È di poche settimane fa la notizia dell’ennesimo suicidio di un adolescente, vessato da un gruppo di bulli che non lo lasciavano mai in pace. Alessandro, tredicenne di Gragnano in provincia di Napoli, si è tolto la vita lanciandosi nel vuoto, e lasciando i genitori nella disperazione e nell’incredulità. Il ragazzo non aveva dato segni evidenti di disagio, ma forse da lungo tempo covava una sofferenza profonda per il bullismo di cui era vittima. E mentre la procura indaga per capire cosa lo abbia davvero spinto a compiere quel gesto, quali fossero le reali dinamiche di quel gruppo di preadolescenti che probabilmente lo dileggiavano e perseguitavano, bisogna interrogarsi su alcuni aspetti della vicenda. Il caso di Alessandro, purtroppo, non è isolato: sono sempre più numerosi i giovani che si suicidano a causa di bullismo e cyberbullismo, che si chiudono ermeticamente nel loro guscio, ostentando sorrisi e simulando serenità, e che intanto covano una disperazione tanto forte da spingerli a mettere fine alla propria vita.
In Italia, i suicidi per bullismo e cyberbullismo sono sempre più frequenti, così come sono in costante aumento i casi di prepotenza perpetrata da gruppi di ragazzi ai danni di coetanei. In un sondaggio Istat del 2020, svolto su campione di adolescenti dagli 11 ai 17 anni, più del 50% degli intervistati ha dichiarato di essere stato vittima almeno una volta, nei dodici mesi precedenti all’intervista, di azioni violente, irrispettose o denigratorie da parte di coetanei; un adolescente su cinque dichiara di essere vittima di bullismo in modo reiterato e costante; e si rileva un maggior numero di vittime tra le ragazze piuttosto che tra i ragazzi. Per quanto riguarda il cyberbullismo, non è raro che vada di pari passo con le altre forme di vessazione: quasi una vittima su quattro, ha rivelato di essere stata bersaglio di vessazione anche attraverso le tecnologie digitali e i social media. Un altro sondaggio, invece, rivela che a patire più di tutti il fenomeno del bullismo in Italia sono gli adolescenti stranieri: tra questi i filippini (il 42% in più rispetto agli italiani); i cinesi (il 32% in più rispetto agli italiani); e gli indiani (il 27% in più rispetto agli italiani).
Un fenomeno di questa portata richiede una riflessione sulle modalità con cui parte dei giovani di oggi si relaziona agli altri. Da un lato ci sono le vittime, che si vergognano a chiedere aiuto, in alcuni casi disperate al punto da tenere tutto dentro e decidere che non valga più la pena di vivere, a soli 12, 13 o 14 anni; dall’altro ci sono i bulli, che provano soddisfazione nel prendere in giro i loro coetanei e nel ferirne la sensibilità, nascondendosi nel branco. Ciò accade perché ragazze e ragazzi hanno sempre meno riferimenti; riconoscono poco l’autorevolezza degli adulti, soprattutto dei genitori, ma soprattutto brancolano nel buio alla ricerca di emozioni forti e dell’approvazione degli altri, che sopperiscono al loro smarrimento di fronte a una realtà a volte minacciosa. L’unico modo per provare ad arginare l’emergenza bullismo, è educare i giovani ai sentimenti, alle emozioni e ai valori su cui poter costruire la propria identità e le relazioni con gli altri. È la scuola a doversi assumere delle nuove responsabilità, prevedendo all’interno di ogni percorso di formazione una nuova e necessaria materia: l’educazione emotiva e sentimentale.
Insegnando materie umanistiche alle scuole superiori, mi trovo spesso di fronte a ragazze e ragazzi incapaci non solo di esprimere, con le giuste parole, ciò che hanno letto e studiato, ma che non comprendono quanto sia importante saper nominare le emozioni e i sentimenti. Provo a spiegare loro che questo sarebbe importante non solo per comprendere le storie che leggono e i testi che studiano, ma per essere in grado di entrare in relazione sana col proprio mondo interiore e con quello degli altri. A questo proposito, durante i momenti della lezione destinati alla discussione libera, sui temi che più li interessano, rilevo, ascoltandoli, quanto gli stereotipi di genere influiscano sul loro approccio alle emozioni, rendendolo spesso uniforme. Un giorno, per esempio, durante una lezione di Storia, il libro di testo azzardava una descrizione dei Longobardi come popolo di bulli ante litteram; partendo da questa analogia, abbiamo aperto in classe una discussione sul bullismo. Dall’ascolto delle varie opinioni, abbiamo capito quanto l’idea radicata di dover essere un “vero uomo” porti la maggior parte di loro a ritenere forte e carismatico chi assume atteggiamenti da gradasso e da prevaricatore – un atteggiamento valido anche per le donne quando si comportano in modi socialmente considerati più “maschili”; chi subisce vessazioni è invece ritenuto debole e, per non mostrarsi tale, dovrebbe fingere di non restare ferito.
La mia esperienza fotografa la realtà di un istituto professionale di un paese della provincia di Piacenza, dove alla forte multiculturalità e multietnicità si accompagna una massificazione del pensiero. Per sperare di ottenere un briciolo di rispetto dagli altri, in conformità con la cultura machista, secondo il pensiero più comune la vittima dovrebbe nascondere la propria sofferenza, simulare imperturbabilità ed evitare di chiedere aiuto. Ne consegue che, senza interventi a livello culturale per eradicare pregiudizi e stereotipi di genere, gli adulti di domani – così come è successo a molti di quelli di oggi – cresceranno convinti che sovrastare gli altri sia sinonimo di forza, mentre il soffrire le prevaricazioni debolezza. Inoltre, ai maschi si richiede uno sforzo in più: se alle femmine sembra che sia più concesso mostrare vulnerabilità, per esempio con il pianto, i maschi devono mostrarsi incrollabili anche quando sono feriti e indifesi. Costretti a reprimere le lacrime, o a rifiutare l’aiuto degli adulti, i ragazzi convertono talvolta la frustrazione, l’inadeguatezza e la vergogna, in rabbia e odio verso gli altri – e da vittime, possono diventare i carnefici di un nuovo bersaglio da perseguitare; oppure verso se stessi, con comportamenti autolesionisti.
Il circolo vizioso interno alle dinamiche relazionali tra gli adolescenti è un’emergenza cui si deve porre rimedio. Preadolescenza e adolescenza sono i periodi in cui gli individui si costruiscono non solo un pensiero critico, ma soprattutto una consapevolezza del proprio apparato emozionale e sentimentale, che li accompagnerà nell’età adulta. A questa età, si è altamente ricettivi e permeabili nei confronti di ciò che si vede e si ascolta, e talvolta si introiettano modelli dannosi e valori che possono ledere profondamente la capacità di ciascuno di relazionarsi in modo positivo con gli altri. Per non essere piegati dalla sofferenza e dalle sopraffazioni da un lato, e per non convertire il senso di inadeguatezza in aggressività, gli adolescenti hanno bisogno di un’alfabetizzazione emotiva e sentimentale. Bisognerebbe innanzitutto insegnar loro il significato di parole come forza, fragilità, violenza, prevaricazione, solidarietà, sensibilità.
In questo processo, la figura professionale più adatta a fornire questa alfabetizzazione emotiva potrebbe essere quella di uno psicologo o di uno psicoterapeuta. In parallelo, il sapere umanistico potrebbe diventare uno degli strumenti per orientare i ragazzi nel mare magnum delle emozioni. Materie come l’italiano, la storia, la filosofia e persino le lingue morte come il latino e il greco, si offrono infatti come serbatoi di storie, vere o di finzione, che raccontano ciò che l’essere umano è stato e continua a essere. La letteratura in particolare, in questo senso, potrebbe diventare uno dei primi strumenti di educazione sentimentale, perché i grandi classici raccontano nel modo più appassionante e concreto le miserie e le sofferenze che interessano tutti noi, ma anche la bellezza e la ricchezza cui possiamo accedere e che spesso non vediamo. Vero è che non sempre un docente di materie umanistiche sviluppa, durante e dopo i suoi studi, la capacità di guidare gli studenti alla lettura dei testi non solo critico-analitica, ma anche emotivo-psicologica. Bisognerebbe arricchire la formazione dei docenti in questa direzione, o far sì che diverse figure professionali, con competenze complementari collaborino in questa direzione.
Il processo di alfabetizzazione emozionale e valoriale sarebbe propedeutico anche all’educazione civica e all’educazione sessuale di ragazze e ragazzi. Come sappiamo, i programmi curriculari della scuola italiana risultano carenti in tal senso: in alcuni casi si insegna agli studenti come indossare un preservativo e si lascia grande spazio alla classificazione delle malattie veneree (delle quali rimane fondamentale promuovere la conoscenza), ma non ci si occupa di un percorso di orientamento al significato della relazione sentimentale e sessuale. Prima di porre poi l’attenzione su “educazione alla legalità”, “valorizzazione del patrimonio culturale”, “rispetto delle eccellenze del territorio”, bisognerebbe aiutare i ragazzi a sviluppare una consapevolezza emotiva, che faccia sì che controllino l’impulso di prevaricare gli altri compagni, magari più sensibili, timidi o taciturni. Al pari di essere formati come professionisti del futuro, educarti a fare impresa o a diventare bravi impiegati, gli studenti hanno il diritto e il dovere di diventare persone sane ed equilibrate, capaci di essere autonome nella ricerca del proprio benessere senza dover per forza sopraffare gli altri.
Nel processo educativo dei ragazzi, oltre alla scuola, è fondamentale poi il ruolo della famiglia. Questo concetto, però, è tutt’altro che scontato, dal momento che nessun genitore viene “istruito” al proprio ruolo con una formazione psico-pedagogica adeguata. Oggi, però, per fortuna, anche i genitori hanno maggiori strumenti per informarsi e volendo capire come educare i propri figli al rispetto degli altri, all’empatia, al non assumere comportamenti abusanti o prevaricanti. Ancor prima che nell’adolescenza, è infatti durante l’infanzia che si gettano le basi per la costruzione dei valori degli individui: i genitori, volenti o nolenti, li trasmettono e in questo dovrebbero avere il supporto di professionisti dell’educazione. In questo modo, ragazze e ragazzi arriverebbero alle scuole superiori con un bagaglio di valori già radicato, che attraverso l’istruzione e l’educazione emotiva andrebbe poi ampliato e affinato.
Piuttosto che pensare a istituire il liceo del “Made in Italy” – che, secondo Giorgia Meloni, dovrebbe “formare i giovani per dare continuità a una serie di settori della nostra economia” – ci sarebbe bisogno di introdurre una materia come l’educazione emotiva in tutti i percorsi di studio secondari. L’analfabetismo emotivo delle nuove generazioni – spesso convinte che certi comportamenti abusanti vadano incentivati con risatine d’approvazione o addirittura stimati come manifestazioni di forza e che la vulnerabilità vada combattuta ostentando una maschera di durezza – va contenuto là dove gli adolescenti trascorrono gran parte del loro tempo, che in teoria dovrebbe essere composto da quelli che dovrebbero essere i loro giorni migliori: la scuola. Luogo in cui avviene la loro educazione e crescita collettiva, che dovrebbe e potrebbe essere guidata al meglio dagli adulti, familiari e insegnanti.