A luglio di quest’anno, una donna del Texas ha contestato una multa presa per aver guidato da sola nella corsia riservata a chi viaggia con un passeggero. Brandy Bottone, che era incinta, ha sostenuto in tribunale che secondo la nuova decisione della Corte Suprema statunitense sull’aborto, il bambino che portava in grembo era a tutti gli effetti una persona, e quindi, il suo secondo passeggero. L’argomento di Bottone è sembrato così convincente che la multa è stata annullata. Con questa storia, la donna ha evidenziato le estreme conseguenze a cui può arrivare un’interpretazione letterale della sentenza, ma ha posto anche l’attenzione su un problema non da poco: il feto è una persona?
Anche se oggi uno dei punti fermi della posizione antiabortista è che la vita cominci dal concepimento, e che di conseguenza l’embrione prima e il feto poi siano a tutti gli effetti da considerarsi come una persona, si tratta di un’idea piuttosto recente. Bisogna infatti considerare che fino all’Ottocento le conoscenze sugli embrioni erano poche e piuttosto incerte. Anche se oggi sembra difficile da credere, è solo alla fine di quel secolo che si dimostra il legame tra copulazione e gravidanza: d’altronde, l’esistenza dell’ovulo viene scoperta soltanto nel 1827. Fino allo sviluppo dell’embriologia, il feto era perlopiù considerato un’appendice del corpo materno e non era affatto considerato “vita”. Poiché tutto ciò che riguardava la gestazione apparteneva alla sfera femminile da cui gli uomini preferivano tenersi al di fuori, l’aborto – o “l’operazione illegale”, come veniva chiamato nei Paesi anglofoni – era vietato dalla legge, ma non socialmente sanzionato come potremmo aspettarci: di certo, non era un argomento di dibattito.
Persino la Chiesa cattolica non aveva una posizione chiara sull’aborto, o meglio, su cosa potesse essere considerato come vita umana. La condanna all’aborto si trova in uno dei primi testi cristiani, la Didaché, scritta tra la fine del I e il II secolo, ma in alcuni testi dei padri della Chiesa si trova espressa l’opinione secondo cui l’aborto di un feto non formato non costituisca omicidio, in quanto “privo di anima”. La distinzione tra feto “animato” e “non animato” è stata rimossa dal canone soltanto nel 1869, quando si stabilì che per la Chiesa cattolica la vita cominciasse dal concepimento. Questa posizione fu ulteriormente rafforzata nel 1968 con l’enciclica Humane Vitae, scritta da Paolo VI in un’epoca di grandi cambiamenti sociali legati alla sessualità e alla liberazione delle donne.
Negli anni Settanta, con la depenalizzazione dell’interruzione volontaria di gravidanza in Paesi come gli Stati Uniti, la Francia e l’Italia, i neonati movimenti antiabortisti cominciarono a chiamarsi “pro life”, a favore della vita, per rimarcare il paragone tra omicidio e aborto ma, soprattutto, tra feto e vita. Ma è dagli anni Ottanta che, secondo l’autrice del libro Ourselves Unborn Sara Dubow, si concretizza un vero e proprio conflitto tra donna e feto, in cui i diritti dell’una vengono messi contro i diritti dell’altro. Sono gli anni in cui non solo il movimento antiabortista si radicalizza e trova riconoscimento politico nella presidenza di Ronald Reagan, ma anche gli stessi in cui cominciano a circolare le prime fotografie di feti e le tecniche di ecografia migliorano sempre di più. Il feto non è più qualcosa che appartiene al corpo della donna, né soltanto un “bambino non nato”, ma una persona a tutti gli effetti, sia dal punto di vista fattuale che giuridico.
In questo mutato clima culturale, negli Stati Uniti vengono approvate le prime leggi che riguardano nello specifico i feti: divieti di sperimentazione medica, divieti sull’uso di particolari strumenti diagnostici o medicinali, speciali misure di sicurezza sul lavoro per donne incinte, ma soprattutto sentenze contro donne che avevano assunto droghe o alcool durante la gravidanza, mettendo in pericolo la sopravvivenza del feto. Con l’epidemia di crack negli anni Ottanta, si diffuse un clima di panico morale nei confronti delle cosiddette crack mothers, che avevano esposto i loro figli alla droga durante la gravidanza. Anche se si trattò di un panico immotivato (oltre che dai connotati razzisti) dato il basso numero di casi, secondo Dubow il mito della crack mother fu fondamentale per stabilire una volta per tutte il campo del “diritto fetale” secondo cui i diritti del concepito hanno la precedenza su quelli della madre. In alcuni casi, questi diritti valgono anche in ambito giuridico: negli Stati Uniti, ad esempio, il feto può essere considerato una vittima di crimini violenti secondo l’Unborn Victims of Violence Act del 2004 e i suoi interessi possono essere rappresentati in tribunale da un tutore legale.
Anche in Italia si è discusso dei diritti del feto e sono stati fatti alcuni tentativi per riconoscerlo come soggetto giuridico. La legge 40 del 2004, ad esempio, stabilisce all’articolo 1 che nel processo di procreazione assistita vadano assicurati “i diritti di tutti i soggetti coinvolti, compreso il concepito”. Il concepito può inoltre ricevere un’eredità o essere destinatario di una donazione. Tuttavia, l’articolo 1 del Codice Civile è molto chiaro sul fatto che “la capacità giuridica si acquista dal momento della nascita” e che “i diritti che la legge riconosce al concepito sono subordinati all’evento della nascita”. Nel 1995 il Movimento per la vita, uno dei più importanti gruppi antiabortisti italiani, presentò un disegno di legge di iniziativa popolare per la modifica di tale articolo, che non fu mai discusso. La proposta tornò in Parlamento nel 2008, prima su iniziativa dell’allora deputato e attivista antiabortista Luca Volontè e poi dell’ex missino e senatore del Popolo della Libertà Riccardo Migliori, e infine nel 2018, su iniziativa del senatore forzista Maurizio Gasparri. Nel 2021, la senatrice dell’Udc Paola Binetti ha presentato una nuova legge di iniziativa popolare in merito.
Anche se un pieno riconoscimento dei diritti giuridici del feto sembra un’ipotesi lontana, in Italia sono state già approvate diverse iniziative che, in maniera esplicita o implicita, tendono verso quella direzione. Si tratta ad esempio dell’ipotesi di rendere legale l’adozione del concepito o delle varie leggi regionali sulla “tutela della vita nascente” – come le recenti “Nome per la tutela della salute della donna e del concepito” proposte in Liguria da Fratelli d’Italia – che si inseriscono in un più ampio tentativo delle amministrazioni locali di ostacolare l’aborto senza toccare la 194. Anche i cimiteri dei feti sono spesso giustificati come espressione del “diritto a una degna sepoltura” per i “bambini non nati”. Secondo il New York Times, il campo dei diritti fetali è ciò a cui punta anche l’antiabortismo statunitense dopo il ribaltamento della sentenza Roe v. Wade. In Georgia, ad esempio, la nuova legge sull’aborto definisce “persona naturale” “qualsiasi essere umano, compreso un bambino non nato”. Diversi gruppi antiabortisti stanno poi lavorando a un testo di legge che vieta l’interruzione di gravidanza a livello federale e riconosce al feto lo status di soggetto giuridico, estendendogli il diritto di ricevere un giusto processo (e quindi di essere riconosciuto come vittima di omicidio in caso di aborto).
Mentre la scienza preferisce parlare di viability, cioè di possibilità di vita autonoma del feto fuori dall’utero, e fissa il termine intorno alle ventitré-ventiquattro settimane di gestazione, quando si parla di aborto dal punto di vista etico la discussione si incentra sempre su quando inizi la vita umana. Ma la strategia dei gruppi antiabortisti e dei politici che li sostengono ormai è andata ben oltre: non potendo vincere un dibattito impossibile, sposta il centro dell’attenzione sul campo dei diritti. E lì, tra tecnicismi poco interessanti per l’opinione pubblica, colleziona piccole vittorie. È già successo con il ribaltamento della Roe v. Wade, anticipato da anni ma mai realmente prevenuto dalle forze democratiche con una legge che assicurasse la tutela del diritto di aborto. Potrebbe succedere di nuovo, con il riconoscimento giuridico del feto. E allora il problema non sarà più soltanto una multa nella corsia del carpool.