La vita di chi ha la partita IVA è insostenibile, fatta di ansia, precarietà, crisi e sfruttamento - THE VISION

La libera professione è spesso considerata più attraente rispetto al lavoro subordinato per l’assenza di vincoli rigidi da rispettare durante la giornata lavorativa e per la possibilità di ottenere guadagni più alti. I genitori dei millennial hanno sempre incitato i loro figli a studiare con la prospettiva di un roseo futuro da avvocato, medico o ingegnere. Il mito del professionista che con il suo impegno riesce a garantire a se stesso e alla propria famiglia una vita privilegiata e piena di soddisfazioni è sopravvissuto dagli anni Sessanta del secolo scorso fino ai giorni nostri. Purtroppo la realtà per i giovani che oggi decidono di aprire una partita Iva è ben diversa. La narrazione che raccontava un mondo in continua crescita, pieno di occasioni e opportunità, si è bruscamente arrestata dopo la crisi finanziaria globale del 2008. L’Italia, in particolare, ha dovuto affrontare le difficoltà di una stagione di stagnazione economica lunga 30 anni con un debito pubblico sempre più difficile da sostenere. Il prezzo di questa crisi è stato scaricato soprattutto sulle nuove generazioni che, terminato il percorso di studi, si sono trovate immerse in un mondo di cinismo, incertezza e precarietà.

Già prima della pandemia i freelance erano costretti a confrontarsi con un mercato del lavoro iper competitivo che è stato spesso causa di ansia e stress, arrivando a provocare in molti giovani la cosiddetta sindrome da burnout. Si tratta di uno dei disturbi professionali più diffusi nelle società altamente industrializzate che si manifesta dopo dei periodi molto intensi di lavoro, soprattutto in persone che non riescono a dividere la propria vita personale dalle giornate in ufficio. L’avvento di nuovi strumenti tecnologici, come gli smartphone, ha contribuito a dare una dimensione preoccupante a questo fenomeno. Molti professionisti, infatti, sono costretti a lavorare sette giorni alla settimana per soddisfare le esigenze dei clienti e sono perennemente connessi al pc o al cellulare. Questa nuova routine ha provocato in molti una perdita di emotività e difficoltà nel gestire le relazioni  con i colleghi e con i clienti. Chi soffre di sindrome da burnout si mostra spesso rancoroso, cinico, poco costante e demotivato nello svolgere le proprie attività. 

Il Covid non ha fatto altro che acuire le difficoltà dei lavoratori autonomi, come dimostrano le statistiche più recenti. A settembre 2021, nell’ambito di una lieve ripresa dell’occupazione, si sono infatti registrate 150mila partite Iva in meno rispetto all’anno precedente. Il calo è ancora più significativo se si considera che nello stesso periodo il numero di persone complessivamente impiegate è aumentato di 273mila unità. I dati dimostrano che, anche se per chi è dipendente è diventata sempre più importante una cultura aziendale improntata alla tutela del benessere psicologico, tanto che in molti stanno pensando di cambiare lavoro entro la fine dell’anno, gli italiani che praticano la libera professione la stanno progressivamente abbandonando per cercare di essere assunti stabilmente presso aziende in grado di assicurare un minimo di continuità retributiva e stabilità. Le restrizioni imposte dall’emergenza sanitaria hanno infatti limitato la possibilità di fare network tra professionisti e le estenuanti ore passate in videoconferenza durante i mesi del lockdown non sembrano essere state un sostituto all’altezza delle relazioni personali dal vivo.

La scelta di chiudere la partita Iva per decine di migliaia di lavoratori è stata causata anche dalle scarse tutele economiche previste dalla normativa italiana. Come dimostrano anche i recenti interventi del governo, i contributi destinati ai lavoratori autonomi prevedono delle condizionalità stringenti, come una netta perdita di fatturato rispetto agli anni precedenti alla pandemia. Si tratta di requisiti spesso inapplicabili a molti giovani che hanno deciso di aprire da pochi anni la partita Iva e che speravano di consolidare la propria posizione lavorativa proprio nei mesi in cui è scoppiata la pandemia. D’altra parte i bonus di 600 euro previsti durante la prima metà del 2020 si sono rivelati del tutto inadeguati per sostenere delle persone costrette ad affrontare la crisi senza alcuna protezione economica. Dietro la scelta di chiudere una partita Iva c’è anche la rinuncia a valorizzare le proprie conoscenze per ottenere uno stipendio fisso. Una sconfitta per la nostra economia e per i sostenitori di concetti come meritocrazia e valorizzazione dei talenti.

Anche sotto il profilo dei diritti, le poche tutele previste a favore dei freelance non sono state adeguate a proteggere chi ha affrontato l’emergenza sanitaria senza scudi o rendite di posizione. La legge italiana prevede un impianto normativo obsoleto che è stato rivisto soltanto parzialmente nel 2017 con un intervento peraltro non risolutivo. Il cosiddetto Statuto dei lavoratori autonomi prevede delle blande protezioni da un punto di vista contrattuale e cerca di assicurare un trattamento economico minimo in caso di infortunio, malattia o gravidanza di un professionista con partita Iva. Un discreto punto di partenza che purtroppo si è rivelato molto debole durante la pandemia. È urgente quindi rafforzare il quadro normativo attraverso interventi sulle condizioni lavorative di moltissimi giovani che operano come consulenti o collaboratori. L’emergenza sanitaria, purtroppo, ha messo ancora più a nudo le difficoltà di tutti quei giovani che sono stati costretti ad aprire la partita Iva pur collaborando soltanto con una singola azienda. Le imprese travolte dalla pandemia, infatti, hanno deciso di terminare subito i rapporti con i lavoratori autonomi anche a causa del blocco dei licenziamenti che impediva alle aziende il recesso dai contratti di lavoro subordinato a tempo indeterminato. Ancora una volta sono stati i giovani e i precari con meno tutele a subire le conseguenze più pesanti della crisi.

Le difficoltà che i freelance sono costretti ad affrontare non sono troppo diverse da quelle fronteggiate dai medici, dagli architetti, dagli ingegneri e dagli altri professionisti iscritti a un albo professionale. Mestieri che un tempo erano considerati sicuri e redditizi sono stati anch’essi travolti dall’ondata di precarietà degli ultimi anni. Se prendiamo a esempio la carriera in ambito legale, in Italia si stima che attualmente ci siano più di 250mila avvocati. Una crescita spaventosa rispetto agli anni precedenti, se pensiamo che nel 1996 questo dato raggiungeva soltanto (si fa per dire) le 87mila unità. L’aumento degli avvocati non corrisponde però a una crescita di benessere tra gli iscritti all’albo. Più di 8 avvocati su 10 fatturano meno di 50mila euro l’anno, con il 20% che non raggiunge nemmeno i 20mila euro. In particolare, esercitare la professione nel Sud Italia comporta significative differenze di reddito rispetto a chi lavora nelle grandi città del Nord. Se in Calabria un avvocato in media percepisce compensi per 19.796 euro lordi all’anno, in Lombardia il fatturato supera i 70mila euro. 

Tantissimi under 30, in tutti i campi lavorativi, hanno dovuto affrontare le pesanti conseguenze dell’emergenza sanitaria mentre cercavano di inserirsi in un mercato del lavoro sempre più saturo e competitivo. Un insieme di fattori che ha danneggiato un’intera generazione di professionisti con ripercussioni che dureranno diversi anni Per invertire la rotta bisogna agire in fretta adottando delle riforme in grado di assicurare maggiore protezione ai lavoratori autonomi. Soltanto così i giovani professionisti saranno in condizione di lavorare con serenità e potranno fare emergere le qualità che sono rimaste schiacciate sotto il peso della crisi. Valorizzare lo studio e l’impegno delle nuove generazioni significa soprattutto sostenere i giovani che sono costretti ad affrontare momenti di difficoltà senza ricevere lo stipendio fisso ogni mese. L’agenda politica deve cambiare radicalmente i suoi obiettivi. Il dibattito sulle pensioni che ciclicamente si ripete a ogni manovra di bilancio ha francamente stancato. L’opinione pubblica è fatta anche da decine di migliaia di liberi professionisti che rischiano di dover rinunciare alle loro aspirazioni professionali per colpa di un governo che li ignora. Ora queste persone devono essere ascoltate.

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