Se vuoi complicarti la vita in tempo record (come se non lo fosse già abbastanza), sicuramente fare un figlio è il modo migliore per riuscirci. Per questo bisognerebbe arrivarci il più possibile preparati (come quasi a qualsiasi cosa difficile), anche perché a quel punto non ne va solo della tua felicità, ma anche di quella della coppia e dell’essere vivente a cui hai donato metà del corredo genetico e che non ti ha certo pregato di nascere. Il problema è che in Italia, e non solo, nell’ultimo secolo si è diffusa l’idea – ben chiara, ma mai nominata – che se fossero venuti alla luce i lati meno kawaii del procreare oggi non ci saremmo soltanto trovati nel bel mezzo dell’inverno demografico – che tanto preoccupa gli organi di stampa cattolici – ma direttamente nell’era glaciale. Lo stesso clima di gelo che a quanto pare attraversano molte coppie dopo la nascita del primo figlio e che a volte può protrarsi per anni interi, fino a non risolversi mai. Se non rientrate tra queste, dunque, avete un buon motivo per gioire, nonostante tutte le altre difficoltà che probabilmente starete attraversando se avete imboccato la strada della genitorialità.
Al di là delle varie crisi esistenziali a cui porta il fare un bambino, infatti, non è raro che dopo la nascita le coppie – anche quelle all’apparenza più solide – subiscano una frattura che si allarga sempre di più, risultando in diversi casi insanabile. Così, per molte persone la nascita finisce per essere quel mattoncino che a Jenga fa crollare tutta la torre, togliendo qualcosa dalle fondamenta e aggiungendolo nel punto sbagliato. È molto facile che questo succeda, perché oggi, a differenza del passato, subiamo pressioni sociali su più fronti, che ci si intrecciano intorno e a volte rappresentano istanze contrapposte, ma che non si annullano a vicenda. Superata una certa soglia d’età ci sentiamo sempre più incalzati dall’aspettativa di chi ci vuole genitori per sentirci realizzati (tanto che inconsciamente in tanti finiscono per crederci), ma non solo, dobbiamo anche essere in carriera, indipendenti e autonomi ma al tempo stesso sposati (il matrimonio è la perfetta metafora dell’investimento), forti e in salute, magri e sorridenti. Se poi in questo scenario interpreti il ruolo della donna, e quindi della madre, tutto questo ti pesa il doppio – dunque devi essere in carriera, ma al tempo stesso se lo sei vieni, più o meno tacitamente, accusata di preferire il lavoro ai figli, e se non lo sei allora “fai solo la mamma” (come se non fosse già tanto).
In questo caso, poi, devi anche partorire (con tutte le possibili problematiche del caso, che possono lasciare segni fisici e mentali anche molto profondi e duraturi), allattare, svegliarti di notte e continuare a essere pulita, curata e attraente, oltre a recuperare gli eventuali chili accumulati in tempo record, se no qualcuno ti farà notare che sei ingrassata. Ma, anche nel caso non si prenda peso e si risponda pedissequamente ai canoni di bellezza stabiliti dalla società, le persone intorno troveranno comunque altri modi per infiltrarsi nell’ambito della percezione della tua stessa apparenza, magari minando ulteriormente quelli che già percepivi come punti deboli, possibi fautori di crollo psicologico. Oltre a capire come raccapezzarti in mezzo a questo devastante tsunami emotivo, col pregnancy brain che rende ogni analisi razionale annebbiata e senza alcun aiuto o sostegno, le donne – come mi hanno raccontato alcune persone che ho intervistato – si sentono costrette a confrontarsi anche con “l’ansia da prestazione di dover soddisfare i bisogni sessuali del partner”, pur “non avendone alcuna voglia” e “sacrificando quelle poche energie che restano”.
Il discorso sulla sessualità è molto delicato e soggettivo, e per questo sarebbe importante evitare non detti, che a lungo andare finiscono per diventare irrisolti e generare rancori, fino ad allontanare i compagni sempre di più e a volte a raggiungere uno stato di totale assenza di rapporti sessuali, condizione che nel 2022 sembra essere molto più diffusa di quanto si creda. Basta fare un giro su alcune famose community di mamme per scoprire che in tanti non rientrano neanche vagamente nella triade settimanale consigliata dai sessuologi, sotto la quale dovrebbe iniziare a farsi delle domande rispetto alla salute sessuale della propria relazione. Ricordo che dopo la lezione frontale gratuita organizzata dal famoso ospedale di Milano in cui ho partorito, a cui peraltro – forse per fortuna – andai da sola, il sessuologo mi era stato istantaneamente antipatico. Avevo trovato il suo approccio distaccato e sessista, come se volesse a tutti i costi sottolineare che la “colpa” del calo di rapporti sarebbe stata da imputare a mancanze femminili e come se l’amore potesse essere misurato attraverso una tabella in cui aggiungere una crocetta ogni volta che si scopava. Eppure, a suo modo, era stato onesto – attitudine che a quanto pare non è così diffusa. Le varie coppie che avevo intorno uscirono con gli occhi sbarrati, messe senza mezzi termini di fronte a quello che sarebbe stato il loro probabile futuro erotico – poi puntualmente confermato dalla chat whatsapp del corso preparto.
Un famoso proverbio africano dice che per crescere un bambino è necessario un intero villaggio. Ebbene, oggi le madri si ritrovano nel giro di 24 ore a dover creare e mandare avanti un nuovo mondo e una nuova vita da sole, o quasi. Chi decide di fare un figlio si trova infatti più abbandonato che mai (spesso pure dalle amicizie, che in molti casi non sanno a loro volta seguire il mutamento delle relazioni), spesso senza gli strumenti per far fronte a una simile impresa e con gli unici barlumi di aiuto rigorosamente a pagamento, e con prezzi tutt’altro che sostenibili. Così, le puerpere, oltre ad affrontare un periodo estremamente complicato dal punto di vista fisico e mentale, a volte si trovano pure a dover gestire – sole – il crollo del partner, che non riesce a ridisegnare il proprio ruolo e invece che sostenerle vive a sua volta una profonda crisi, una sorta di incubo, di cui non parla a nessuno perché andare in analisi è ancora considerato uno stigma, così come confidarsi con gli amici. La depressione post partum, infatti, esiste anche per i papà. È evidente dunque che nella maggior parte dei casi per uscire da un ciclone simile è necessario rivolgersi a figure professionali specializzate, e che la cosa migliore sarebbe che ciò accadesse prima della nascita, anzi, prima ancora di decidere di mescolare ovociti e spermatozoi.
Molte coppie finiscono col separarsi entro il compimento del primo anno d’età del figlio. In realtà è normale che la libido diminuisca sia nell’uomo che nella donna nei primi sei/nove mesi dopo la nascita. L’assetto ormonale post partum della donna, con gli estrogeni al minimo, infatti, tra le varie cose ha la funzione di inibire il desiderio sessuale, in particolare durante il primo mese e mezzo; allo stesso modo la produzione di testosterone negli uomini crolla nelle prime settimane dopo il parto, e più i padri interagiscono con i figli neonati più si abbassa – anche per questo sarebbe molto importante ottenere un congedo di paternità più lungo, in modo da permettere di costruire questo legame e di accordare tutto il nucleo familiare sulle stesse vibes.
In genere, i sessuologi sostengono ci vogliano almeno tre mesi per recuperare la propria intimità, ma almeno nove mesi, per una donna, per attraversare i cambiamenti della gravidanza e tornare ad abitare il proprio corpo – più o meno – come prima. Molte persone riversano tutta la propria emotività sui figli, smettendo di esprimerla all’interno della coppia. Il motivo principale è il ruolo giocato dall’ossitocina, l’ormone che produciamo quando tocchiamo gli altri, ci abbracciamo, accarezziamo, baciamo, facciamo sesso e, guarda caso, allattiamo. Così, subito dopo il parto le madri ottengono la loro ossitocina dai neonati, e non più dai o dalle compagne. Se questo meccanismo non trova un equilibrio è facile che le coppie si allontanino, sia dal punto di vista emotivo che fisico. Al tempo stesso è molto importante riuscire a coltivare dei momenti per ricaricarsi e pensare solo ed esclusivamente a se stessi, basterebbe anche solo un’ora o due ogni tanto. Il problema è quando non si riesce a recuperare l’intesa e non si trova uno spazio di dialogo.
Se in Italia aprire un discorso sociale e istituzionale, sano e neutrale, rispetto alla sessualità risulta già pressoché impossibile – cosa che ha gravi ricadute su ciascuno di noi e in particolare sulle donne – farlo durante la gravidanza o subito dopo risulta ancora più complesso. Anche perché, spesso, gli stessi operatori sanitari contribuiscono a rafforzare l’idea ben radicata nella nostra cultura che la madre non possa più essere “puttana”, dato che per noi purtroppo sono tali tutte le donne che osano manifestare il loro sano e spontaneo desiderio. Così, in molti casi, già durante la gravidanza c’è una sorta di inibizione, nutrita a sua volta dal cambiamento fisico e da possibili patologie legate alla gestazione, il parto e le ferite che può lasciare contribuiscono a fare il resto, a cui in ultimo può anche aggiungersi la depressione post partum. Il desiderio femminile quindi si annichilisce, si rintana in una parte del tutto inaccessibile dall’esterno, e a volte addirittura dalla donna stessa.
Di rado si parla dei normali lati oscuri che si possono attraversare nel corso di questo processo, con un atteggiamento forzatamente positivo simile a quello di chi all’inizio della pandemia di Covid diceva “Andrà tutto bene”. Come sappiamo non è andato tutto bene neanche per sbaglio e facciamo più schifo di prima. I futuri genitori – e in particolare le donne che vivono in prima persona le varie tappe della gravidanza – vengono considerati dalle istituzioni al pari di minori, bambini un po’ tonti a cui non è dato comprendere ciò che sta succedendo. Spesso questa sorta di omertà edulcorata viene giustificata dagli operatori sanitari – ginecologi, ostetriche, psicologi – dal fatto che le donne, in molti casi, nutrono una profonda paura del parto che fa sì che quasi non ne vogliano sapere nulla, men che meno confrontarsi con il worst-case scenario. Questa infantilizzazione sistematica, però, genera mostri e soprattutto traumi, a volte indelebili. Le donne e i partner, infatti, nel caso insorgano problemi a quel punto non sono in grado di riconoscerli o di affrontarli in maniera ponderata. Eppure basterebbe poco, anche perché stiamo parlando di persone adulte – nella stragrande maggioranza dei casi molto più che maggiorenni – a cui dovrebbe essere riconosciuta la capacità di prendere decisioni responsabili.
Lo psichiatra e terapeuta familiare Bernard Geberowicz e Colette Barroux, caporedattrice de L’école des parents, autori di Le Baby-clash: La couple à l’Épreuve de l’enfant, già nel 2005 sostenevano che il conflitto generato dal diventare genitori – tra la propria vecchia identità e la nuova, così come tra partner – non è per forza di cose una tragedia, può essere invece un importante snodo di crescita. Essere responsabili significa anche saper comunicare, riconoscere le proprie debolezze e vulnerabilità e al tempo stesso esercitarsi alla leggerezza, in modo da non venire risucchiati da inutili drammi e trovare la forza per restare centrati, costruendo il proprio progetto di coppia e famiglia, partendo da sé stessi.