L’Italia è diventata famosa per essere un popolo di santi, poeti e navigatori. E se sicuramente al momento i poeti non se la passano tanto bene (anche se gli hanno concesso uno spazietto allo Strega), il nostro non è neanche un Paese per sognatori, ma nemmeno per i più pratici, chi vuole trasformare le proprie idee in qualcosa di concreto. Solo vincendo questo compromesso tra la purezza dell’astrazione o della fantasia e il tentativo di realizzarla possiamo provare a cambiare nel nostro piccolo la realtà in cui viviamo, ma fin da piccoli in questo Paese siamo educati a non puntare troppo in alto e a non sognare troppo in grande, cosa che – alla fin fine – di solito è semplicemente un suggerimento a rispettare i limiti della classe sociale a cui apparteniamo, evitare delusioni, cadute da cui è difficile rialzarsi. Soprattutto perché, nel nostro Paese manca una cultura dell’errore e dello sbaglio a vari livelli, da quello educativo a quello economico-finanziario, passando per la creatività, lo sport, l’etica, la deontologia e la morale. Se sbagli, se perdi, se fallisci, vieni segnato, e con te i tuoi figli, e magari anche i figli dei tuoi figli – a maggior ragione se non disponi di un capitale (o di una reputazione) capace di attutire il colpo. È anche per questo che più che di perdenti, o di falliti, termini che in Italia inquadrano negativamente una ben precisa categoria sociale, ho sempre preferito parlare di vinti.
Qualche tempo fa, chiacchierando, mi è capitato di usare questo termine, e appena l’ho proferito si è sollevata un’ondata di indignazione. L’impressione era che anche quella parola – sicuramente meno abusata delle altre – suscitasse un profondo senso di disagio, imbarazzo e vergogna, quasi fosse una sorta di insulto. Come se i vinti “non avessero lottato abbastanza” per non esserlo, quando la loro condizione è complementare a quella delle strutture di potere, uno scontro tra due forme, lo stesso che si replica da migliaia di anni quando i valori di una minoranza si scontrano con quelli di una maggioranza. Sembra che questo termine si trascini con sé l’idea che i vinti siano per qualche ragione peggiori dei vincenti, “inferiori”, proprio perché “non ce l’hanno fatta”. Ma le cose non sono così lineari e consequenziali.
C’è tutto un filone di personaggi letterari “vinti”, emersi tra fine Ottocento e inizio Novecento, che tanto mi consolarono da adolescente e che trovano una delle migliori incarnazioni in Tonio Kröger, nella sua consustanziale – congenita – fragilità, che è poi quella di una certa figura di “artista”. Tonio Kroeger – l’inadatto, l’impacciato – è colui che, al contrario di quello che poi diventerà il suo demiurgo, Thomas Mann, si sente destinato a essere – e quindi finisce per essere – diverso, perennemente escluso dalla società – “Un borghese su strade sbagliate”. Se una volta quindi a incarnare questa figura erano gli artisti, le persone con disturbi mentali, le personalità istrioniche che non accettavano di uniformarsi ai costumi sociali, scienziati, filosofi o intellettuali che proponevano visioni per l’epoca in cui vivevano eversive, oggi sono tutti coloro, che per un motivo o per l’altro non stanno al passo, o perché si muovono troppo lentamente, o troppo veloci, o magari su una traiettoria diversa, coloro che faticano a entrare nelle maglie che organizzano il nostro modo di stare al mondo. Ma spesso è il terreno che battono loro quello da cui nascono le idee più innovative, che per forza di cose portano con sé anche una buona dose di sovversione. D’altronde, i grandi inventori furono sempre figure scomode, spesso osteggiate dal sistema che deteneva il potere – basti pensare a Galileo Galilei tra i tanti. La fantasia, la capacità di sognare l’impossibile, trova posto e nutrimento solo nello spazio di risulta, nel sottobosco che sfugge all’occhio attento della norma, il luogo della libertà e del potenziale. Ogni tanto, d’altronde, tra le pagine della storia – scritta dai vincitori, com’è noto – riesce a emergere comunque l’ombra di qualche grande, commovente, geniale, stupendo vinto, che ancora può insegnarci tanto. Spesso sono donne, come Maria Anna Mozart, Fanny Mendelssohn, Camille Claudel, oppure Mileva Marić, la prima moglie di Einstein, quella che nelle università viene tuttora presa in giro dai professori “perché gli faceva i conti”. Ma chissà quante e quanti ce ne sono stati oltre a loro.
Eppure, questo participio passato – in cui chi perde si trasforma nell’oggetto conquistato, dominato dal vincitore – suscita tuttora sdegno. Come se nel non gareggiare e, ancor peggio, nel non primeggiare, ci fosse qualcosa di moralmente sbagliato, riprovevole, da nascondere. “Non ti sei impegnato abbastanza”, “È bravo ma non si applica”, “Si vede che non lo volevi davvero”: chiunque si è sentito ripetere almeno una volta nella vita una di queste frasi, e il confine tra il fondo di verità che portano con sé e il pregiudizio è molto sottile e a volte subdolo. Come se ci ostinassimo a non riconoscere l’evidenza secondo cui i nostri percorsi sono tutt’altro che frutto dei nostri sforzi, della nostra volontà e del nostro presunto libero arbitrio, in una parola del nostro “merito”, ma derivano invece da una sintesi composta in gran parte anche da spinte sociali, fattori etnici e di genere, orientamento sessuale, magari razzismo, sessismo od omofobia subiti, pattern comportamentali ereditati, accesso agli studi, e pregiudizi cognitivi esterni che danno forma alla cultura in cui viviamo, tutto intersecato. Questa consapevolezza – invece che sottrarci qualcosa, o sminuire chi ha avuto successo – è fondamentale per evolverci e progredire, non in quando singoli, slegati dal contesto, ma collettivamente, come società e specie umana, soprattutto oggi, in un mondo globalizzato, in cui è chiaro quanto siamo tutti profondamente interconnessi e quanto un benessere pieno sia un benessere ampio, inclusivo, democratico e non esclusivo e inaccessibile. Le grandi innovazioni, infatti, portano a rivoluzioni sociali che cambiano il mondo, e non solo la vita di chi sta al vertice.
Forse perché ho iniziato a sbagliare fin da piccola, smitizzando sulla mia pelle una ferita alla volta prima la cultura del merito e poi quella del fallimento, la figura del vinto mi ha sempre affascinata profondamente, ben più di quella del vincente – sempre più lineare ed educata nel suo non sfondare mai gli argini di ciò che è consono fare e cosa no. E ovviamente, in quanto donna, ho dovuto pagare ancor più salato ogni passo falso. Purtroppo e per fortuna i miei genitori – e ancor prima i miei nonni – mi hanno insegnato a non credere nella meritocrazia, nei voti, nei pezzi di carta appesi a un muro. Il resto lo ha fatto la vita nel piccolo paese in cui sono cresciuta, senza che potessi immaginarlo, impegnandosi a mostrarmi ben presto quanto il vivere associato degli esseri umani fosse iniquo e fondato sul compromesso, sull’omissione – di verità, di soccorso – e sulla dominazione. La piccola città in cui andai a studiare, e in cui speravo di sfuggire alla vita del paese, me lo confermò, e via a seguire le successive fughe e i cambi di scala e di latitudine, fino a conquistarmi a mie spese la profonda certezza della verità del detto “Tutto il mondo è paese”. Tuttavia, sapevo che il valore di una persona – oggi come mai – raramente corrisponde ai risultati che le vengono riconosciuti o che ottiene. Alcune delle migliori persone che conosco hanno vissuto e sono morte in miseria, spesso sconosciute, talvolta isolate. Sono le persone che ho cercato di più e da cui ho anche imparato di più, o forse semplicemente le cose più importanti per la mia formazione. In cuor mio mi dissi che se mai avessi raggiunto – per caso, per fortuna, per impegno – qualcosa, avrei voluto invece far onore a quel piccolo, impossibile, fortuito, tassello, e usarlo per dissacrare certi falsi miti e credenze. Anche per questo è importante che ogni tanto, qualche vinto, qualcuno che sa cosa voglia dire fallire, alzi la testa, arrivi in cima, anzi, è fondamentale, proprio per concretizzare alcune istanze fondamentali per la democrazia e non solo. È raro, ma accade.
David Elkind, professore alla Tufts University, psicologo dell’età evolutiva e autore del saggio The Hurried Child, pubblicato per la prima volta nel 1981, dopo 29 anni di insegnamento universitario disse che era stanco di studenti che avevano adottato le tattiche dei loro genitori, ritraendosi di fronte alle critiche e cercando di influenzarlo per gonfiare i voti, a volte persino assicurandosi l’intervento dei genitori stessi. Si augurava invece che i genitori si sarebbero concessi il lusso di non preoccuparsi più per le lettere di ammissione al college quando i figli stavano ancora seduti sul seggiolone. Anche la giustificazione che li spingeva – e li spinge tuttora – a gettare i bambini in un sistema di competizione così presto e così brutale, col desiderio di migliorare il loro futuro economico in un’epoca di grande incertezza, gli sembrava priva di fondamento. Coloro che con più probabilità avrebbero avuto successo nell’economia di domani, fondata sul capitale delle conoscenze e delle competenze, secondo lui non sarebbero di sicuro state “anime stanche”, costrette sin piccole a destreggiarsi nel memorizzare nozioni, quanto persone libere e creative, capaci di risolvere i problemi in modo fantasioso e avere un pensiero indipendente: “Un giardiniere non può affrettare la maturazione dei pomodori!”.
Nella condizione dei vinti, ancor più disarmata per certi aspetti, di quella delle vittime, mi è sempre parso ci fosse un preziosissimo fulcro centrale. Una sorta di mollusco ipersensibile e doloroso in cui però si racchiude una qualità dell’esistenza che alla fin dei conti è davvero la parte più umana di noi, la consapevolezza devastante del dolore che ci unisce tutti, e che ci rende buoni, generosi, tolleranti, compassionevoli, come nient’altro. Chi ha perso qualcosa, chi ha sbagliato più volte, o magari chi aveva fatto tutto giusto ma per uno strano caso del destino si è visto sbattere una porta in faccia, entra in contatto con l’enorme complessità della vita e della realtà che abitiamo, dove a volte le relazioni di causa-effetto sembrano essere difettose, e aprono la voragine dell’angoscia, dell’incontrollabile.
Questa quindi vuole essere una piccola ode aI vinti – ai falliti – coloro che – per un motivo o per l’altro – non sono mai riusciti a credere alla competizione, ne hanno subito fatto cadere la maschera; coloro che si sono sfilati al sistema di regole – fondate sull’uniformità e sul dominio – della società industriale classica. Nel tempo si sviluppa una sorta di radar, ci si impara a riconoscere, anche perché non è affatto detto che una persona apparentemente arrivata, apprezzata, stimata non sia parte di questo gruppo silenzioso, che maneggia il mondo sì con grande comprensione e cautela, ma anche con lo stupore che suscita qualsiasi grande mistero, e a volte si ostina a trasformare i suoi sentimenti in realtà, senza pretese di controllo e paura di non farcela, sentimenti che portano a restringere lo sguardo e il campo d’azione, per paura di non farcela, e che ci fanno credere di poter trasformare i nostri sogni e desideri in realtà solo a scapito degli altri. Come cantava Francesco De Gregori ne La leva calcistica della classe ‘68 la bravura di un giocatore non la vedi da un calcio di rigore, ma dall’altruismo e dalla fantasia. Solo che a differenza del 1982 – anno in cui uscì la canzone – ce lo siamo dimenticati.