Qualche mese fa l’algoritmo di Tik Tok ha iniziato a presentarmi a ripetizione una serie di video accomunati dallo stesso hashtag, Npc streaming, che ho poi scoperto rappresentare uno dei trend più visualizzati sul social. La sigla Npc deriva dall’espressione Non-playable character, utilizzata nei giochi di ruolo e nei videogiochi per indicare tutti quei personaggi che non vengono controllati direttamente dai giocatori, bensì dallo stesso sistema o da un software di intelligenza artificiale. Non a caso, anche il trend Tik Tok consiste nell’osservare creator che, durante le dirette, agiscono come se fossero posseduti da una forza esterna alla loro volontà, esprimendosi soltanto attraverso frasi ripetitive, movimenti robotici e reazioni stereotipate, apparentemente prestabilite. Nel caso dei videogiochi, infatti, questo tipo di personaggi non subisce alcuna evoluzione nel corso dei livelli, e si limita a vivere una realtà circolare, incentrata su compiti che, a differenza di quanto accade per gli altri protagonisti del gioco, non contribuiscono in alcun modo a lasciare un segno nel mondo virtuale della narrazione. Può dunque sembrare strano che, in questo caso, a risultare intrattenente per tanti utenti sia la totale spersonalizzazione di chi si muove dietro lo schermo, l’ostentazione di passività e impotenza di fronte agli stimoli che i creator simulano, portandola all’esasperazione. A forza di imbattermici tra uno scroll e l’altro, però, ho iniziato ad associare questi video al riflesso disturbante di un sentimento che oggi risulta largamente condiviso a livello sociale, e per cui tendiamo a rispecchiarci sempre più di rado nel ruolo di protagonisti, capaci di rispondere efficacemente a ciò che accade, percependoci invece sempre più come delle comparse influenti, paralizzate, che assistono inermi al costante restringimento del proprio campo d’azione.
Non so dire con certezza se il successo del trend sia dovuto proprio a questo meccanismo d’immedesimazione. Ciò che risulta indubbio, però, è che i nostri comportamenti spesso non sono così dissimili da quelli di un Non-playable character. E la causa di questa sorta di atrofizzazione del nostro agire nella stragrande maggioranza dei casi non ha certo a che fare con l’assenza di stimoli o con una forma di distacco, di impermeabilità agli eventi della realtà e alle emozioni che essi suscitano in noi. Al contrario, penso che le sensazioni negative che abbiamo provato negli ultimi anni siano state così frequenti e intense da stordirci, rendendoci spesso incapaci di reagire di fronte a determinati avvenimenti, nonostante il loro impatto potenzialmente distruttivo sulle nostre vite. L’impressione, infatti, è quella di sprofondare sempre più in una dimensione di ipertrofia emotiva, che sfinendoci tra un’emozione incontrollabile e l’altra, ci rende facili prede di paure irrazionali e amplificate, togliendo sempre più spazio al pensiero razionale, e dunque anche alle potenziali risposte che potrebbero derivare da un ricerca ragionata di soluzioni al prolungato periodo di crisi che stiamo vivendo.
Un report redatto dal Censis a fine 2021 aveva già utilizzato il termine “società irrazionale” per definire lo stato di confusione emotiva in cui la gran parte della popolazione italiana si trovava, in seguito alla sovrapposizione di traumi che il perdurare della pandemia, lo scoppio della guerra in Ucraina e le conseguenze sempre più distruttive del cambiamento climatico avevano determinato. Oggi, a cambiare, è stata semplicemente la gravità di questa confusione – alimentata dagli ultimi tragici sviluppi del conflitto israelo-palestinese –, che è andata calcificandosi, continuando a lavorare in noi e facendo sedimentare paure e sentimenti negativi che non sappiamo più collocare su una scala di grandezza, perché la loro estensione nel tempo ce li fa sembrare insormontabili, irrisolvibili e del tutto al di fuori della nostra portata. In uno scenario dove l’ipertrofia emotiva rende ogni evento un’emergenza, dunque, nulla finisce per esserlo davvero, nutrendo un circolo vizioso che ci danneggia sia sul piano emotivo che per quanto riguarda i processi sociali, perché stronca qualsiasi possibilità di mobilitazione. A due anni di distanza, infatti, i dati Censis sulla situazione sociale del nostro Paese rilevano che l’84% degli italiani è impaurito dagli eventi meteorologici sempre più estremi dovuti alla crisi climatica, il 53,1% teme che il colossale debito pubblico provocherà il collasso finanziario dello Stato, il 59,2% che il nostro Paese non sia in grado di proteggersi da attacchi terroristici e il 69,2% che la sanità pubblica, nel giro di pochi anni, non riesca più a garantire prestazioni adeguate. Inoltre, il 73,8% teme che negli anni a venire non ci sarà un numero sufficiente di lavoratori per pagare le pensioni. A queste prospettive si lega giustamente un enorme coinvolgimento emotivo, che però finisce col soffocare lo spazio della razionalità, proprio perché non abbiamo fiducia nell’eventualità di potervi trovare soluzioni adeguate.
Di fronte alla concatenazione di eventi che negli ultimi anni ha sconvolto le nostre certezze apparentemente incrollabili, creando una congiuntura di circostanze che ci sembrava inimmaginabile, abbiamo visto sgretolarsi quella che il filosofo francese Marc Augé chiama “l’illusione dell’eterno presente”: il tempo sempre più rapido in cui ci eravamo abituati a vivere nella società contemporanea, badando solo all’istante, al qui e ora. L’eterno presente era a suo modo rassicurante, un mondo con una dimensione in meno, che ci sollevava dall’onere di una riflessione su eventuali errori fatti nel passato, così come sulle loro possibili ripercussioni future. Quello che abbiamo scoperto di recente, però, è che questa illusione non si adatta alle sensazioni negative che ci accompagnano ormai da molto tempo, proprio perché esse derivano da situazioni complesse e stratificate, esplose dopo decenni di latenza, che non possono dunque essere tamponate con espedienti frettolosi, ma necessitano di un impegno a lungo termine. Così, il bisogno emotivo di trovare soluzioni immediate a ciò che ci sta accadendo e la progressiva disabitudine a riflessioni razionali, fa sì che il seguito delle teorie complottiste continui a crescere, e in modo sempre più trasversale alla società, così come le reazioni d’odio incontrollato sui social (come dimostra l’estremismo con cui viene approcciata qualsiasi questione d’attualità, dalla guerra tra Israele e Palestina al caso Ferragni), o delle svariate inquietudini sociali, che però tengono a rimanere essenzialmente aggregazioni “disordinate”, dove in molti casi non si arriva mai realmente a cooperare concretamente per modificare lo status quo.
Facendoci trascinare dall’emozione del momento rimaniamo dunque paradossalmente incastrati in uno stato di irresolutezza, che non sfocia mai in un pensiero o un’azione orientata, ma ci lascia sospesi e indecisi, in attesa dell’urto emotivo successivo – che potrebbe addirittura spingerci in direzione opposta rispetto al precedente. Questa continua ed estenuante oscillazione, oltre a danneggiare il nostro modo di vivere il presente, ha forti ripercussioni anche sulla nostra capacità di immaginare il futuro. Guardare a un avvenire – anche prossimo –, infatti, sta diventando un compito sempre più difficile e gravoso in termini di energie, perché non riuscendo a formulare previsioni a partire dai dati confusi che raccogliamo nel presente, l’idea di immaginarci tra cinque o dieci anni non può che rappresentare qualcosa di incerto e spaventoso. Lo studioso inglese Geoff Mulgan ha definito questo fenomeno “crisi dell’immaginario” descrivendo la distanza esistenziale che non solo sembra essersi creata tra noi e la possibilità di proiettarci nel futuro in modo chiaro come uno svantaggio per cui rimaniamo ciechi ad alcuni processi economici e sociali largamente intuibili nei loro effetti, sottovalutandoli o rimuovendoli dalla nostra agenda individuale e collettiva; ma che soprattutto sta paralizzando la nostra capacità di formulare nuovi desideri e prospettive, riducendo le nostre aspirazioni a strategie consolatorie che anelano al massimo a momenti di illusoria tranquillità o di distrazione da ciò che stiamo provando.
Se è vero che gli eventi susseguitisi negli ultimi anni hanno ridimensionato molto – e a ragione – il delirio di grandezza per cui l’essere umano si sentiva in grado di governare le dinamiche della realtà, come se in qualche modo gli appartenessero, questa presa di coscienza non deve farci sentire declassati, o estromessi da qualsiasi processo decisionale ci riguardi, perché nei prossimi decenni avremo sempre più bisogno di fare scelte oculate, capaci di modificare e migliorare ciò che oggi, evidentemente, non sta funzionando. Per riavvicinare emotività e razionalità nel tentativo di trovare nuove soluzioni alla crisi che stiamo attraversando, infatti, Mulgan propone di partire proprio dalla ricostruzione della nostra capacità di immaginare alternative alla situazione presente, espandendo quello che chiama “lo spazio del possibile” attraverso tutti gli strumenti che abbiamo a disposizione – speculazioni filosofiche, idee generative, pensieri utopici, manifesti politici programmatici, design speculativo, grandi fiere internazionali, movimenti sociali orientati al futuro, giochi, installazioni artistiche, romanzi di fantascienza, comunità prefigurative e sperimentazioni sociali. L’obiettivo, infatti, non deve essere quello di tornare a percepirci come protagonisti assoluti degli eventi che viviamo, in grado di dare una direzione a tutto ciò che accade nel mondo, perché ovviamente sarebbe una prospettiva irrealistica; piuttosto, dobbiamo recuperare la consapevolezza di poter essere protagonisti di un nuovo immaginario, a cui attingere per plasmare e correggere ciò che non ci piace del presente, affinché non ci spaventi proiettarlo in un ipotetico futuro.
Allenare la nostra capacità collettiva di pensare nuovi mondi, di “coltivare immaginari”, non è una possibilità che si limita all’utopia, anche se spesso ultimamente ci risulta difficile crederlo. Per uscire dallo stato di paralisi che sperimentiamo da tempo, infatti, non possiamo più permetterci di lasciarci travolgere passivamente da sensazioni negative che ci inghiottono. Quello che possiamo fare, per iniziare a riacquisire fiducia nella nostra capacità di scegliere – e soprattutto di scegliere bene – è vagliare tutte le alternative di realtà che la nostra immaginazione ci offre, per arrivare magari a scoprirne una che non avevamo ancora preso in considerazione, impegnandoci a riflettere razionalmente su come potremmo agire per renderla praticabile.