Recentemente, la notifica del tempo di utilizzo del tuo cellulare potrebbe aver cominciato a rappresentare una sorta di resa dei conti, il momento in cui le scuse con cui siamo soliti giustificare il tempo trascorso davanti allo schermo – il lavoro, la necessità di informarci, le comunicazioni urgenti – crollano inesorabilmente, sostituite da un istogramma colorato e dalla scritta: “Hai trascorso davanti allo schermo il 15% di tempo in più della settimana scorsa”. In un istante troppo rapido per consentirti di riflettere sulle ragioni di quell’aumento, ma sufficientemente lungo da far sorgere in te un fastidioso senso di colpa, potresti così aver cominciato a realizzare che quei 10 minuti trascorsi su TikTok prima di andare a dormire – o almeno provarci, viste le crescenti difficoltà a prendere sonno – si avvicinano sempre di più alle 2 ore; che scrollare compulsivamente la home di Instagram ogni volta che ti siedi sul divano non costituisce più un’eccezione, ma la normalità; o, ancora, che la scarsa attenzione che, l’altro giorno, hai riservato all’invito a pranzo della tua collega non è dipesa dalla necessità di rimanere concentrata sul lavoro, ma bensì dal pallino rosso improvvisamente apparso sull’icona di Tinder, segno di un possibile nuovo match.
Se ti rivedi, anche solo parzialmente, in questa descrizione, potresti rientrare in quella fetta di utenti a rischio di instaurare con la tecnologia un vero e proprio rapporto di dipendenza – fino al 25% delle persone europee, secondo l’Istituto Superiore di Sanità. Sebbene il fenomeno non sia mai stato riconosciuto ufficialmente dalla comunità scientifica (a differenza di altre dipendenze, la cosiddetta “dipendenza da internet” al momento non rappresenta infatti una patologia), complice un’intersezione di svariati fattori – il lockdown e il doomscrolling; la progettazione di algoritmi sempre più in grado di intercettare gli interessi degli utenti, nonché di piattaforme appositamente disegnate per produrre assuefazione; e la convinzione, sempre più diffusa, che la vita degli altri sia più interessante della nostra – negli ultimi anni il numero di persone con un rapporto problematico nei confronti della tecnologia ha continuato a crescere. Così, una volta divenute evidenti le conseguenze del fenomeno sul benessere individuale – quali maggior senso solitudine, un’autostima più bassa e, spesso, disturbi del sonno – negli ultimi anni è andata diffondendosi anche la promozione di una presunta soluzione, a sua volta sostenuta da una cultura e da un’industria intrinsecamente fondate sulla promozione della resistenza alle “tentazioni”: il cosiddetto digital detox.
La parola detox deriva dall’inglese detoxify, a sua volta derivata da detoxification, termine storicamente riferito alla rimozione di una sostanza tossica dal corpo. Se in origine tali sostanze coincidevano esclusivamente con l’alcol, con il passare del tempo la possibilità di “depurarsi” cominciò a riguardare qualsiasi elemento che, se ingerito, era in grado di produrre dipendenza, a partire dalle sostanze stupefacenti. Negli anni Trenta, infatti, complici la diffusione di nuove sostanze (soprattutto oppiacee) nel mercato degli stupefacenti e l’adozione di politiche profondamente repressive da parte del Governo, negli Stati Uniti si verificò un improvviso aumento del numero di persone detenute in carcere per reati legati alla droga, con la conseguente – duplice – necessità di ridurre la popolazione carceraria e contrastare, per quanto possibile, il problema della tossicodipendenza. L’avvento della cosiddetta detox culture favorì, così, la costruzione delle prime cliniche di riabilitazione per persone con problemi di dipendenza, strutture istituzionalizzate costruite – almeno in teoria – con l’obiettivo di accompagnare le persone nel loro percorso di disintossicazione.
La popolarità raggiunta dal concetto di detox non si limitò, però, ai contesti medici e riabilitativi. Nei primi decenni del Novecento, infatti, la proliferazione dell’industria della bellezza, unita alla prima diffusione della cultura della dieta – poi esplosa definitivamente a partire dal secondo dopoguerra – trovò nella possibilità di “disintossicarsi” lo slogan perfetto con cui accompagnare la promozione di creme e prodotti dimagranti, oltre a una serie di tecniche volte a “curare” il corpo da presunte patologie legate alla forma fisica. Nell’immaginario collettivo, il grasso corporeo cominciò così a rientrare fra le sostanze malevole di cui ogni persona aveva il dovere di liberarsi, assumendo che, per farlo, fosse necessario introdurre nell’organismo alimenti specifici o sostanze prodotte artificialmente.
Che si tratti di digital detox, riferito al temporaneo allontanamento da qualsiasi dispositivo elettronico; o di social detox, limitato cioè alla sospensione dell’utilizzo dei social network, i risultati promessi da chi sostiene la disintossicazione tecnologica non sono molto diversi a quelli previsti dall’industria cosmetica e alimentare: la creazione di un rapporto più sano con l’oggetto del desiderio (in questo caso, la sfera digitale); la riduzione degli effetti dannosi legati al suo abuso; e, non ultimo, una ridefinizione delle proprie priorità, il recupero di una socialità “tangibile” e il ritrovamento della propria dimensione umana, libera, cioè, dall’influenza di abitudini o sostanze ritenute superflue. Si tratta di un’affinità sostenuta, fra le altre cose, anche dalle numerose analogie che legano la semantica tradizionalmente riferita al mondo del cibo e alcuni concetti associati alla dimensione digitale, quali la necessità di “digerire” il flusso di informazioni, quella di sottoporsi a un “digiuno mediatico” o, ancora, quella di limitare la propria esposizione alle notizie, per non rischiare di incorrere in una sorta di “bulimia informativa”.
La narrazione del detox promosso da alcuni medici che sostengono diete particolari, focalizzata esclusivamente sulla possibilità di depurare l’organismo da sostanze dannose, o a volte presunte tali, esclude a priori la possibilità di indagare criticamente le abitudini alimentari delle persone, spesso legate anche alla loro disponibilità economica, alla loro cultura, al tempo a disposizione per cucinare e, non ultimo, alla propria salute mentale. Allo stesso modo, anche il concetto di digital detox focalizza l’attenzione esclusivamente sulle conseguenze negative che un rapporto disfunzionale con la tecnologia può generare sul benessere individuale, impedendoci così di individuare i fattori che, per molte persone, fanno sì che sbloccare il cellulare per accedere ai social costituisca sempre di più un automatismo, a volte l’unica o comunque la prima opzione che ci viene in mente nel momento in cui sentiamo il bisogno di intrattenerci, fino a perdere la cognizione del tempo e concludere la sessione di scrolling più stanchi, frustrati e insoddisfatti di prima. Per non parlare del fatto che, in alcuni settori lavorativi – come quello delle consegne a domicilio, della realizzazione di servizi da remoto ma anche, in alcuni casi, ad alcuni lavori domestici e di cura –, limitare la propria presenza online rischierebbe di tradursi nella perdita di nuove opportunità di lavoro, a conferma del fatto che la creazione di un rapporto più sostenibile con la tecnologia non può prescindere dalla promozione di nuove politiche di sostegno per le categorielavorative meno tutelate.
È sufficiente una rapida ricerca su Google per rendersi conto che anche quello del digital detox costituisce un mercato a tutti gli effetti. Dalla vendita di libri di auto-aiuto volti ad accompagnare i consumatori verso una presunta disintossicazione digitale, a quella degli indumenti da indossare in occasione del National Day of Unplagging – una ricorrenza che si celebra, negli Stati Uniti, ogni primo weekend di marzo –, il numero di aziende interessate a promuovere la cultura del digital detox al fine di monetizzarla è sempre più vicino a quello delle equivalenti specializzate nella produzione di tisane depurative, pillole brucia-grassi e prodotti per il dimagrimento. Paradossalmente, non è raro che a supportare la capitalizzazione del problema – attraverso, per esempio, la realizzazione di contenuti sponsorizzati – si ritrovino addirittura influencer e content creator, dalla cui attività sui social dipende non solo la qualità del rapporto con gli utenti, ma anche la visibilità garantita dall’algoritmo e la possibilità di collaborare con nuove aziende. A ciò si aggiunge, poi, la parallela proliferazione di un nuovo settore: quello dell’ospitalità tech-free, un nuovo segmento del turismo basato sull’organizzazione di ritiri, campi estivi per adulti e viaggi “all’insegna della rigenerazione” psico-fisica a contatto con la natura.
Ad accomunare tutti questi progetti non si ritrova solo il divieto di cimentarsi in qualsiasi attività che necessiti di una connessione internet – non è raro che, contestualmente al check-in, i visitatori siano tenuti a consegnare tablet e cellulari, privandosene fino al termine dell’esperienza. La promozione di attività lente, meditative e “disintossicanti” – come yoga, massaggi, passeggiate nel verde o esercizi di respirazione guidata –, in fondo, non è altro che il tentativo di soddisfare il bisogno sempre più impellente di estraniarsi, anche solo per pochi giorni, dai ritmi frenetici della nostra quotidianità, uscire dalle logiche competitive della società contemporanea per riprendere contatto con la propria dimensione umana, concedersi del tempo per pensare, parlare, annoiarsi. Il problema, però, è che nonostante l’effettiva capacità rigenerante di queste iniziative, che sono comunque meglio di niente e offrono a tante persone la possibilità di tirare il fiato almeno per un momento, è che nella maggior parte dei casi non sono e non possono essere sufficienti per riuscire a cambiare davvero le proprie abitudini, perché appena finiscono torniamo a immergerci negli stessi meccanismi dannosi e iper-performativi di prima, con l’impressione di avere più energie per mantenere la nostra stessa produttività che ci stritola.
Il disagio esistenziale che proviamo e che spesso imputiamo alle dinamiche che caratterizzano le nostre vite online, come se peraltro realtà analogica e realtà digitale costituissero due dimensioni separate e indipendenti l’una dall’altra – un’illusione che il sociologo Nathan Jurgenson definisce “dualismo digitale” – non dipende esclusivamente dalla tecnologia, ma anche e soprattutto da un sistema sociale fondato sull’iperattività, sull’accelerazione dei ritmi produttivi e sul bisogno di approvazione a tutti i costi, pena la perdita del nostro valore sociale e la frammentazione della nostra autostima. I social, in questo senso, non hanno fatto altro che amplificare gli stessi attributi che contraddistinguono buona parte degli ambienti lavorativi, scolastici e ricreativi offline.
Creare un problema per poi vendere la soluzione è una delle colonne portanti dell’economia capitalista, e la cultura del detox non fa eccezione. La ricerca dell’autenticità, della lentezza e di una gratificazione che vada oltre la semplice soddisfazione delle richieste del mercato, però, non può limitarsi ad alcuni rari (quanto inutili) periodi di estraniamento dalla propria routine, ma necessita di una rivalutazione delle priorità quotidiane di ogni individuo e ancor più dei meccanismi che regolano la nostra società.
L’esperienza del digital detox non è dannosa di per sé, ma rischia di diventarlo nel momento in cui si propone come l’unica alternativa esistente all’assuefazione da social network, come se non fosse possibile immaginare una quotidianità che, pur senza negarci la possibilità postare un contenuto su Instagram o compiere una ricerca su Google, non ci veda schiavi della rete o, addirittura, ci consenta di utilizzare la tecnologia a nostro vantaggio. Invece di assecondare l’ennesima mercificazione di un disagio, evidentemente molto più profondo e complesso di quanto la detox culture vorrebbe farci credere, una pratica di resistenza che, in quanto utenti, possiamo attuare è quella della cosiddetta “solidarietà algoritmica”, caratterizzata da alleanze fra esseri umani costruite proprio grazie alla rete. Ciò consentirà a ognuno di mettere in comune le proprie conoscenze, condividere le proprie esperienze e organizzarsi collettivamente, con l’obiettivo di alimentare il senso di comunità con chi ci sta intorno e avanzare le proprie istanze in modo coeso. Dalla possibilità, per chi lavora, di unirsi per richiedere allo Stato ritmi lavoro più sostenibili a quella, per chi abita nelle stesse aree urbane, di insistere per la costruzione di nuovi spazi aggregativi a cui poter accedere gratuitamente – come centri culturali, parchi e biblioteche –, è possibile avvalersi delle piattaforme online per migliorare la qualità della nostra vita offline, senza negarci l’accesso alla tecnologia, ma nemmeno limitarci a subirne passivamente gli effetti.