Oggi, per lavorare, i giovani non devono solo essere preparati ma anche essere manager di se stessi - THE VISION

Quando si parla di giovani e lavoro emergono automaticamente i fenomeni che caratterizzano un quadro ben poco confortante. In primis la disoccupazione giovanile, con l’Italia che tra i Paesi europei è quello ad avere il terzo dato più alto (il 27,3%), ma anche la precarizzazione che porta ad aumentare i lavori a tempo determinato, oppure la tendenza a svolgere professioni per cui si è considerati sovraqualificati, ovvero quando le competenze dopo anni di studio e tirocini sono superiori ai requisiti del lavoro in questione. Quando si cerca di analizzare le cause di quelle che sono a tutti gli effetti delle piaghe sociali, spesso però viene sottovalutato il cambiamento radicale del concetto stesso di lavoro in una società che sta mutando forma, con la pretesa di mantenere i vecchi codici professionali, quando questo non è più possibile. Se un tempo si faceva di tutto per perseguire come scopo di vita la sacra trinità concorsone pubblico-postofisso-pensione, sulla scia del capolavoro del 1977 di Mario Monicelli Un borghese piccolo piccolo, nel 2023 per un giovane questo iter è prevalentemente una materia marziana. Non solo infatti si ritrova con mezzi spuntati per ambire a certe posizioni, ma deve anche fare i conti con una realtà che gli impone di imparare una seconda professione parallelamente alla prima che, con fatica, viene appresa negli anni: quella del manager. E nella maggior parte dei casi il primo e unico cliente che avrà nell’arco della sua vita lavorativa sarà: se stesso.

Sì, esistono ancora i concorsi pubblici, con una riforma in arrivo anticipata da un dl governativo in cui vengono apportate lievi modifiche al DpR 487/1994 (su tutte lo stop alle prove orali), ma fuori dal mito della Pubblica Amministrazione vige per i giovani un imperativo: arrangiatevi. Più che un’esortazione è una necessità per non soccombere. Così, una volta terminata la formazione e il ciclo di studi, ci si ritrova in un territorio inesplorato dove non si sa come muoversi. Se il futuro lavoratore in questione è autonomo, oppresso dall’insostenibile realtà di chi ha una partita IVA, è un po’ come addentrarsi in una giungla. Se addirittura svolge una professione artistica – che spazia da quella del musicista al creator digitale – la giungla si trasforma in una bolgia infernale.

La prima abilità da imparare è quella di sapersi pubblicizzare. Il lavoratore diventa un prodotto da vendere all’ipotetico datore di lavoro, che può essere una figura fisica o una platea più estesa di fruitori del contenuto creato. La parola del terzo millennio per questa procedura la conosciamo bene, è “networking”. Occorre allargare il giro dei contatti, fare conoscenze con chi lavora in un determinato settore e avere quel pelo sullo stomaco fondamentale per trasformare la spregiudicatezza in un’occasione di lavoro. Molti, erroneamente, confondono il networking con la ricerca di una raccomandazione, o considerano quest’ultima soltanto con l’accezione negativa della furberia, della scorciatoia a scapito d’altri. In realtà è uno strumento per fare autopromozione, un modo per mettersi in vetrina e farsi conoscere, solo che richiede alcune componenti legate più al proprio carattere che alle competenze professionali. In sostanza, non è detto che chi ha studiato per anni per intraprendere un certo percorso sia anche in grado di fare il giro delle sette chiese cercando di intercettare le “persone giuste” tra aperitivi e dm sui social. E al tempo stesso non è detto che chi ha queste qualità sappia poi svolgere bene il tipo di lavoro che desidera fare o che per qualche motivo gli viene affidato.

Se il networking va a buon segno, e attraverso i giusti agganci e l’operazione di “piazzare se stessi” si aprono nuove prospettive, entrano allora in gioco altri fattori che ostacolano l’ascesa professionale. Il primo riguarda la consapevolezza di doversi reinventare più volte nel corso dell’arco lavorativo. Tutto è in evoluzione e i mestieri non si salvano certo da questa logica. Negli scorsi decenni, se non addirittura secoli, il primo lavoro che trovavi non solo era quello che ti saresti tenuto per tutta la vita, ma era una sorta di identificazione. Così il soggetto non era più “persona X”, ma “il fabbro”, “il falegname”, “il giornalista”, “il maestro”. Oggi c’è una maggior fluidità in questo processo, e contiene al suo interno una valenza che, a seconda della percezione o della propria ambizione, può essere positiva o nefasta. Nel primo caso ci si riallaccia alla generazione YOLO (You Only Live Once), termine coniato per indicare quei soggetti, prevalentemente millennials, che non concepiscono più la propria esistenza esclusivamente in funzione della professione che svolgono e che più che vivere per lavorare decidono – se possono permetterselo – di non lavorare proprio o di farlo solo ed esclusivamente per campare, e lavorando quindi il meno possibile, come già avviene in alcuni Paesi all’avanguardia. Sono i primi a ricercare quello che viene definito job hopping, ovvero “saltare” da un lavoro all’altro per non restare arenati in un unico contesto e per poter ampliare il proprio bagaglio di esperienze. In questo caso l’accezione è positiva quando il job hopping è voluto. Come risaputo, quasi sempre è invece qualcosa che non dipende dalla propria volontà, ma da politiche salariali che ti impongono di cercare altre posizioni perché magari con quella paga nemmeno riesci a pagare l’affitto, oppure perché, anche di fronte a un insperato stipendio dignitoso, i ritmi sono così frenetici da annullarti come individuo o portarti alle soglie del burnout.

Più sei un bravo manager di te stesso, più aumentano le capacità di reinventarsi in altri campi. Non sempre, però, ciò basta per farti avere un riconoscimento professionale, soprattutto se c’è la burocrazia a mettersi in mezzo. Un esempio concreto è quello dei content creator. Fino allo scorso agosto, a livello normativo i content creator non venivano nemmeno riconosciuti in Italia. Pagavano regolarmente le tasse ma non avevano un apposito codice Ateco per poter inserire la propria figura nei tasselli retributivi e fiscali. Con l’articolo 27 del Decreto Concorrenza hanno ottenuto il certificato di esistenza, smettendo di essere fantasmi lavorativi. Internet è certamente uno dei mezzi per reinventarsi, per creare una professione da zero e portarla avanti potendo fare affidamento sostanzialmente solo su te stessi, o al limite su agenzie nate in questi anni proprio per tutelare la figura dei creativi digitali.

Questo, però, non vuol dire avere una maggior probabilità di successo, in quanto il processo di emulazione ha portato molti giovani a lanciarsi sulle piattaforme digitali, finendo però per rimanere “pesci piccoli”. Pur cambiando la natura di certe professioni, resta infatti la logica della domanda e dell’offerta, così come la saturazione dei singoli campi. Se, per esempio, c’è una crescita esponenziale del numero degli streamer, come avvenuto durante la pandemia, è inevitabile che solo un numero ristretto raggiungerà una posizione tale da potersi mantenere economicamente. Lo stesso vale nella musica, a maggior ragione con il crollo del mercato discografico e della vendita del prodotto fisico, così come in ogni altra professione artistica. Inoltre, il lavoro digitale è legato a doppio filo al destino delle piattaforme che ospitano i creator. Dopo il boom della pandemia, i numeri di Twitch stanno iniziando a sgonfiarsi. E anche Youtube negli anni ha modificato le modalità e i termini di pagamento, causando fughe su altre piattaforme o adattamenti necessari per restare al passo coi tempi.

Il lavoratore di oggi, dunque, colui che è anche manager, è così costretto ad avere un paracadute e svariati piani B, perché nulla è immutabile e da un giorno all’altro potrebbe trovarsi senza una retribuzione. Così si riparte dall’inizio, contattando più persone possibili alla disperata su Linkedin o partecipando a eventi nella speranza di poter dire a Tizio di aver lavorato un anno come Social Media Manager in un’azienda di fertilizzanti, due anni con un podcast true-crime su Spotify e qualche mese come rider per arrotondare, ma avendo nel cassetto una sceneggiatura fortissima per una serie Tv ambientata a Sulmona tra cento anni.

Siamo la generazione dei giovani proattivi, costretti a riarrangiarci per arte o per necessità, ma nessuno ci ha insegnato davvero come fare. Cresciamo, studiamo e ci ritroviamo senza un trampolino. Dovendocelo costruire da soli, impariamo più mestieri del dovuto, e la cosa ridicola è che non è neanche detto che ciò possa permetterci un tuffo verso un’indipendenza economica o una qualsiasi forma di stabilità. Come se non bastasse, veniamo definiti pigri o bamboccioni, nonostante siamo la generazione che più di tutte ha faticato per ottenere un riconoscimento sociale. Sappiamo che domani potremmo essere costretti a resettare tutto, a inventarci qualcosa di inedito e sconosciuto per avere semplicemente un tetto sopra la testa, e che dovremo farlo da soli, perché viviamo in una società ben lontana dall’essere fatta a misura delle nostre ambizioni. Essere manager presso noi stessi è probabilmente l’unico lavoro a tempo realmente indeterminato della nostra vita, tutti gli altri sono una parentesi tra un curriculum inviato e l’altro, senza ricevere risposta.

Segui Mattia su The Vision | Facebook