di giudicare e pontificare con considerazioni sbagliate sotto ogni punto di vista. Ventenni e trentenni sono ormai abituati a sentir pronunciare agli adulti frasi, di chiaro stampo accusatorio, della serie “Ai miei tempi si scendeva in piazza a protestare, a lottare per i diritti. Oggi voi giovani state solo sui social”. Poi, quando i giovani mollano smartphone e social ed escono di casa – quella dei genitori, va da sé, perché una casa non possono permettersela – per protestare, salta sempre fuori qualche “illuminato” commento o giudizio che ne sminuisce l’operato, che li accusa di essere lavativi, viziati, addirittura fessi e non meritevoli del diritto a studiare e a costruirsi un futuro; che individua in loro degli inconsistenti sbarbatelli che non sanno cavarsela e non conoscono il sacrificio.
Il risultato di questa dannosissima – e per nulla veritiera – narrazione, lo dicevamo, è che i giovani italiani sono i più infelici d’Europa e tra i più infelici al mondo. Con un tasso dei suicidi altissimo, lo stress, la sfiducia nel futuro e la depressione ormai come costanti, la vita delle nuove generazioni è sempre più a rischio. La risposta a tutto questo deve essere chiara e repentina, con un cambio di narrazione ma soprattutto con delle politiche che consentano concretamente ai giovani di proiettarsi nel futuro, piuttosto che coltivare solo paura e ansia per un presente ogni giorno più incerto e insostenibile.